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2. Gian Luigi Prato 17.04.1997

Bibbia > 5° Corso biblico: Messianismo. Liberazione o alienazione? (1997)



trascrizione integrale

L'Antico Testamento alle origini del messianismo



SOMMARIO

I. La formazione e l'autorità dell'Antico Testamento
1) L'Antico Testamento nel periodo in cui si è formata la concezione giudaica del messianismo era solo un nucleo di testi autorevoli, ma non esisteva formalmente come tale né esisteva una Bibbia ebraica.
2) Concezioni messianiche posteriori non vanno proiettate sull'Antico Testamento.

II. Il messianismo ricondotto alla sua origine etimologica: l'unzione.
1) L'unzione dei re (Saul, Davide, Salomone, loas, loacaz, leu, Hazael di Damasco): i dati testuali fanno supporre che si sia voluto subordinare la regalità al profetismo mediante la pratica di un'unzione che di per sé poteva significare solo conferimento di un incarico specifico (non una consacrazione).
2) L'unzione dei sacerdoti e del sommo sacerdote è istituzione postesilica che tende ad assumere carattere sacrale.
3) Le unzioni di oggetti, per lo più cultuali, vanno giudicate con altri criteri.

III. Il personaggio Davide
1) L'esaltazione storiografica di Davide adotta i canoni dell'ideologia regale, secondo i quali la regalità scende dal cielo ed è garante di giustizia.
2) Le origini storiche di questo processo di esaltazione di Davide vanno forse ricercate nella crisi provocata dalla caduta del regno di Israele (721 a.C.; si vedano i testi isaiani).
3) II modello davidico è stato applicato anche ad altri personaggi (Ezechia, Giosia).

IV. La restaurazione postesilica
1) Si instaura una società teocratica e si ridimensiona il modello davidico-regale.
2) Le figure di Zorobabele e di Giosuè possono essere considerate all'origine di una doppia concezione “messianica” (regale e sacerdotale; si veda però l'incertezza testuale di
Zac 6,13).

V. Il periodo maccabaico e asmoneo (ll°-l° sec. a.C.)
1) II modello davidico viene rievocato dalla storiografia maccabaica (la quale è però rifiutata dal giudaismo posteriore).
2) Si accentua l'aspetto della persecuzione e della sua necessaria rivendicazione, trasferendo quest'ultima in un tempo escatologico.



Nell'incontro precedente abbiamo parlato del messianismo come fenomeno culturale della nostra tradizione che si richiama alla Bibbia, rilevando che la Bibbia, oltre ad essere il testo sacro dell'ebraismo e del cristianesimo, funziona anche come punto di riferimento di una cultura che si forma all'interno di queste tradizioni religiose ed in tal senso esercita un influsso determinante.
Il messianismo si inserisce in questo ambito culturale. È un fenomeno di cultura biblica più che una concezione biblica.

Abbiamo poi cercato di individuare quali sono le due componenti maggiori della nostra concezione del messianismo: da un lato la vaga attesa di una soluzione finale della storia e dall'altro la concretizzazione di queste speranze in una persona. Queste due componenti si possono ritrovare in qualche modo nella tradizione biblica, ma su un piano analogico.

Abbiamo rilevato inoltre che dal punto di vista storico si può parlare effettivamente di messianismo solo dopo che il giudaismo ha assunto una sua configurazione particolare, in seguito agli eventi del 70 d.C., ossia dopo la distruzione di Gerusalemme.
Tutto quello che fa parte del testo biblico (Antico e Nuovo Testamento) offre solo un contributo alla formazione di questa idea, per cui non vi è un messianismo specifico o particolare all'interno degli scritti biblici che si possa contrapporre ad un altro messianismo, poiché tale concezione era ancora in via di formazione nel periodo in cui è stata scritta la Bibbia.

Dobbiamo ora verificare queste affermazioni prendendo in considerazione l'Antico Testamento.



I. La formazione e l'autorità dell'Antico Testamento

Non solo non si può parlare di un messianismo chiaro all'interno dell'AT, ma quest'ultimo ci offre solo qualche spunto, qualche elemento che in una interpretazione successiva può essere inteso in senso messianico. Infatti, come dicevamo nel precedente incontro, il messianismo deve chiarire innanzitutto a se stesso i termini con cui si esprime in una determinata cultura, deve cioè operare una verifica di tipo ermeneutico per poter poi funzionare sul piano storico nel reperire l'origine degli elementi di cui si compone.
È solo in questa prospettiva che possiamo rivolgerci all'AT.

1) È opportuno precisare che per effettuare questa ricerca non dobbiamo guardare all'AT in quanto tale e così denominato, ossia come alla prima parte della Bibbia cristiana: da questo punto di vista, infatti, esso è stato definito AT in base a un NT, rispetto al quale si pone in una correlazione sistematica. Naturalmente ciò è stato possibile quando un gruppo di scritti è venuto a formare il NT. Prima che ciò avvenisse (e quindi anche nel periodo in cui si è andata elaborando una concezione messianica in seno al giudaismo) non esisteva ancora formalmente un AT, anche se esisteva l'idea di una Scrittura autorevole.
L'AT, in questa nostra prospettiva di ricerca, va esaminato quindi nel suo semplice aspetto contenutistico, come documentazione di tradizioni storiche che sono state recepite in quei testi, nella misura ovviamente in cui essi sono ancora in grado di testimoniarle.

2) Questo procedimento metodologico è necessario per evitare di intraprendere una strada sbagliata, che consisterebbe nel voler ricercare nell'AT un'idea già preformata di messianismo, deducendola magari dal NT. Infatti, partendo dal presupposto che il NT ci presenti una qualche forma di messianismo, per esempio quello legato alla figura di Gesù, ci si rivolge spesso all'AT per trovarvi sostanzialmente una conferma.

Questo è un procedimento indebito sul piano della ricerca storica, non solo perché l'AT che qui ci interessa non è la realtà che in sede teologica può venir posta a confronto con il NT, ma anche perché, per il tema di cui ci occupiamo, ciò significherebbe, tra l'altro, monopolizzare il messianismo in senso cristiano, come se l'unico messianismo eventualmente testimoniato dall'AT fosse solo quello cristiano o meglio cristologico.
Questa appropriazione non sarebbe corretta, perché il patrimonio culturale e religioso confluito nell'AT è molto più vasto di quanto risulti dalla canalizzazione neotestamentaria e cristiana.
La tradizione ebraica considera infatti come suoi questi stessi scritti e bisogna tener presente, inoltre, che la canonizzazione di questi scritti in un AT ha comportato l'esclusione di altri che sul piano storico sono altrettanto importanti, forse ancora più importanti, per capire l'origine e l'evoluzione di alcuni fenomeni religiosi e culturali, tra cui il messianismo.



II. II messianismo ricondotto alla sua origine etimologica: l'unzione

Possiamo cominciare il nostro esame dall'aspetto etimologico, o meglio, da quanto è sottinteso nella terminologia legata al messianismo.
Com'è noto, messia vuol dire “unto” e messianismo corrisponde più o meno al nostro termine “unzione”, oppure a ciò che è collegato a un'unzione o che da essa deriva. Da questa connessione etimologica e semantica verrebbe spontaneo dedurre che l'unzione sia un gesto indispensabile per conferire a un personaggio un compito “messianico”, e che attraverso di esso tale personaggio diventi un “consacrato”.
Ma nella storia dell'antico Israele, nella misura in cui ci è riportata dai testi che dobbiamo esaminare, quali personaggi venivano unti, e quali oggetti, e che cosa significava propriamente l'unzione?
Nell'AT si parla dell'unzione di re e di sacerdoti (anche se il termine “unto” è applicato pure a qualche altra figura) e di unzione di oggetti (soprattutto cultuali).


1) Non sono unti tutti i re del regno di Israele e del regno di Giuda, ma solo alcuni (e pochi rispetto al loro numero complessivo) e per di più i testi presentano talvolta alcune difficoltà.

Si parla della unzione di Saul, all'inizio della monarchia.
Si annuncia la sua unzione da parte di Samuele (
1 Sam 9,16) e poi Samuele lo unge come “capo” (naqhid = capo, principe) e non come “re” (1 Sam 10,1). Samuele rievoca tuttavia tale gesto dicendo che il Signore lo ha inviato per ungere Saul come re (melek) (1 Sam 15,1-17). È quindi Samuele, ossia un profeta, colui che compie l'unzione.

Poi si parla dell'unzione di Davide, ma in varie forme.
Da un lato è ancora Samuele che lo unge a Betlemme (
1 Sam 16,3-12s.). Tra l'altro, quando Samuele, in questa circostanza, osserva uno dei figli di lesse, di nome Eliab, ritenendolo il designato, domanda: «È forse davanti al Signore il suo unto?». Né costui né Davide, in quel momento, sono ancora “unti” e ciò significa che il termine viene usato quasi come un titolo, una funzione, indipendentemente dal fatto che l'unzione sia compiuta o meno.
Davide poi viene unto a Ebron come re di Giuda da parte degli uomini di Giuda (
2 Sam 2,4-7) e anche come re di Israele da parte degli anziani di Israele (2 Sam 5,3-17; 1 Cr 11,3; 14,8). Quindi Davide è unto da un profeta, ma anche dagli uomini di Giuda e dagli anziani di Israele (e ci possiamo chiedere come sia possibile una tale unzione comunitaria).
Inoltre, altrove è il Signore che dice di aver unto Davide re di Israele (
2 Sam 12,7; cfr. Sal 89,21).

Si accenna anche ad una unzione di Assalonne, benché non diventi re, o per lo meno, benché non salga al trono come successore di Davide.
Gli Israeliti piangono perché Assalonne, che essi avevano unto (senza peraltro che si dica per quale motivo), è morto in battaglia (
2 Sam 19,11). Probabilmente Assalonne era stato designato come re da parte di un gruppo, che non è riuscito a prevalere.

Per Salomone si dice dapprima che il sacerdote Sadoc e il profeta Natan devono ungerlo presso la fonte del Gichon (
1 Re 1,34), ma di fatto è solo Sadoc che compie l'azione (1 Re 1,39), mentre poco dopo Gionata, figlio del sacerdote Ebiatar, afferma che sono stati ambedue, Sadoc e Natan, gli autori dell'unzione (1 Re 1,45).
Chiran, re di Tiro, sente dire semplicemente che Salomone è stato unto re al posto di suo padre (
1 Re 4,15).
In un altro passo tuttavia si dice anche che a Gabaon si fece una festa durante la quale «proclamarono di nuovo re Salomone, figlio di Davide, lo unsero al Signore come capo (
naghjd) e unsero Sadoc come sacerdote» (1 Cr 29,22).
Queste affermazioni creano qualche difficoltà e infatti già le versioni antiche (la greca, nel codice Vaticano, la siriaca e l'araba) hanno eliminato l'avverbio “di nuovo” (in
1 Cr 23,1 si dice che è stato Davide a nominare Salomone re di Israele), ma resta il fatto che l'unzione qui è compiuta dal popolo e Sadoc, anziché conferire l'unzione, la riceve lui stesso dal popolo.
Quindi Salomone da un lato è unto da un sacerdote (ma dovrebbe essere unto anche da un profeta) e dall'altro è proclamato e unto dal popolo.

Nella storia del regno di Giuda, ossia del regno del Sud, ricevono l'unzione solo altri due re, in momenti storici particolarmente critici.
Uno di questi è loas, che ha regnato nella seconda metà del sec. IX° a.C.
loas è ancora un bambino, il cui padre Acazia era succeduto al nonno loram, ma aveva regnato solo un anno. Alla sua morte prematura la regina Atalia, moglie di loram, aveva voluto sterminare tutta la dinastia regale, per regnare da sola. Una zia del piccolo loas, però, lo aveva salvato, nascondendolo nel tempio. Il sacerdote loiada, dopo 6 anni, capeggiò una rivolta che portò loas sul trono.
A questo punto il testo ebraico dice: «Fece uscire il figlio del re e gli impose il diadema e le insegne e lo proclamarono re e lo unsero» (
2 Re 11,12); i soggetti di queste azioni non sono chiari; la versione greca ha tutti i verbi al singolare, per far apparire il sacerdote loiada come autore di tutti i gesti descritti, anche se il suo nome può essere dedotto solo dal contesto.

Ancora un re di Giuda è unto, alla morte di Giosia (601 a.C.).
Giosia aveva operato una riforma i cui frutti rischiavano di andare perduti con la sua morte improvvisa, a Meghiddo. Allora, come dice il testo, «il popolo della terra prese loacaz, figlio di Giosia, lo unse e lo proclamò re al posto di suo padre» (
2 Re 23,30).
In questo caso a compiere l'unzione è il “popolo della terra”; si usa un'espressione caratteristica che designa uno strato sociale inferiore.

Se si prescinde da Saul, Davide e Salomone, solo due re del regno di Giuda (loas e loacaz) vengono unti.
Nel regno del Nord viene unto soltanto un re, leu, che non è di dinastia regale ed è scelto come re nel momento in cui si vuole fare cadere la dinastia di Omri, che ha tradito la religione jahvista e ha introdotto l'idolatria.
Il signore comanda ad Elia di andare nel deserto di Damasco e di ungervi Cazael come re di Aram, e di ungere poi leu, figlio di Nimsi, come re di Israele ed Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al suo posto (
1 Re 19,15s.). È però uno dei figli dei profeti, inviato non da Elia, ma da Eliseo, ad ungere leu, a Ramot di Galaad (2 Re 9,1-12).

Per le altre due unzioni, quella di Cazael e quella di Eliseo, non si parla della loro esecuzione. Eliseo riceve solo lo spirito di Elia (
2 Re 2,9-15) e per Cazael è strano che un re di Aram, ossia né di Israele né di Giuda, debba essere unto da un profeta di Israele.

Per terminare la rassegna, resta da dire che si nomina ancora l'unzione nell'apologo di lotam, dove tutti gli alberi rifiutano la regalità, mentre solo il rovo si dichiara disposto ad essere unto re su di loro (
Gdc 9,15).
Infine, in
Sal 45,8 si afferma che Dio unge l'eroe di cui si sta parlando, e dal v. 2 si può dedurre che si tratta di un re.

Cosa si può dedurre da tutti questi testi?
Sembra che si parli di unzione dei re nei momenti critici, quando cioè si tratta di legittimare una successione che non è molto chiara.
Saul è il primo re, Davide gli succede in una maniera strana, non essendo figlio di Saul, Salomone è figlio di Davide e di Betsabea, con cui il re aveva compiuto adulterio, e riesce a prevalere su altri pretendenti al trono, loas è fatto re tramite una rivoluzione di palazzo e loacaz nel momento in cui si temeva che cadesse la monarchia di Giuda, leu diviene re nel momento in cui si vuole purificare la contaminazione idolatrica della dinastia di Omri.
Assistiamo insomma ad un processo di legittimazione che riscontriamo anche altrove nel Vicino Oriente antico, ad esempio nel mondo ittita, dove nei momenti critici della successione dinastica si pone in atto una teologia che intende legittimare la successione.
Qui ciò avviene mediante l'unzione, che viene conferita spesso da un profeta: si vuole subordinare cioè la monarchia all'istituzione del profetismo, con l'intento di legittimarla e controllarla in nome di Dio.

Tuttavia è anche il popolo che conferisce l'unzione; questo è un po' strano, ma può essere capito se si tiene presente quale sia il significato dell'unzione.
Nel mondo contemporaneo di Israele non si usava l'unzione per i re; anzi era il re che ungeva altri per conferire loro una carica. Solo nel mondo ittita si praticava un'unzione per installare i re nel loro ufficio. In linea generale, dunque, l'unzione è solo lo strumento attraverso cui si conferisce una funzione o una carica limitata. Con l'unzione del re, si conferisce loro la funzione del governo [si ricordino i casi in cui il personaggio viene unto come “capo” (
naohid) e non espressamente come re].
Il profeta è colui che, in tal senso, rende legittimo l'incarico conferito, il quale resta dunque limitato in se stesso e ben circoscritto rispetto ad altre funzioni.
Non si tratta pertanto di una consacrazione né del conferimento di compiti universali.


2) L'unzione è riservata anche ai sacerdoti e prima di tutto al sommo sacerdote.
Ma per quest'ultimo non abbiamo elementi precisi e chiari che ci consentono di capire se nell'epoca preesilica esistesse l'istituzione del sommo sacerdozio.
I testi parlano dell'unzione di Aronne e dei suoi figli (
Es 29,7; 40,3; Lv 6,13; 8,13), ma si tratta di una retroproiezione della scuola sacerdotale di epoca tardiva, esilico-postesilica, come pure sono tardivi i testi in cui si parla del «sacerdote che ha ricevuto l'unzione» (Lv 4,3.5.16; 6,15; anche il testo già citato, in cui si dice che Sadoc è stato unto, è tardivo: 1 Cr 29,22).
Gli altri sacerdoti vengono unti per estensione, ossia attribuendo a un gruppo più vasto quanto è detto di Aronne o del sommo sacerdote.

Dal lato storico le nostre conoscenze sono dunque molto limitate.
Inoltre, sembra anche che l'unzione del sommo sacerdote intenda conferirgli un incarico regale. Infatti le vesti e le insegne che vengono riservate al sommo sacerdote sono diverse da quelle degli altri sacerdoti e richiamano piuttosto un abbigliamento regale (si veda
Es 28 e 39).
Nel momento in cui, dopo l’esilio, non esiste più la monarchia, il sommo sacerdote ne assume l’eredità.

Solo in un secondo momento l’unzione ha assunto un carattere sacrale, ed è venuta a significare una separazione o l'assunzione della persona entro uno spazio particolare.
Ma questo è avvenuto anche in relazione ad una mutata concezione della società israelitica, che ha assunto sempre di più una connotazione teocratica; non solo il governo era esercitato da una classe sacerdotale, ma la concezione del sacro ha assunto un'importanza rilevante, come si constata dall'ossessione sin troppo radicale di definire una sfera di purità (riservata a persone e ad oggetti) che doveva essere preservata da ogni sorta di contaminazione.
La sacralizzazione della unzione è quindi un fenomeno più recente che ha trasformato un significato più profano e limitato, che consisteva nel conferimento di una qualche funzione tra cui quella del governo.


3) Anche gli oggetti vengono unti, oltre alle persone, ma il significato in questo caso può essere diverso.
Quando Giacobbe si reca dal suo parente Labano nell’alta Mesopotamia, per sfuggire a suo fratello Esaù, si addormenta servendosi di una pietra come guanciale e in sogno vede una scala attraverso cui angeli di Dio salgono e scendono dal cielo, mentre il Signore gli promette una terra e una discendenza. Risvegliatosi, erige quella pietra come una stele e la unge, facendo poi davanti ad essa una solenne promessa.
Quella pietra assume funzione di un testimone e l’unzione intende forse conferirle una potenza particolare, oppure la consacra alla divinità.

I testi della scuola sacerdotale parlano poi di un'unzione degli oggetti riservati al culto (per esempio in
Es 40,9s la Dimora, ossia il santuario o la tenda del convegno, con tutto quello che vi è dentro, l’altare degli olocausti con tutti i suoi arredi, la conca e il suo piedistallo).
Si tratta qui chiaramente di una consacrazione che sottrae quegli oggetti dalla sfera della profanità, per collocarli nella loro esclusiva funzione culturale.

Riassumendo, per quanto riguarda le persone l'unzione non ha perciò originariamente carattere di consacrazione e di separazione, ma è solo conferimento di un incarico specifico e limitato.
In tal senso sono unti alcuni re, come si è visto, e anche originariamente il sommo sacerdote.

Non vengono unti altri personaggi.
Storicamente, ad esempio, i profeti non assumono il loro incarico attraverso un'unzione (nonostante l'unzione prevista per Eliseo nel testo di
1 Re 19,16, già visto), anche se in alcuni casi si usa questo verbo, il suo participio passivo, per indicare una missione di tipo profetico: così per Ciro in Is 45,1 e per il personaggio che parla di sé in ls 61,1, e in tal senso persino i patriarchi, in quanto profeti, possono essere definiti “unti” (Sal 105, 15; per Abramo definito “profeta” dal faraone cfr. Gen 20,7).

Per quanto riguarda anzi il participio passivo “unto”, alcuni studiosi fanno osservare che la forma usata nel testo ebraico non è quella usuale richiesta dalla grammatica ebraica (
mashyah), ma è mashiah (da cui appunto “messia”), ossi di tipo aramaico, e quindi recente (almeno nel contesto linguistico dell'AT, non in rapporto dell'aramaico in sé, che è lingua dai confini storici e geografici più ampi rispetto all'ebraico biblico).
Tuttavia
mashiah in ebraico potrebbe essere inteso non come participio passivo ma come aggettivo, la cui forma è abbastanza comune (si veda per esempio hasid “pio”, asir “legato” o “catturato”, bahir “eletto”).
È interessante però che in uno dei dizionari ebraici più quotati (Kohler - Baumgartner, II vol., pp. 609s.) per la voce
mashiah si dia il significato di “unto” per il re, per Ciro, per i sacerdoti e per i patriarchi, ma per il significato di “messia” si dice che il termine non viene mai usato nell'AT per indicare un salvatore escatologico.
L'“unzione” e l'“unto” non hanno quindi significati “messianici” nei testi dell'AT.



III. Il personaggio di Davide

Un altro elemento che sembra determinante per la formazione del messianismo riguarda il personaggio Davide. Il messia, nella concezione giudaica posteriore, dovrebbe discendere dalla dinastia davidica (il “figlio di Davide”), quando addirittura non è un Davide redivivo.

Che cosa si può dire però del Davide dell'AT, come re storico e come figura significativa a cui ci si richiama nella storia posteriore? Perché proprio Davide è divenuto un modello ideale?

1) Anzitutto, dal lato storico stupisce il fatto che, quanto più si parla di Davide nella Bibbia, tanto meno lo si trova testimoniato fuori della Bibbia, nel mondo a lui contemporaneo.
E questo vale anche per Salomone.
Come mai due personaggi che secondo il testo biblico hanno fondato un regno così vasto, non hanno lasciato alcuna traccia di sé sul piano storico e archeologico?
Al di là della Bibbia, i nomi di Davide e di Salomone non sono mai attestati.

Recentemente nell'estremità settentrionale dello Stato di Israele sarebbe venuta alla luce un'iscrizione che, secondo una possibile traduzione, parlerebbe di una “casa di Davide”, ma questa interpretazione è assai controversa, poiché il testo consonantico si presta a diverse letture.
Inoltre, anche nel caso in cui si trattasse del nome proprio Davide, resterebbe da precisare se si tratti del personaggio biblico e che cosa significhi esattamente “casa di Davide”.
Ad ogni modo, si tratterebbe di una testimonianza molto limitata, che non sminuisce l'impressione di un personaggio assai modesto dal lato storico, ma ingigantito ed esaltato nella descrizione che di lui e del regno ci ha lasciato il testo biblico. La sua figura non è stata forse idealizzata?

Nella descrizione storiografica posteriore, egli viene visto infatti alla luce della ideologia regale, assai diffusa nel Vicino Oriente antico, secondo la quale la regalità proviene dal cielo.
Un re è legittimo in quanto investito di una regalità che gli è conferita dalla divinità, e in questa sua funzione egli garantisce l'ordine e la giustizia sulla terra.
Celebri sono in proposito i testi mesopotamici secondo cui vari re detengono il potere, per volere divino e per un lunghissimo tempo prima del diluvio, mentre, dopo il diluvio, il periodo del loro governo si restringe sempre di più entro limiti cronologici più realistici.

La promessa di una dinastia perenne (
2 Sam 7), vista in questa prospettiva non è tanto un favore personale che Dio riserva a Davide, ma è garanzia di stabilità e di ordine, fondata su una divinità che assiste un re e un popolo soprattutto nei momenti particolarmente difficili della storia.
L'idealizzazione di Davide corrisponde quindi ai canoni di una storiografia abbastanza comune, che può essere stata utilizzata in un qualche momento della storia successiva.


2) Quando va collocato un simile momento?
Probabilmente si è cominciato a parlare di Davide in tale luce quando è caduto il regno di Israele, nel 722/721 a.C. Il regno di Giuda, che era riuscito a sopravvivere, fu seriamente minacciato dagli Assiri nel 701 a.C. ma cadde definitivamente con la presa di Gerusalemme, nel 587 a.C.
Era necessario spiegare questa fine dei due regni. L'idealizzazione della figura di Davide è iniziata probabilmente con la caduta del regno di Israele: in un re di Giuda si è riposta la speranza di una sopravvivenza nazionale.
Ma dopo la fine del regno di Giuda, questa figura è stata esaltata ancora di più (si vedano i Salmi): egli rappresentava gli inizi gloriosi della monarchia, la quale era stata distrutta per una infedeltà a una legge divina. Si è cercata, cioè, nello stesso tempo, una spiegazione alla fine della monarchia, e la si è trovata su un piano teologico ritenendo che fosse dovuta alla trasgressione di un volere divino, manifestato attraverso una legge, sia da parte del popolo che da parte dei re di Israele e di Giuda.
Nella narrazione biblica che riguarda la storia della monarchia, infatti, tutti i re sono condannati per questa infedeltà, tranne Davide, Ezechia e Giosia.


3) Si è andata creando così la figura di un re modello che in parte è stata applicata anche a due successori di Davide.
In Ezechia, giudicato retto perché aveva imitato Davide (
2 Re 18,3), si è riposta una speranza di sopravvivenza, dopo la caduta del regno di Israele, ed è a questo momento che risalgono i primi testi di Isaia che parlano della nascita di un figlio di Acaz padre di Ezechia (Is 7,10-16), e di una speranza per il popolo garantita dal trono di Davide (Is 9,1-6) e dal germoglio che spunterà dalla radice di lesse (Is 11,1-9).

Giosia, da parte sua, viene esaltato perché ha imitato la condotta di Davide (
2 Re 22,2), in quanto ha operato una riforma con cui ha eliminato altri culti, a favore di quello jahvista.
In fondo è solo per un caso che ci si è appellati a Davide e se ne è fatto un modello, probabilmente perché con lui si è inteso esaltare il periodo iniziale della monarchia, anche Ezechia o Giosia avrebbero potuto diventare il re ideale, a cui ci si sarebbe potuti richiamare per fondare la speranza in una restaurazione futura di un Israele, punito da Dio per sua colpa.



IV. La restaurazione postesilica

In epoca esilico-postesilica si sono andate formando alcune concezioni che, opportunamente riprese e reinterpretate, avranno un peso determinante nel giudaismo posteriore.

1) Anzitutto, come già abbiamo accennato, è in questo periodo che si va affermando un regime teocratico. Non ci sono più capi politici, ma il governo della nazione ideale viene attribuito a Dio e ai sacerdoti. L'istituzione del sacerdozio assume perciò maggiore importanza.

Si ridimensiona pertanto il modello davidico (affermato certo in alcuni testi profetici, come per esempio in
Ger 30-31 ed Ez 34 e 37), ma esso viene sempre più inserito in una visione che prospetta per l'avvenire un duplice potere, politico e sacerdotale, sempre nell'ambito di questa nuova società ideale.

Il regno di Giuda non è stato restaurato quindi nelle sue dimensioni politiche. La rinascita accordata dal governo centrale persiano ha permesso che la teocrazia di Gerusalemme acquistasse un certo potere, ma le autorità persiane pur nella loro equità amministrativa, hanno guardato al piccolo territorio rappresentato un tempo dal regno di Giuda (e anzi ancora più ristretto) come ad un territorio che permetteva uno sbocco verso il Mediterraneo, senza intromettersi in questioni interne.

2) Sembra che a Gerusalemme nel primo periodo postesilico vi fossero due figure dominanti, una politica e l'altra religiosa: un governatore chiamato Zorobabele ed un sommo sacerdote chiamato Giosuè.
Ne parlano i profeti Aggeo e Zaccaria, ma i testi attribuiti a questi due profeti hanno forse subito delle alterazioni con cui si è cercato di dare minore importanza alla figura del capo politico, il governatore Zorobabele, che era, tra l'altro, di dinastia regale, poiché discendeva dall'ultimo re di Giuda, loiachin.
Zorobabele è stato nominato governatore di Gerusalemme nel primo postesilio; aveva quindi un suo potere particolare e godeva di una certa autonomia. Accanto a lui vi è, con analoghe prerogative sacrali, la figura del sommo sacerdote Giosuè. I testi, nella loro tradizione, tendono però ad attribuire a quest'ultimo un potere maggiore, superiore a quello politico: essi infatti sono formulati secondo i canoni della società teocratica che è prevalsa all'interno.

Possiamo citare un esempio, dal quale risulta anche come sia difficile interpretare i testi che sono stati poi intesi in senso messianico.
Si tratta di Zaccaria 6, 12-13, dove si parla del “germoglio”, a cui già abbiamo accennato nel precedente incontro. Il v. 12 afferma: «Tu dirai a lui: Così dice il Signore degli eserciti; ecco un uomo, germoglio è il suo nome e germoglierà da se stesso e ricostruirà il tempio del Signore».
Ci si riferisce chiaramente a Zorobabele, perché è lui che ha ricostruito il tempio. Al verso 13 così si continua: «Egli ricostruirà il tempio del Signore e solleverà la gloria (= avrà gloria, onore) e siederà e dominerà sul suo trono e sarà sacerdote sul suo trono e una comunità di pace sarà tra i due».
Il testo è un po' contorto, soprattutto quando afferma che il “germoglio” che regnerà sul suo trono sarà anche sacerdote sul suo trono. Sembra che si vogliano identificare due persone, o per lo meno parla del capo politico chiamandolo anche sacerdote.

La versione greca è più precisa: parla di Zorobabele come capo politico, ma dove il testo ebraico dice: ”sarà sacerdote sul suo trono” traduce: “e sarà il sacerdote alla sua destra”.
Quindi il sacerdote sarà un'altra persona, che siede alla destra di colui che è sul trono: tra i due vi deve essere una “comunità di pace”, ossia il loro potere sarà pacifico e armonicamente distribuito.

Si potrebbe però vedere anche nel testo ebraico un tentativo di coartare o intendere diversamente l'affermazione, di per sé più comprensibile, del testo greco, nel senso che si vuol attribuire il potere che spetta a due funzioni diverse, quella politica e quella sacerdotale, a una sola persona, nella quale devono prevalere caratteristiche sacerdotali: il sacerdote viene dunque a sedere sul trono (di per sé regale).
Secondo questa interpretazione, il testo greco rifletterebbe uno stadio più antico del testo ebraico, che in seguito sarebbe stato trasformato in modo da rendere più evidente il predominio del potere sacerdotale.

Le versioni moderne di solito preferiscono il testo greco, ma operano comunque un salto che non lascia intravedere la storia del testo. Comunque sia, sorge in questa società del postesilio la concezione dei due poteri, che sarà più tardi nei testi giudaici.



V. II periodo maccabaico e asmoneo (II°-I° sec. a.C.)

Alla fine del nostro itinerario storico, coperto più o meno dai testi dell’AT, troviamo il periodo maccabaico o asmoneo (a partire dalla metà del II sec. a.C.).
Siamo ora in un'epoca in cui dopo alcuni secoli di dominio straniero, persiano e poi greco (prima con i Tolomei d'Egitto e poi con i Seleucidi di Siria), si era riusciti ad ottenere una certa autonomia nel territorio degli antichi regni di Israele e di Giuda attraverso quella che viene presentata come la ribellione dei Maccabei, una famiglia discendente da un certo Asmoneo, da cui prende nome la dinastia che continuò a governare anche sotto i Romani, finché non fu sostituita da quella degli Idumei (con Erode il Grande).

La storiografia relativa a questa sollevazione maccabaica (possediamo 4 libri dei Maccabei, di cui i primi due fanno parte dei libri biblici cosiddetti deuterocanonici) è una specie di epopea nazionalista che descrive le imprese dei Maccabei con tratti in parte leggendari, seguendo particolari modelli.

1) Le conquiste dei Maccabei ricalcano in qualche misura quelle di Davide e di Salomone, per cui il regno ricostituito è altrettanto ampio come agli inizi.
Quando riescono a prevalere, costoro rivestono prerogative regali e attribuiscono a sé anche il sommo sacerdozio, volendo quasi realizzare su un terreno politico concreto quella teocrazia (ideale) che si era andata affermando dopo l'esilio.
I Romani, intervenuti anche per sanare dissidi interni, porranno fine in pratica al loro potere, ma ciò rappresentò una grande delusione in coloro che avevano riposto grandi speranze in quel tipo di società e in quel regno che si era potuto realizzare quasi per un secolo.
Qualcuno tende a vedere in questo momento di crisi il preludio o il movente principale di quel genere di prospettive che, ulteriormente elaborate, porteranno alla concezione del messianismo.
Va però tenuto presente che il giudaismo successivo ha rifiutato la storiografia maccabaica, perché non ha voluto vedere nella società creatasi in quel periodo qualcosa che corrispondesse ai suoi ideali di restaurazione, i quali hanno assunto invece sempre di più una connotazione escatologica.

2) In quello stesso periodo, o poco prima, si da una interpretazione radicale alle persecuzioni subite da parte dei dominatori stranieri, in particolare dei Saleucidi, tra cui soprattutto Antioco IV° Epifane.
Benché tali persecuzioni dal lato storico vadano notevolmente ridimensionate (anche perché vi sono testimonianze che rivelano come a Gerusalemme e nel tempio si desse un notevole spazio a un tipo di culto che potremmo chiamare sincretistico), di fatto esse sono state intese come oppressione dell'uomo giusto, o di una collettività giusta, e a tale ingiustizia Dio avrebbe dovuto necessariamente porre rimedio. Se questa azione divina non si attua nel presente, dovrà manifestarsi in un futuro indeterminato.

Se nel libro dei Maccabei la vittoria di questi ultimi può essere interpretata già come una specie di rivendicazione, nel libro di Daniele la vittoria finale di Dio e dei suoi giusti viene proiettata in uno spazio cosmico dai toni escatologici, e sarà una vittoria non più semplicemente politica, ma che coinvolgerà anche il regno dei morti: coloro che hanno subito una morte ingiusta dovranno “risvegliarsi” per essere partecipi di una vita gloriosa (
Dn 12,1-3).

L'accentuarsi di una visione escatologica della storia ha contribuito senza dubbio, assieme ad altri elementi, a far emergere più tardi una concezione messianica della propria storia.



VI. Conclusioni

Alla fine di questo itinerario, non certo esaustivo, possiamo renderci conto che l'AT non contiene ancora l'idea di quel messianismo che si è venuta sviluppando in tempi più recenti. Non si può dunque utilizzare l'AT come prova scritturistica di una concezione messianica della storia, se si vogliono assumere i testi per quello che dicono realmente.

Per concludere, dobbiamo allora puntualizzare almeno due cose.

1) L'AT contiene solo degli elementi sparsi, che di per sé non sono riconducibili ad un sistema o ad una concezione coerente.
Ciò vale già su un piano più generale (si discute infatti fino a che punto sia possibile dedurre dall'AT una teologia biblica) ma è vero anche per quel che riguarda tematiche più precise, per le quali gli scritti dell'AT, così vari, presentano sempre una varietà di aspetti talvolta addirittura contraddittori.
Per il messianismo, non solo non lo si ritrova, ma le sue componenti non sono forse neppure ancora mature a sufficienza per confluire in quella visione globale della storia, che noi chiamiamo appunto messianica.

2) Occorre dunque un'interpretazione ulteriore di tali elementi.
Essa si è andata elaborando nel corso di una storia successiva, che è stata come l'epilogo di quella società che già si era affermata a partire dall'epoca postesilica. Il messianismo si affermerà chiaramente solo attraverso quell'epilogo, e dopo di esso. Cercheremo di mostrarlo nel prossimo incontro.



DIBATTITO


1. Ricordando il suo discorso sul messianismo senza messia, volevo chiedere se e quanto è giustificato assumere come messia il popolo di Israele. Se ciò è vero, può tale assunzione aver contribuito al riconoscimento, da parte della comunità, della divinità di Cristo e quindi del messia-Cristo rispetto al messia-popolo di Israele?

Non direi che vi sia una concezione messianica del popolo come tale, almeno nella fase rappresentata dall'AT, ma neppure nel giudaismo successivo.
Vi è certo una concezione del popolo di Israele che si afferma sempre di più in funzione apologetica. In alcune preghiere (in Giuditta, in Ester, nel cap. 36 di Ben Sira) ci si rivolge a Dio perché esalti Israele, in modo che gli altri vedano come è grande il Dio di Israele, soprattutto se Dio rinnova i fatti portentosi di un tempo. Non direi che questa visione di Israele come faro tra i popoli possa chiamarsi messianica.
Il messianismo fa leva su altre rivendicazioni, collegate a una persecuzione o a una fase di oppressione. Nei testi dell'AT si parla anche del “popolo della terra” (come abbiamo visto per l'elezione l'unzione del re loacaz, in
2 Re 23,30). Questa concezione può aver contribuito, a suo modo, a sviluppare l'idea di una rivendicazione nella misura in cui questa componente sociale, nell'ambiente postesilico, poteva rappresentare una classe inferiore, dominata da una élite che era rappresentata soprattutto da membri della casta sacerdotale.
Anche in questo caso, però, si è ancora lontani dal messianismo. Non credo perciò che si possa stabilire un qualche collegamento tra queste concezioni del popolo e la cristologia del NT.


2. Lei spesso ha messo in relazione la notevole elasticità e la libertà di interpretazione che esiste nel mondo giudaico nei confronti della Bibbia ebraica, che si esprime anche nella concezione della “Torah orale” accanto a quella scritta. Come bisogna interpretare allora il fondamentalismo ebraico di oggi, se è vero che le azioni odierne hanno le loro radici nella storia passata, almeno nella concezione della storia che prevale in Occidente?
Una seconda domanda riguarda i molteplici falsi messia che prima della venuta di Cristo e subito dopo si sono proclamati tali nel mondo ebraico. Il concetto di messia era popolare nella società giudaica, ossia si aspettava la nascita di un messia nella immaginazione e nella cultura popolare.


Quanto alla seconda domanda, sappiamo che nella storia dell'ebraismo sono sorte diverse figure che si sono proclamate messianiche, con esiti però spesso catastrofici, per sé e per i loro seguaci.
Si è trattato di una appropriazione esclusiva (e personale) di una concezione che in quanto tale non si presta ad incarnarsi negli eventi contingenti di una qualsiasi storia limitata nel tempo. Spesso sarebbe bastato solo un semplice senso delle proporzioni per accorgersi del dislivello che si veniva a creare tra le speranze messianiche, di portata universale, e l'eventuale successo immediato che un sedicente messia poteva ottenere sul momento.
Inoltre, i messianismi contingenti, illusori per chi li vede dall'esterno, rischiano di creare nei loro seguaci sentimenti accentuati di vittimismo, a giustificazione del loro fallimento.

Quanto alla prima domanda, è un dato di fatto che i cristiani hanno la Bibbia e la tradizione che interpreta la Bibbia nell'ambito di una Chiesa. L'ebraismo ha una sua tradizione che garantisce l'interpretazione della Bibbia, ma si configura in maniera diversa. La Torah orale possiede infatti la stessa autorità di quella scritta, e non è posteriore ad essa, ma parallela.
Nel suo ambito si possono esplicare le attività interpretative più varie, come attestano del resto le numerosissime sentenze dei rabbini raccolte nel patrimonio della letteratura ebraica (
Mishna, Talmud, Midrash).
Poiché di per sé il ventaglio delle opinioni è molto vasto, non si può parlare propriamente di un fondamentalismo. Quello che ci appare forse come fondamentalismo, è l'attaccamento dell'ebraismo alla propria tradizione, più che ad un'interpretazione “ufficiale” della Bibbia, ma ciò di per sé non significa chiusura.
Ciò che è ammirevole nel mondo ebraico è il fatto di saper trovare sempre una filosofia della storia che non è rigida ed esclusiva, anche se ciò non si nota sempre sul piano pratico o addirittura politico: si pensi ad esempio ai movimenti estremisti che caratterizzano l'attuale panorama sociale dello Stato di Israele (ma l'estremismo è purtroppo una triste eredità anche di altre tradizioni religiose, come quella islamica e quella cristiana).


3. Mi ha fatto un po' paura l'ultima frase del suo schema: “Si accentua l'aspetto della persecuzione e della sua necessaria rivendicazione, etc.”. Ma cosa dobbiamo aspettarci?

Forse la formulazione può essere inadeguata, ma la frase vuole riassumere il fenomeno storico delle persecuzioni.
Io non dico che cosa oggi dobbiamo aspettarci, dico semplicemente che allora, di fronte ad alcuni fenomeni interpretati come una persecuzione, si è pensato che Dio necessariamente deve rivendicare quelli che sono stati perseguitati e che sono periti, deve cioè intervenire.
Questa è una concezione molto profonda. Se noi facciamo nostro quanto è detto nel
Miserere, riconosciamo che siamo disposti a riconoscere noi peccatori purché Dio sia giusto (Sal 50,6). Ci rendiamo conto di quello che diciamo? Dio deve essere giusto, altrimenti non è Dio. E si vendica proprio per rimanere giusto.


4. Nella relazione veniva correlata la formazione graduale della ideologia messianica con la società che la richiede. C'è quindi un prima ed un dopo. A me interessa che si sottolineino le caratteristiche della società che non la giustificava ancora, quella precedente, perché a questo punto mi sorge una domanda che di per sé non riguarda solo la Bibbia: una volta generata l'ideologia, questa continua a sopravvivere anche quando la società non la richiede più; essa diventa una realtà capace non solo di reggere, ma anche di comprimere una storia che la supera.

Per forza di cose ho dovuto restringere l'argomento. Ho usato l'espressione “società teocratica” forse un po' indebitamente, perché il termine “teocrazia” lo troviamo solo in Giuseppe Flavio e non prima. Si è formulato un modello di società sulla base di tale parola, una società dove il governo è esercitato in un ambito sacro, che può essere rappresentato da una classe sacerdotale o anche da una classe politica. Di questa società postesilica dal punto di vista storico non sappiamo quasi nulla. Abbiamo i testi biblici, ma sono molto ridotti. Sono scritti in funzione di una restaurazione, fino in pratica al periodo ellenistico.
Gran parte dell'AT è nato in questo periodo, per quanto riguarda almeno la redazione dei testi, per cui le concezioni in voga nella società israelitica di quel momento vi hanno lasciato la loro traccia. La società teocratica del postesilio noi la deduciamo da questi testi, i quali quindi ci lasciano intravedere molto poco della società preesilica, e soprattutto delle sue ideologie.
Tale società ci può essere documentata quasi più dalle testimonianze extrabibliche dell'ambiente storico ad essa contemporaneo, che non dalla Bibbia. Israele infatti, dal lato storico, si inserisce bene nel suo mondo religioso e culturale. Questo mondo è caratterizzato senz'altro dalla presenza del divino, e anzi ogni popolo o gruppo ha il suo dio particolare (Milcom per Ammon, Chemosh per Moab e IHWH per Israele), ma la società che ne deriva, pur non potendo essere definita “laica” in senso moderno, non è contraddistinta da un governo diretto della sfera sacrale, come nel caso della società israelitica postesilica (almeno su un piano ideale). Un conto è la concezione della regalità che discende dal cielo, per cui il potere politico viene esercitato in rappresentanza di una divinità, e altra cosa è l'idea per cui una casta sacerdotale (separata dal resto della società) esercita un dominio che tende a divenire esclusivo.


5. Se facessimo un sondaggio di opinioni, quanti di voi si aspettano che ci sarà la giustizia in questo mondo? Sulla base dell’esperienza di questi anni mi faccio un'idea e ritengo che ci può essere un 10% di persone per le quali la giustizia non è di questo mondo, un certo numero di persone per le quali la giustizia già c'è, e sono quelle che stanno bene, e poi tutte le altre, per le quali la giustizia c'è e non c'è.

Che ci si debba attendere una giustizia è speranza ed attesa di tutti i tempi, quindi anche nostra. Però chiediamoci: qual è l'immagine che ci poniamo davanti quando vogliamo precisare meglio questa speranza? È qui che si inserisce il discorso del messianismo.
In questo senso il realizzarsi di questa speranza è legato ad un evento finale che comporta qualcosa di negativo: essa non si attua attraverso un progresso lineare e privo di traumi. Pensiamo alle diverse manifestazioni del messianismo nelle ideologie sociali moderne. Ora, questa concezione è proprio frutto della cultura che chiamiamo biblica ed è diversa da quella che troviamo diffusa in altri contesti culturali dell'antichità, dove è viva l'idea che la giustizia è già realizzata dalla divinità e la storia ha solo il dovere di conservarla e renderla manifesta.



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