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6. Armido Rizzi 22.05.1997

Bibbia > 5° Corso biblico: Messianismo. Liberazione o alienazione? (1997)



trascrizione integrale


Terra promessa e popolo eletto



SOMMARIO

Inquadramento biografico; il “Messianismo nella vita quotidiana” (a cavallo tra gli anni '70 e "80) come via stretta tra enfatizzazione della politica e ripiegamento sul privato (anche spirituale).
Le più recenti indagini sull'Esodo e sui Salmi: carattere paradigmatico di questi testi.

L'Esodo come grande
Itinerario simbolico di definizione dell'umano.

I. La liberazione: dalla Divinità come genius loci al Dio “trascendente-condiscendente” e universale.
Il correlato umano: dal popolo di stirpe divina al “popolo eletto” (oscillante tra esclusione e rappresentatività).

II. La formazione del popolo eletto: il deserto e la fede (“non di solo pane vive l'uomo, ma della parola di Dio” Dt 8).
Contro la paura (
Mt 6) e contro l'illusione dell'autosufficienza (Lc), saldi sulla roccia (soprattutto Salmi e Profeti).

III.
La formazione del popolo eletto: l'amore-giustizia: “lo straniero, l'orfano e la vedova” (testi legislativi e profetici).

IV.
La donazione al popolo eletto: la terra promessa
- la pienezza, oggetto del desiderio (dimensione antropologica)
- la promessa e la realtà (dimensione teologica)
- la condizione: cuore e mondo (dimensione etica).
Quindi: né la passata età dell'oro, né il futuro
regnum utopicum, ma l'“oggi” del presente come dono e come compito.


(n.b. Nel prossimo incontro si vedranno alcune riprese di questo paradigma nella storia dell'Occidente, evidenziandone luci e ombre).



Sul foglio distribuito ho fatto una specie di premessa chiamata “inquadramento biografico” che mi è parso utile per spiegare il passaggio dal tipo di esposizione storico-letterale fattavi negli incontri precedenti sul messianismo a quello che sembra essere un altro tema: la terra promessa.
Per spiegare questo passaggio da un tema ad un altro all'interno della bibbia noi dobbiamo uscire per un momento dalla bibbia per poi rientraci; è questo il senso della noticina biografica, o meglio autobiografica.

Messianismo, messianico e messia sono termini che nel vocabolario italiano hanno assunto un significato che va al di là di quello che ha nella tradizione strettamente biblica, un significato che è la dilatazione di quello originario che vi è stato già spiegato nei precedenti incontri.
Messianismo è venuto a significare da un lato l'immagine, il sogno di un futuro pieno, perfetto, dall'altro, e proprio per questo, il rischio che questa immagine di futuro perfetto annidi, porti dentro di sé una componente di illusione. Dire messianico significa dire ad un tempo in molti contesti la pienezza, la ricchezza, la perfezione dell'utopia, ma anche la inflessione verso l'utopistico: bello come l'utopia, troppo bello per essere vero.

Questa ambivalenza della famiglia lessicale (messianico e messianismo) è stata vissuta nei suoi due momenti da una parte consistente della chiesa cattolica, negli anni ‘70 nella sua dimensione positiva ed a cavallo tra gli anni '70 ed '80 con la prevalenza della dimensione critica ed in qualche modo demistificatrice.
Anni '70: teologia della liberazione in America Latina, cristiani per il socialismo, comunità ecclesiali di base. È stato il momento in cui si è sposata l’attesa, la speranza di un domani diverso: non semplicemente diverso in senso riformistico (allora una delle parole deboli e guardate con molto sospetto per la sua insufficienza), ma in senso rivoluzionario.
Dal punto di vista della coscienza ecclesiale da parte di strati abbastanza ampi, soprattutto di giovani, ci fu lo sposalizio con la dimensione utopica del futuro e la ricerca all'interno delle scritture bibliche, soprattutto di quelle ebraiche e di Gesù, di un fondamento, delle ispirazioni, delle motivazioni.
Fine degli anni 70 e prima metà degli anni '80: con quella che potremmo dire la prima caduta del muro di Berlino, cioè la caduta ideale, la implosione (la esplosione dal di dentro) dell'utopia rivoluzionaria che si legava in un modo o nell'altro, pur con diverse preferenze per questo o quell'autore, alla grande tradizione marxista e che anticipò di un buon decennio la caduta reale dei regimi comunisti, ci fu la presa di coscienza del carattere ampiamente illusorio di quel sogno rivoluzionario.
La disillusione portò, non solo all'interno delle comunità cristiane di base ma soprattutto all'esterno, alla caduta nel riformismo o a quello che venne chiamato il trionfo del privato.

Dentro questa temperie, un gruppo di amici teologi che operavano allora a Milano attorno ad una libreria che fungeva da centro culturale, tra i quali voglio ricordare Mario Cuminetti morto un anno e mezzo fa, si incontrò a ripensare la radicazione dell’utopia messianica nelle Scritture per vedere se quella radicazione fosse stata una proiezione di nostri desideri all'interno delle Scritture bibliche oppure se avesse bisogno di essere reinterpretata, demitizzata (nel senso proprio di demitizzazione che non è la espulsione del mito ma la sua reinterpretazione in chiave critica).
Insieme abbiamo compiuto un lavoro che poi io ho proseguito personalmente una volta lasciata Milano per andare a Fiesole, dove vivo tuttora. Il lavoro compiuto è stato pubblicato in un libro
Messianismo nella vita quotidiana. Dunque messianismo sì, ma “nella vita quotidiana”, cioè all'interno di una situazione che non è mai acquisita una volta per tutte e che non ha mai un contorno di perfezione e di pienezza, ma che tuttavia non si rassegna mai al trionfo dell'esistente.

Non è che si partisse da quest'ultima rilettura per poi andare a trovare la radicazione od il fondamento nella Bibbia, ma viceversa si partì dalla Bibbia per capire come quell'innegabile afflato utopico che circola in buona parte dei testi biblici andasse riletto in modo meno enfatico, meno suggestionabile di come forse diversi di noi avevano fatto allora e tuttavia senza rinunciare a quella dimensione utopica che sembra fare corpo con la stessa coscienza ebraica prima e cristiana dopo.

Alcuni anni più tardi, però, ripresi con un piccolo gruppo di amici, che settimanalmente seguitano a venire a Fiesole per fare insieme una lettura biblica, il motivo dell'Esodo, che era uno dei libri più amati dalle comunità di base: non soltanto il libro specifico ma tutta la configurazione, dalla schiavitù in Egitto alla terra promessa.
Ho lavorato molto negli ultimi venti anni sulla Bibbia, fondamentalmente lungo la linea accennata, non perché mi sia sempre imposto di cercare a tutti i costi, affannosamente, il tema di un messianismo nella vita quotidiana, ma perché ho visto che quel tema, quel sogno, è consustanziale al testo ed alla coscienza biblica.

È per questo che quando mi venne chiesto di parlare sul messianismo ho suggerito di cambiare il lemma con questi altri due: “la terra promessa” e “il popolo eletto” e quindi la coniugazione tra i due.
“La terra promessa” sta infatti a sottolineare il carattere di una figura che non si riferisce solo a quel pezzo di terra che gli Ebrei secoli fa hanno conquistato, ma ad un grande simbolo, grande paradigma di una utopia, di una attesa, di un futuro migliore.
Ed al tempo stesso “il popolo eletto” esprime la soggettività che da una parte coltiva questa attesa e dall'altra pone la condizione essenziale perché questa attesa possa verificarsi.
Ho fatto questa lunga premessa per giustificare il passaggio dalla semantica del messianismo a quello della elezione e della terra promessa.

Rileggerò ora il racconto dell'Esodo cercando di farne emergere la dimensione paradigmatica, cioè quella che permette a quel racconto di alimentare sogni dentro contesti diversi e tuttavia tali che possono dirsi davvero figli di quel primo sogno, il sogno di una terra promessa.
Lo faccio a modo di racconto e commento su un itinerario, quello che va dalla schiavitù alla terra promessa, che è in qualche modo itinerario di definizione dell'umano, di ciò che è essere veramente uomo.

Questo itinerario si scandisce in quattro tappe, sia geograficamente: l'Egitto, il deserto, il Sinai e la Palestina (Canaan), che cronologicamente (cronologia e geografia hanno più un valore simbolico che reale): il periodo in cui Israele vive in Egitto, l'uscita ed il pellegrinaggio lungo il deserto, l'alleanza ossia il dono della legge, e finalmente l'approdo alla terra promessa.



I. La liberazione

La prima tappa è singolare perché inizia con il profilarsi di una realtà che non è quella del soggetto umano, su cui pure punta la nostra attenzione, ma di quell'altro soggetto che chiamiamo Dio.
Quando Israele pensa alla propria permanenza in Egitto, la fissa sotto la duplice condizione di stranieri e schiavi: stranieri dunque senza identità, schiavi dunque usati come
instrumentum animatum (avrebbe detto Aristotele), strumenti per realizzare un progetto con il quale non possono identificarsi (si pensi alle piramidi).
Ma proprio dentro questa condizione umana di stranieri e schiavi, quindi di inidentità, di non-popolo, si profila un'altra identità, ed è quella del divino.

La liberazione di Israele dall'Egitto, luogo di schiavitù, di estraneità e inidentità, è preceduta dalla liberazione di Dio, dell'immagine di Dio, da quella che era stata la sua configurazione nei popoli di quell'area, ossia la divinità come
genius loci. Una concezione del divino per cui gli dei degli egiziani sono dei egiziani; vale a dire la “egizianità”, che qualifica dall'interno l'appartenenza a quella terra da parte di coloro che vi abitano, qualifica dall'interno anche i loro dei.
Non c'è un soggetto umano, un “uomo” che poi si specifica come egiziano, ma l'essere uomini è l'essere egiziani, e lo stesso valeva per i babilonesi, per gli andini, etc. (l'etnocentrismo è un fenomeno mondiale e non limitato all'Europa come noi crediamo: i gruppi sono originariamente autocentrici, identificano se stessi con l'umano). Questo investe anche l'immagine del divino: non c'è Dio, ma gli dei egiziani, babilonesi etc.

Nel cap. 2 del racconto dell'Esodo, dopo aver presentato la condizione di partenza di schiavitù e di inidentità degli Ebrei, il narratore dice che gli Ebrei sotto il peso della loro condizione piangono, gemono, gridano ed il grido giunge a Dio.
Notate: non dice che “gridano a Dio“. In altre versioni, come in
Dt 26, c'è una retrospettiva, dentro il contesto dell'offerta delle primizie, in cui si dice: “gridarono a Dio"; ma nel racconto dell'Esodo, che potremmo dire in diretta, c'è la versione: “gridarono, e Dio percepì, ascoltò quel grido, lo accolse e si chinò, si ricordò di Abramo, Isacco e Giacobbe ed accolse il grido, etc.“.

Qui mi interessa sottolineare questa dimensione: quel Dio non è ancora il Dio degli ebrei, così come non è certo il Dio degli egiziani. È un Dio di nessuno. Qui compare un divino che non è definito dalla sua appartenenza ad un gruppo umano.
Noi diamo per scontato che quando diciamo Dio ci riferiamo all’“essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra” o comunque a sue varianti. Dal Dio di Platone, di Aristotele, a quello di Newton od anche a quello delle religioni mediterranee, Dio è Dio unico. Ma questo non è stato il punto di partenza nella percezione del divino da parte dei gruppi umani. La visione originaria del divino, almeno in occidente (comprendendo in esso anche l'area in cui si trovava Israele che oggi chiamiamo medioriente) era quella del dio etnico (in oriente le cose sono un po’ più complesse).

Il pensare a Dio senza definizione di appartenenza con degli umani è stato un lungo processo. È nell'Esodo che compare per la prima volta la percezione di un Dio “trascendente” (cioè non etnico) che da questa trascendenza si fa “condiscendente”: si china su, ascolta, si ricorda, si prende pensiero di. C'è quindi una trascendenza-condiscendenza dove la trascendenza è accennata per quel tanto che basta per dire che c'è la condiscendenza.
È dunque una presenza che si interessa a questo gruppo di stranieri e schiavi non perché sia il suo popolo, ma perché questo gruppo è senza identità. Invece di avere un legame di natura intrinsecamente ebraica, questo Dio che si prende cura degli ebrei è un Dio che ha una sua realtà, e perciò può liberamente occuparsi di loro.

Questa trascendenza condiscendenza poi diventerà l'immagine del Dio dei cieli che dai cieli si china a guardare come dice il Salmo 115: «Dio abita nei cieli ed ha dato agli uomini la terra da abitare», e così altri Salmi come il 113 dove è scritto che Dio si china a guardare e vede il povero diavolo emarginato e la povera donna sterile ed allora ricostituisce l'emarginato all'interno della comunità e dà alla donna sterile la gioia di avere dei figli.

Tutto ciò non è altro che l'applicazione ai casi individuali del grande gesto originario dove Dio ha cominciato a costituire la dotazione di identità di un gruppo, di una consistente minoranza che, vivendo in mezzo agli egiziani senza essere egiziana e capitata lì attraverso varie vicende, dopo aver perso il prestigio che inizialmente aveva, si trovava ad essere straniera e schiava senza identità e sottoposta al tallone pesante degli egiziani.



II. La formazione del popolo eletto: il deserto e la fede

Allora Dio si presenta e comincia una storia, vuole che anche il popolo ebraico da un non-popolo diventi un popolo. Ma popolo di chi? Ogni popolo ha un suo dio, ogni dio ha un suo popolo. Bene: voi sarete il mio popolo, ma non nel modo in cui gli dei egiziani hanno come loro popolo gli egiziani, cioè per quel cordone ombelicale che lega l'uno all'altro, ma per l'altra forma di legame che è la elezione, legame posto da una libertà, non da un modo di essere connaturale, genetico. Io scelgo voi per essere mio popolo, popolo eletto e prediletto.

Successivamente i membri di questo popolo capiranno che quel Dio, sbucato fuori da chi sa dove, è il Dio di tutti popoli. Era stato da sempre il Dio di tutti i popoli anche di quelli che non sanno che Egli è il loro vero Dio e che quindi si sono creati altri dei.
Israele avrà anche espressioni molto forti, per noi oggi forse non più accettabili: gli altri popoli si sono costruiti i loro dei che sono idoli fatti da mano d'uomo, mentre noi abbiamo come nostro Dio non un Dio che ci siamo fatti noi, ma Colui che è veramente Dio e che da parte sua ha scelto noi.

Questa è una grande rivoluzione, una delle grandi rivoluzioni della coscienza nella storia umana. Prima la ridefìnizione del divino come trascendente-condiscendente e poi la presa di coscienza che quel divino non poteva essere che divino universale e dunque il rapporto di questo popolo e di quel divino, di quel Dio, non poteva che essere un rapporto di elezione, di libera scelta da quella parte e di libera accettazione da quest'altra.

Come primo punto la liberazione di Dio comporta la liberazione di questo popolo dalla schiavitù d'Egitto e l'avviarlo verso una identità di popolo. Il secondo ed il terzo punto costituiscono i due tratti fondamentali dell'identità di questo gruppo come popolo di Dio.

Il secondo punto rappresenta il lungo cammino nel deserto per il quale mi sembra emblematica, come forse nessun'altra, la citazione che si trova nel cap. 8 del Deuteronomio, che poi viene ripresa da Gesù nei Vangeli quando risponde alle tentazioni: «non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Nel contesto originario questa frase non vuol dire, come poi invece verrà interpretata soprattutto nella tradizione cristiana, che così come c'è una parte dell'uomo che vive di pane c'è una parte superiore che vive del pane spirituale che è la parola di Dio. Il significato originario è: tu certamente vivi di pane (che sta per tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere: l'abitazione, il lavoro, l'amicizia, la sessualità, tutti i beni dell'esistenza umana), ma tutto questo ha il suo fondamento nella parola di Dio in quanto promessa: sono io a dirtelo e dunque devi fidarti di me.

Allora il deserto è il simbolo straordinario della fiducia in Dio, non come diventerà poi: fare un po' di deserto con gli esercizi spirituali, alimentare l'anima della parola di Dio.
Nel contesto biblico il deserto ha il significato di condizione invivibile, ripetuto diverse volte nei testi narrativi del Pentateuco, nei Profeti e qualche volta anche nei Salmi. Luogo invivibile perché non si può piantare, non si può mangiare, non si può installare se non una piccola tenda, non si può abitare, non si può costruire, ci sono gli animali selvatici e quindi si è a rischio.

Bisogna attraversare questo luogo fiduciosi che non mancherà nulla di quello che Dio ha promesso per proseguire il cammino.
Il deserto, luogo invivibile, diventa per miracolo il grande luogo della vivibilità. Testi ricchi di miracoli, rispetto a tutte le scritture bibliche, sono il racconto dell'Esodo, qualcosa dei racconti dei profeti come Elia, ed infine i racconti dei miracoli di Gesù.
Nell'Esodo fioriscono i miracoli come possibilità che il luogo invivibile venga vissuto: dal luogo arido scaturisce l'acqua, piove ogni giorno lo strano pane (la manna, un cibo quotidiano), piovono le quaglie, l'acqua amara diventa dolce, se si è punti dai serpenti si viene guariti guardando un certo oggetto, etc.
Non sono miracoli
ad abundantiam, sono miracoli che fanno trasferire l'esistenza di questo gruppo in cammino dalla insufficienza della invivibilità del deserto alla sufficienza.

Questo è quello che la coscienza biblica chiama la vita di fede, non come adesione intellettuale alla verità delle dottrine, ma come atteggiamento esistenziale.
Lì dove io sono, accanto a me, sotto di me, attorno a me, sopra di me, c'è questa presenza ad avvolgerti che è la stessa che la prima volta ha accolto il tuo grido.
Sono fresco fresco da una annata di lettura dei Salmi, ed il tema più presente e davvero straripante è la presenza di Dio di cui mi posso fidare. Ed ecco allora Dio che è roccia, che è scudo, che è fortezza, che è baluardo, che è città che mi circonda, che è come le montagne che mi circondano, che è come l'ala sotto cui posso rifugiarmi, è come l'occhio, la pupilla che mi custodisce.
È un fiorire straordinario di simboli, il cui senso è questo: dovunque tu sei, fossi anche nel deserto, fossi anche nella condizione meno abitabile, io ti faccio da casa.

Questa è fondamentalmente la fede nella accezione biblica, che è poi quella di Gesù.
Gesù dice: attenzione, non dovete aver paura, non dovete preoccuparvi, non dovete affannarvi (discorso della montagna) e porta come esempio proprio quella realtà che in molti passi della Bibbia ed in particolare nei Salmi viene presentata come il simbolo fondamentale della fragilità, della caducità della vita umana: l'uomo è come l'erba, la mattina cresce e la sera è già avvizzita.
Ebbene Gesù dice: guardate l'erba, guardate i fiori nel campo, neanche Salomone era vestito come loro. Ecco allora che quanto c'è di più fragile diventa quanto c'è di più splendido. Il senso della invivibilità o della precarietà del vivere e delle condizioni di vita diventa il senso non solo di sicurezza ma anche di splendore. La fede contro la paura, l'affanno, la preoccupazione da un lato, e dall'altro la fede contro la falsa sicurezza dello stolto con i granai pieni (Vangelo di Luca).

Dunque la fede come fondamento dell'essere umani secondo Dio, dell'essere popolo di Dio, membri costitutivi di questo popolo, come l'abbracciare il fondamento, il tenersi dentro il fondamento, tenersi dentro lo spazio teologale della presenza divina.
Questo è dunque il primo elemento, l'esistenziale (termine caro alla filosofia del ‘900) fondamentale del popolo eletto che è la condizione per accedere, come poi vedremo, alla terra promessa.
È questo che noi chiamiamo con il termine fede in qualche modo assimilata ed assaporata secondo tutte le armoniche che presenta il linguaggio biblico.



III. La formazione del popolo eletto: l'amore-giustizia; “lo straniero, l'orfano e la vedova”

La formazione del popolo eletto non è soltanto essere aggrappato al Dio condiscendente ed al Dio presente, ma è rendere presente nella storia quell'amore e quella condiscendenza che lo hanno spinto a liberare ed a dare identità ad Israele: è il terzo momento dell'Esodo.

La fede è la dimensione recettiva mentre il fulcro attivo dell'alleanza è l'amore-giustizia.
“Giustizia” è il termine prevalente nel Primo Testamento, “amore” prevale nel Secondo, ma nel loro cuore sono sinonimi. C'è una sfumatura affettiva diversa, ma il cuore dell'amore neotestamentario ed il cuore della giustizia del Primo Testamento sono gli stessi, ed è questo che io amo chiamare il dare mani e piedi all'amore-giustizia di Dio.

Questo amore viene dato a coloro che si trovano nella stessa presenza senza identità che è quella in cui si trovavano gli ebrei in Egitto: la condizione di stranieri.
Tu devi amare lo straniero che è in mezzo a te perché anche tu sei stato straniero ed io ti ho liberato. Bisogna attualizzare la logica di Dio: io sono venuto a prenderti là dove tu non eri nessuno, eri straniero e schiavo; così tu devi andare verso lo straniero e lo schiavo, verso quei nessuno che sono in mezzo a te.

Ed ecco perché molto spesso viene accoppiato lo straniero all'orfano ed alla vedova che hanno in comune con lo straniero l'identità debole in quanto hanno perso rispettivamente il padre ed il marito che in una società patriarcale è l'asse dell'identità. Non hanno perso soltanto il pane, la fonte economica, ma anche la fonte della identità, del riconoscimento, sono davvero la parte debole da tutti i punti di vista.
Ed ecco allora il comandamento dell'amore-giustizia. (Anche nel NT l'agape è il “comandamento dell'amore”).
Dare mani e piedi a quell'amore che ha portato Dio a discendere e ad avviare il cammino di liberazione, di identificazione, di costruzione dell'umano, rivolgendosi in maniera emblematica a coloro che sono come noi eravamo nell'Egitto.

Questo certo non esclude che lo stesso amore debba essere rivolto anche agli indigeni, ai membri del popolo, e anche a quelli che hanno i genitori ed il marito, ma non è un caso che l'accento vada sugli stranieri, gli orfani e le vedove, sia perché sono le categorie che ne hanno più bisogno, ma anche perché a me pare che ciò sottolinei ed evidenzi la qualità dell'amore.
Se tu ami coloro che ti amano, che sono tuoi figli, tuoi conterranei (concittadini è un anacronismo), Gesù dirà: lo fanno anche i pagani. Amare invece l'orfano e la vedova è la evidenziazione di quella qualità dell'amare che è l'amore con cui Dio ha amato Israele in Egitto, quell'amore che oggi noi chiamiamo l'amore all'altro in quanto altro.

Amore quindi all'altro non in quanto prolungamento di me stesso, ma nella sua alterità, nella sua identità, indipendentemente dalla relazione previa che ci potrebbe essere tra noi due.
Ed ecco allora la formazione del popolo eletto, di una umanità che sia secondo Dio, e che allora sia idonea ad accogliere il dono della terra promessa ed a vivere sulla terra, in modo tale che essa sia davvero la realizzazione della promessa.



IV. La donazione al popolo eletto: la terra promessa

Il quarto momento è il rapporto con la terra, la donazione della terra promessa al popolo eletto.
Riprendo il nostro punto di partenza: la terra promessa è, prima di tutto, l'oggetto del desiderio e quindi la configurazione simbolica di quella che noi chiamiamo l'utopia, l'oggetto del sogno in termini elementari (perché terra vuol dire il luogo delle identificazione, la terra natale, il ceppo da cui si riceve l'identità; e poi terra qui vuol dire anche dove c'è ricchezza di frutti, dove “scorre latte e miele”, dove allora si può vivere, ci si può installare e diventare sedentari, smettere di vagare nel deserto).
La terra allora rappresenta la condizione di possibilità della vita piena, dello
shalom, la pienezza della integrità dell'esistenza, integrità non solo intesa senza ferite o malanni, ma in positivo, tutta intera, a cui nulla manca, definita non in termini minimali ma nell'intero della propria possibilità.

Questa è la terra promessa come categoria antropologica, come oggetto globale del desiderio. Però la promessa immanente al desiderio non riesce a mantenersi in forza del desiderio. Il desiderio non ha una capacità esecutiva che si coestenda alla sua ampiezza.
Il desiderio si articola nel progetto e poi nell'esecuzione: cuore, testa, mani che rappresentano la struttura antropologica di base. Ebbene non abbiamo “testa” e “mani” abbastanza per dar corpo al desiderio. Oggi noi abbiamo una testa enorme e delle manone sconfinate e tuttavia ci accorgiamo per altri versi che non corrispondono al desiderio. La testa è nella scienza e la manona nella tecnologia in tutte le sue manifestazioni, e tuttavia ci accorgiamo che c'è qualcosa che non funziona.

Allora sognare la terra buona, la terra promessa, è non solo lecito, ma necessario, perché c'è chi la dona. La terra promessa non è un'autopromessa del desiderio che sarebbe allora un'illusione, ma è la terra che viene offerta, donata, consegnata da una parola che poi tiene fede a se stessa, che è fedele.
Ma perché la terra promessa si avveri non basta che ci sia la libertà divina che tiene fede a se stessa, deve esserci anche dall'altra parte la libertà umana che vi corrisponde. Diversamente la condizione bilaterale dell'avverarsi della terra promessa viene meno da una parte.

A me piace dire che c'è una logica di rapporto cuore-mondo che presiede all'ontologia delle Scritture ebraiche.
Il mondo non è buono da solo, in sé, come il
cosmos dei greci dove il mondo con i suoi difetti è l'unico dei mondi possibili e la bontà è scritta nelle vene della natura.
Dal punto di vista biblico non è così, la natura ha una bontà che le è scritta dentro dal trascendente-condiscendente che l'ha creata e ad ogni tappa l'ha trovata bella, buona. Ma questo non basta, perché quella bontà compiuta da una parte, resta incompiuta finché non trova dall'altra parte il consenso.

C'è allora una logica cuore-mondo. Biblicamente il mondo, la terra, fiorisce soltanto al calore di due libertà.
Nella logica biblica la terra buona, la terra promessa, la terra dove scorre latte e miele, lo
shalom, il giardino, non è l'origine perduta. Non c'è una età dell'oro come figurazione originaria del desiderio, andata successivamente perduta.
Ma l'originario non è neppure una proiezione verso un futuro. Questo verrà in seguito, e verrà per gli scacchi continui subìti, o meglio per gli scarti continuamente verificati tra la realtà e il proprio desiderio, ma anche per la propria incapacità, continuamente toccata con mano, di rispondere alla libertà divina con libertà di fede e di giustizia-amore.

L'originario non è né un'indagine perduta, né un futuro assoluto. L'originario è quella struttura in cui la terra promessa non è mai data una volta per tutte perché viene verificata ogni volta che tu la vivi in fede ed in giustizia-amore, secondo quella che è la legge scritta dentro, non scritta su due tavole.
Le due tavole servono perché quella legge è anche legge politica, è la costituzione del popolo di Israele; ma la legge è scritta fondamentalmente dentro la soggettività e si potrebbe quasi dire dentro la terra, come se la terra fosse fatta in modo da avere inscritta l'attesa dell'intervento del cuore giusto.
Questa è la logica della terra promessa. E poiché il cuore non è mai giusto una volta per tutte, poiché esso è sempre di fronte al bivio del bene-male, vita-morte, giusto-ingiusto, solidarietà-indifferenza, amicizia-inimicizia, ecco allora che la terra promessa resta continuamente terra promessa, da conquistare nel senso di realizzare le condizioni perché la promessa si avveri.

In questo senso parlavo di messianismo o di utopia nel quotidiano.
L'idea del quotidiano non è soltanto la categoria sociologica di moda negli anni fine ‘60, anni ‘70.
Prima di essere moda passeggera, la categoria del quotidiano è presente nella Bibbia stessa, è presente nella logica che dice: la terra che io ti do resta sempre terra che io ti prometto.
Da parte mia io eseguo la promessa, ma la condizione è anche che da parte tua il tuo cuore fedele e giusto realizzi la risposta sempre in bilico. Lì allora il deserto fiorisce, lì il tuo oggi è terra promessa, realizzata, verificata. Lì, dove invece viene a mancare, la promessa viene frustrata, e tuttavia la promessa è ancora aperta per il domani ed il dopodomani. È quindi una utopia itinerante, mai integralmente realizzata e mai definitivamente chiusa.



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