A.R.CO. Associazione per la Ricerca e la Comunicazione


Vai ai contenuti

Eugen Drevermann 5.03.1994

Etica > Etica cristiana e psicoanalisi (Eugen Drewermann 5.03.1994)



ETICA CRISTIANA E PSICOANALISI



Una cosa è chiara: se la teologia e la psicologia del profondo avessero avuto fra loro il rapporto che avrebbero dovuto avere - se non proprio per amore di Dio, per amore dell'uomo - non ci sarebbero attualmente tutte le forme di sofferenza psichica che conosciamo, o anche se ci fossero, sarebbero più facilmente accessibili alla terapia e all'assistenza.
Ma a tutt'oggi l'atteggiamento ufficiale della Chiesa cattolica nei confronti della psicoanalisi continua a rimanere sulla difensiva nonostante le occasionali dichiarazioni verbali di diverso tenore. Gli psicoanalisti, da parte loro, continuano ad avere tutte le ragioni per sospettare di ideologia edipica il modo della Chiesa di parlare di Dio a cui sono legati una morale repressiva delle pulsioni, un centralismo pontificio preoccupato di promuovere l'obbedienza e un atteggiamento stranamente ambivalente nei confronti della donna, vista come madre e vergine, con tutte le conseguenze negative per i fedeli all’interno della massa suprema che è la Chiesa stessa (O. Pfister).

Se riuscissimo a colmare lo sciagurato fossato esistente fra la terapia della psiche e la cura delle anime daremmo senza dubbio un contributo importante all’igiene psichica della nostra cultura non meno che alla umanizzazione della sfera religiosa.
Attenendoci al tema che ci siamo proposti, vogliamo qui esaminare la possibilità di gettare un ponte, almeno limitatamente all'ambito della teologia morale e dell'etica. Per preparare convenientemente le due sponde dobbiamo fare un piccolo sforzo intellettuale, dobbiamo lasciare spazio a qualche richiamo filosofico.


I. SPIRITO, LIBERTÀ E PAURA, OVVERO: FRA IDEALISMO ED ESISTENZIALISMO

Paradossalmente, la teologia potrebbe e dovrebbe costituire il pilastro decisivo del ponte fra etica e psicanalisi, ma la difficoltà principale del nostro argomento sta proprio nel fatto che nella sua forma attuale essa non svolge affatto questa funzione di mediazione. Al contrario, essa stessa si è moralizzata a tal punto che, per la maggior parte della gente, la fede è diventata ormai con l'avallo della Chiesa, una semplice variante dell'etica borghese, arricchita di qualche arabesco speciale nel campo della morale sessuale (come per esempio il rifiuto della spirale quale strumento di aborto precoce o il divieto del divorzio).

La recentissima enciclica morale di papa Giovanni Paolo II sullo
Splendore della verità non fa che rafforzare l'impressione che si preferisca assumere la legge morale dell'etica filosofica al posto della rivelazione dei dieci comandamenti. E di fatto, stando alle posizioni attuali del magistero ecclesiastico, l'uomo è un essere razionale, libero, in grado di conoscere e osservare le norme della morale. Certo, la capacità conoscitiva dell'uomo è offuscata dal peccato di Adamo, ma proprio per questo Dio ha affidato la verità della sua rivelazione al magistero infallibile della Chiesa cattolica nella persona di papi e vescovi, e per portare soccorso alla debolezza della volontà umana ci sono gli strumenti della grazia della Chiesa distribuiti per mano dei sacerdoti.

In questo modo la teologia non è molto più che una dottrina morale con connotazioni mitologiche e ritualizzazioni magiche: esattamente quello che pensava Immanuel Kant già 200 anni fa a proposito della fede ecclesiastica.
Per Kant la moralità si identifica con la libertà giacché, pur essendo impossibile sui piano teoretico dimostrare l'esistenza della libertà, questa va necessariamente postulata per motivi di ragione pratica: l'uomo non può che essere considerato libero se si vuole che la legge morale abbia una base soggettiva. In altri termini, l'uomo è libero in quanto osserva la legge morale e il contenuto della stessa legge morale non è altro che la libertà dell'uomo. L'autonomia come principio formale è alla base di tutte le deduzioni dei contenuti concreti dell'agire morale.

Lasciamo da parte le difficoltà che un simile formalismo astratto solleva nell'etica stessa (M. Scheler), quello che qui interessa è rilevare come la posizione teologica parta dalla tesi esattamente opposta, cioè dalla mancanza di libertà della volontà umana e dalla sua incapacità di realizzare il bene. Tutto dipende dal fatto che si capisca questa paradossale convinzione cristiana del radicale bisogno di redenzione dell'uomo poiché solo su questa base è possibile precisare il rapporto logico, anzi l'ineludibile rimando della teologia alla psicoanalisi.
Quattrocentosettanta anni fa il monaco agostiniano Martin Lutero, in pieno umanesimo e in contrasto con Erasmo da Rotterdam, metteva in evidenza la disperata condizione dell'uomo prigioniero del peccato e sottolineava che l'uomo poteva essere salvato solo dalla grazia. Per Lutero la libertà umana era andata perduta a causa del peccato di Adamo e poteva essere riconquistata unicamente grazie all’opera salvifica di Cristo.

Non c'è dubbio che il modo di esprimersi del linguaggio teologico faccia oggi su chi è estraneo all'argomento l'impressione di qualcosa del tutto mitico, o piuttosto di arcaico, e si richiede quindi letteralmente un’illuminazione (
Aufklärung) delle sue concezioni manifestamente irrazionali.
In ogni caso aveva ragione N. Hartmann di ritenere che la necessaria convinzione dell'etica della libertà dell'uomo e la dottrina teologica della mancanza in lui di libertà sono diametralmente opposte e fra loro inconciliabili.
La successiva discussione del concetto di libertà nell'idealismo tedesco mostrò ben presto come l'astratto postulato della libertà affermato da Kant fosse insostenibile. Già in J. G. Fichte, ma soprattutto poi in G. W F Hegel, la domanda non era più
se l'uomo sia libero, ma come lo sia.

La libertà, evidentemente, non è un dato di fatto naturale, ma il risultato di un rapporto riflesso con se stesso e il mondo circostante. «La libertà è la necessità riconosciuta». Con questa frase Hegel intendeva dire che la libertà non è un punto di partenza bell'e pronto, ma rappresenta il risultato di un processo intellettuale: in un mondo puramente casuale, privo di legge, la libertà sarebbe impossibile, ma altrettanto impossibile sarebbe in un mondo della necessità. Solo la necessità compresa dall'uomo apre il campo alla libertà e alla responsabilità.
Anziché vedere nello svegliarsi della coscienza la sostanza stessa del peccato originale, nell'atto della conoscenza si vede piuttosto il momento della nascita della libertà dell'uomo il quale cessa cosi di essere un semplice essere naturale. Tutta la storia dell'umanità va letta come un processo di autoliberazione dell'uomo a se stesso.

O forse no! Soren Kierkegaard cercò di colpire il sistema hegeliano nel suo punto più sensibile ponendo per primo alla metafisica dello spirito della filosofia idealistica la domanda su che cosa le relative affermazioni significassero per il singolo interessato.
La filosofia dell'esistenza umana di Kierkegaard mostrava in particolare che nell'esperienza soggettiva lo spirito
, proprio perché è libertà, in quanto autoriflessione si identifica con la paura; dal che derivava per il filosofo della religione danese una recezione obbligata dei miti biblici della caduta: il peccato di Adamo descrive in immagini come l'uomo nel momento dello svegliarsi dello spirito non sopporti la paura della propria libertà, del gioco della possibilità, e si rifugi nella mancanza di libertà.
Essere liberi significa per Kierkegaard costruire una sintesi fra possibilità e necessità, infinitezza e finitezza, eternità e temporalità, spirito e materia, e alla fuga della sua esistenza segue un tipo di rapporto sbagliato con se stesso, una forma speciale di disperazione la cui descrizione presenta una forte concordanza fenomenologica con le principali nevrosi esaminate dalla psicoanalisi.
Decisivo in questa concezione è il taglio dogmatico delle affermazioni di carattere psicologico di Kierkegaard: l'uomo perde la libertà per paura della sua libertà
, e questo appare psicologicamente inevitabile e va addebitato alla colpa dell'uomo in quanto per paura egli perde di vista Dio, laddove vicino a lui non avrebbe nessun motivo di disperare di se stesso.

In quest’ottica la figura di Gesù, l’opera della sua redenzione, va intesa come l'elaborazione di tutte le forme della disperazione umana attraverso una nuova fiducia in un altro da sé, assoluto, che permette di vivere effettivamente la libertà nel momento.
La mancanza della libera volontà che Lutero aveva affermato come dogma cristiano contro l'umanesimo, non deriva da una necessità esterna, dalla natura, ma dalla psicologia della paura che è inevitabile e di cui tuttavia l'uomo deve sentire la responsabilità perché solo così può essere liberato.


II – L’ INCONSCIO E L'ESTERIORITÀ' DELLA MORALE

Fin dai tempi di Sigmund Freud gli psicoanalisti non sono mai stati molto aperti alle impostazioni della filosofia idealistica e tuttavia le considerazioni appena fatte - necessariamente in maniera molto concisa - ci forniscono la chiave per risolvere il problema del rapporto fra teologia morale e psicoanalisi.
Difficilmente, certo, qualcuno si domanda oggi come ai tempi del Riformatore: «Come troverò io un Dio misericordioso?». Ognuno, però, sperimenta di avere essenzialmente bisogno di un altro tu, per ritrovare se stesso.
Sul piano della psicoanalisi, il pensiero di Hegel e la protesta di Kierkegaard possono essere uniti insieme: la libertà nasce solo con la elaborazione di necessità inconsce, ma la difficoltà decisiva di questo processo sta nella paura della propria libertà, si tratta allora di ricercare la causa e il senso della dinamica della paura nell'inconscio e mostrare quali conseguenze etiche derivino rispettivamente dalla negazione o dal riconoscimento di questa situazione.


L'
inconscio è il termine numinoso che nella psicologia del profondo si distende su due piani diversi.

1. Per primo c'è il campo che nel linguaggio di C. G. Jung si può designare come inconscio collettivo o come l'area delle immagini archetipe.
Troppo a lungo questa sfera della psiche umana è stata respinta come frutto di pura speculazione a favore del teorema della
tabula rasa. Fino ad oggi la psicoanalisi, pur pensando in termini biologici, non ha riflettuto a fondo su questo punto e soprattutto non ha prestato molta attenzione agli sviluppi successivi che si sono registrati nella conoscenza della psicologia animale, e continua tuttora ad avere difficoltà nell'inglobare nelle proprie concezioni i risultati della ricerca sul comportamento, l'etologia.

La posizione di S. Freud a questo riguardo era invece proprio quella di rendere nuovamente udibile il grande concerto della natura nell'anima umana e di collocare la psicologia dell'uomo nel grande contesto dell'evoluzione della vita su questo pianeta.
Sembra impossibile comprendere la vita pulsionale dell'uomo indipendentemente dagli scenari che sono stati immagazzinati nel diencefalo dall’evoluzione dei mammiferi per l'arco di oltre 200 milioni di anni. Sotto molti punti di vista è di straordinaria importanza elaborare questo quadro anziché negarlo ideologicamente.

Nel leggere i più recenti documenti della Chiesa cattolica, come il
Catechismo mondiale o la Veritatis splendor, salta subito agli occhi come la teologia ecclesiastica non sappia altro sull'anima umana se non che è ‘creata da Dio’, ‘dotata di ragione’ ed è ‘immortale’.
I sei settimi della psiche affondati nell'inconscio vengono semplicemente ignorati, le acquisizioni della teoria evoluzionistica neutralizzate, i risultati della ricerca sul comportamento - possiamo ben dire - rimossi.
Evidentemente, l'esperienza della fondamentale unità psichica di uomo e natura continua ad ispirare paura all'immagine antropocentrica del mondo, propria della tradizione dottrinale della Chiesa, un'umiliazione del narcisismo inflitta inevitabilmente all'autocoscienza dell'uomo dalle scoperte di Darwin e di Freud.

Comunque sia, il riconoscimento dell'inconscio collettivo comporta una nuova riflessione etica sotto molti punti di vista davvero decisiva in almeno tre settori:

a) Fin tanto che dura l'antropocentrismo cristiano, l'unico parametro della responsabilità morale rimane l'uomo.
Nessun problema della moderna etica dell'ambiente appare risolvibile se prima non vengono cambiate le premesse di questo modo di concepire le cose. Per la prima volta nella storia dell'umanità ci troviamo di fronte alla necessità addirittura di limitare il numero degli uomini su questa terra perché piante e animali abbiano la possibilità di sopravvivere senza essere ridotti a semplice biomassa disponibile alla sempre più disperata lotta per l’esistenza della specie umana.
In tutta la storia della filosofia e della teologia occidentale, solo in A. Schopenhauer la sofferenza degli animali ha suscitato un'etica della compassione, naturalmente a costo di un completo rovesciamento dell'immagine cristiana del mondo.
L'idea stessa che si debbano ridurre le nascite di cuccioli di uomo perché scimpanzé e macachi non siano condannati all'estinzione continua per l'etica vaticana, che insiste nel
suo divieto dell'uso di mezzi artificiali per evitare la gravidanza, a non poter essere presa nemmeno in considerazione. Eppure, allo stato attuale della tecnica e al livello di esigenze di un mitteleuropeo, il nostro pianeta è in grado di sostenere al massimo 2-3 miliardi di uomini senza danni irreversibili per la natura ed invece già oggi siamo prossimi ai 6 miliardi e ci avviamo a rapidi passi verso gli 8-9 miliardi.
Le scienze naturali, contro la resistenza della Chiesa, ci hanno mostrato l'unità dell'uomo con la natura che lo circonda, ora resta da costruire una corrispondente etica che tenga conto di queste acquisizioni.

b) È chiaro che la distruzione della natura esterna ha il suo parallelo nella distruzione della natura interna.
La separazione dell'uomo dalla natura che lo circonda, prodotta dall'antropocentrismo cristiano sul piano della cosmologia, è fondamento ed espressione insieme del logocentrismo in antropologia. La riduzione dell'uomo a ragione e libera volontà rende la teologia morale della Chiesa strutturalmente incapace di comprendere ed elaborare le numerose tragedie derivanti dai processi inconsci della psiche umana.
Inoltre l'imposta unilateralità della coscienza costituisce essa stessa il motivo di tutte le possibili rimozioni nevrotiche, la libertà della volontà umana astrattamente affermata si trasforma così nella mancanza di libertà di fatto dell'uomo di fronte alle sue proprie pulsioni.

Diventato così estraneo a se stesso oltre che alla natura che lo circonda, l'uomo si trova esposto senza difese in un mondo di paura e l'unica via d'uscita di cui dispone ancora è il dominio: tecnico verso l'esterno, morale verso l'interno.
Al posto dell'integrazione dell'inconscio compare a questo punto un ideale perfezionistico di virtù e l'insicurezza del personale sentimento dei valori deve essere compensata con una rete sempre più fitta di regole e di indicazioni fornite dall'istituzione.

Un sistema di guida dall'esterno sostituisce a questo punto l'autodeterminazione. La religione appare semplicemente come una funzione del Super-io e l'inserimento del singolo nelle forme di accesso socialmente determinate diviene ora più importante del porsi scopi di dispiegamento e sviluppo personale.
La finalità proposta da Freud alla psicoanalisi «Dove c'era l'Es dev'esserci l'Io» significa il rovesciamento completo di questo sistema di guida morale dall'esterno, essa si pone all'inizio di una forma approfondita dell'esistenza umana così come all'inizio di una forma umana del religioso.

c) La penetrazione della psicoanalisi nelle strutture dell'inconscio dell'umanità permette agli uomini di legarsi maggiormente fra loro.
La differenza di lingue, religioni e culture ha ripetutamente reso difficile nella storia la comprensione reciproca al di fuori dei confini della propria appartenenza di gruppo. La pretesa della verità esclusiva, soprattutto in questioni di morale e di religione, continua a bloccare ancor oggi la necessaria tolleranza e la disponibilità ad imparare.
Alla disintegrazione dello psichico corrisponde lo scontro delle culture nello spazio della storia. In particolare, la dottrina della fede cristiana si mostra incapace di fondare la ricchezza delle sue immagini con una approfondita antropologia. A causa della mancanza di conoscenza delle strutture dell'inconscio, le figure espressive simboliche e rituali del religioso vengono interpretate come posizioni storiche, come ‘rivelazioni’ dall'esterno e come qualcosa di estraneo apportato all'uomo, oppure vengono proiettate come una realtà metafisica dentro la stessa rappresentazione del divino.
Lo spazio interno dello psichico divenuto estraneo si trasforma così in una maschera di un Dio estraneo la cui definizione dogmatica non fa che fissare stabilmente solo l'autoestraniazione umana. I simboli del religioso, che di per sé potrebbero costituire una specie di lingua franca fra le culture, si congelano ora in presunte pretese speciali e privilegi divini che le religioni si riconoscono reciprocamente.

Anziché dedicarsi all'
ethos di un'umanità universale, le religioni servono ormai alla dispersione degli uomini e alla distruzione dell'umano. Cosi, per esempio, la domanda rivolta a ciascuno, se fosse cattolico romano o cattolico ortodosso, nel 1942 - al momento della costituzione di uno Stato cattolico croato - costò la vita a circa 600.000 Serbi.
A tutt'oggi sembra non esistere altro strumento per combattere il flagello del fanatismo religioso e dello sciovinismo etnico nell'umanità, salvo un più profondo ancoramento della religione e della morale nella psiche dell'uomo stesso.
La paura delle emozioni psichiche rimaste estranee nel proprio interno si allarga poi in paura dell'estraneo e l'energia dell'unità si consuma in una crescente discordia.


2. Mentre il fattore della paura nel rapporto con i contenuti dell'inconscio collettivo appare spesso solo come conseguenza di certi processi di rimozione, la connessione fra paura e mancanza di libertà nell'ambito dell’inconscio personale è cosi chiara che fu scoperta e descritta da Freud già all'inizio della sua carriera.

Per il dialogo con la teologia morale cristiana appaiono rilevanti soprattutto tre conseguenze della teoria psicoanalitica della paura:

a) Prima di tutto va ricordata l’importanza della prima infanzia che tutt'oggi nella teologia morale della Chiesa trova la stessa scarsa attenzione che aveva nei romanzi psicologici dei secoli XVII e XIX quando la psicoanalisi non era ancora stata scoperta.
I risultati della ricerca sul comportamento dimostrano come anche nell'uomo esistano fasi sensibili in cui si fissa l’impronta di determinati modelli di comportamento.

Uno degli argomenti più importanti addotti contro le speranze eccessive nella psicoterapia analitica è costituito oggi dalla consapevolezza di quanto profondamente alcuni passi di apprendimento della prima infanzia siano appunto biologicamente pre-programmati. Gli influssi che si sono ricevuti, o quello che non si è appreso in questa fase, condizionano in maniera fortissima tutto il cammino di formazione della vita successiva.
Nessuna etica della libera volontà può risultare corrispondente alla realtà psichica dell'uomo se non tiene conto di questi dati fondamentali dello sviluppo individuale. Anche sul piano della psicologia della religione, l'immagine di un Dio paterno o materno appare profondamente influenzata dalla
imago dei genitori, e ci sono molti motivi per ritenere che dalle esperienze della fase infantile dipenda il fatto che il soggetto riesca a costruirsi una coscienza personale o che, sotto la pressione di paure infantili troppo grandi, si affermi in lui un sistema di costrizioni sociali e dipendenze guidate dal Super-io, e quindi una morale a guida autoritaria dall'esterno.

Soprattutto la problematica paolina di legge
e grazia può trovare la sua spiegazione psicoanalitica nelle esperienze psicologiche dell'infanzia: nessun bambino che viene al mondo potrà svilupparsi in maniera sana se non si sente per prima cosa amato e accettato. È probabile che proprio il sentimento di essere rifiutato provochi più tardi un comportamento da bravo ragazzo, sempre attento a non fare nulla di cattivo o a riconquistare l'attenzione non ricevuta in precedenza, con la conseguenza che tutte queste preoccupazioni provocano alla fine una più ampia rimozione o controinvestimento delle proprie originarie emozioni pulsionali, osservabili più tardi, benché latenti, sul versante comportamentale.

La dialettica per cui l'uomo fa quello che non vuole e non fa quello che vuole, come Paolo dice in
Romani 5-7, trova qui il suo fondamento: le prescrizioni morali hanno per effetto il contrario del loro contenuto, se devono essere impiegate al fine di riconquistare un riconoscimento e un rifugio perduto o mai conosciuto.
La legge
- con questo termine Paolo intende non soltanto la legge giudaica ma ogni sistema normativo morale e religioso - opera in maniera distruttiva quando non procede da una adesione profondamente sperimentata nella propria persona. Prima della domanda dell'etica “Che cosa devo fare?” sta la domanda dell'esistenza “Chi sono io?” o “Chi posso essere?”.

Una teologia morale che si accontenti della corrispondenza esterna del comportamento rispetto alle norme senza prendere minimamente in considerazione, sulla base dell'impasto di tutte le problematiche psicologiche, il lato interno dell'esperienza, il reticolato delle motivazioni, si riduce a un catalogo obiettivo di valutazione delle azioni dietro cui non compare più alcun soggetto agente.

Dietro la domanda “Che succede?” scompare la persona di colui che agisce. Proprio questa normazione priva di soggetto che qualifica dati di fatto oggettivi come in sé buoni o in sé cattivi, è negli intendimenti espliciti della recente enciclica papale
Veritatis splendor. Ma appunto per questo, con il suo cortocircuito sul lato esterno della vita, non rende giustizia né agli uomini, né alla Bibbia. Quanto ne guadagneremmo se la Chiesa fosse un luogo in cui gli uomini potessero imparare a ridiventare «come bambini» (Matteo 18,3) e a integrare la loro giovinezza, anziché perdersi sempre più sotto la frusta di una certa morale ‘oggettiva’!

b) La psicanalisi è in grado di mostrare quanto fortemente l'esperienza di certe paure nell'infanzia contribuisca nel determinare la successiva struttura della personalità e quindi la costruzione del carattere.
Nel corso delle varie fasi dello sviluppo psichico, nei primi cinque anni di vita una serie di pulsioni ricevono la loro prima e decisiva impronta nella quale determinati atteggiamenti, attese, propensioni ed abitudini si fondono in un insieme di desideri e timori che in seguito potrà essere modificato solo sotto l'impressione di nuovi legami particolarmente forti.

Nella teologia morale della Chiesa ancor oggi ha un ruolo importante la dottrina dei vizi e delle virtù. In questa concezione si intravede un elemento giustissimo, cioè che non basta considerare una singola azione presa da sola in se stessa, ma questo viene inteso in un senso limitato, come se esistessero dei binari comportamentali che sotterraneamente collegano le singole azioni fra loro. Inoltre le varie abitudini vengono giudicate come moralmente buone o cattive ancora una volta in anticipo, secondo uno schema pronto, senza capire che cosa propriamente si esprima nelle virtù e nei vizi.

L'ira
, per esempio, viene considerata semplicemente come un vizio che bisogna dominare con mezzi morali, non si pensa affatto alla possibilità di riconoscervi il sintomo di forti freni imposti all'aggressività e quindi vederla come il risultato di un eccesso di autocontrollo.
Nella stessa ottica anche la lussuria è considerata come mancanza di dominio, ancora una volta la morale della Chiesa si mostra incapace di riconoscere il freno sessuale nella presunta libidine, freno che spesso non è altro che il frutto di quella morale di rimozione promossa dalla Chiesa per la quale tutti i rapporti sessuali prima, fuori e dopo il matrimonio sono condannati come lussuria e peccati gravi con conseguente pena dell'inferno.
Con un simile modo di considerare le cose che non guarda alla profondità della psiche e ai bisogni dell'esistenza umana, non solo la Chiesa è incapace di aiutare e guarire, ma provoca essa stessa, spesso, disagi e malattie, pur senza esserne consapevole e senza confessarlo.

c) Anche nella valutazione della singola azione, che è il presunto campo di competenza della teologia morale cattolica, il punto di vista della Chiesa è lontano dalla realtà effettiva, nel senso che è questione di pura casualità se e fino a che punto questo sistema di pensiero, fondato su un'antropologia sbagliata per la sua prospettiva unilaterale sul piano intellettuale e caratterizzata da un orientamento ascetico sul piano della volontà, renda o no giustizia alla situazione concreta.

A proposito della omosessualità
, per esempio, a tutt'oggi la Chiesa cattolica non sa dire altro che è proibito viverla, ma non è proibito averla. Disconoscendo completamente i fattori - in parte biologici e in parte legati alla psicologia profonda - dell'assetto delle pulsioni, la teologia morale della Chiesa non sa fare altra scelta che permettere quello che non è possibile cambiare e proibire quello che nella sua concezione è soggetto alla disposizione personale della volontà. Sembra non sospettare minimamente che con la separazione fra essere e fare non fa che proiettare negli uomini la sua schizofrenia fra valutazione oggettiva del dato e realtà soggettiva.

Analogamente, la morale cattolica nella sua forma attuale si mostra di fatto incapace di considerare la dinamica del
transfert e della coazione a ripetere, per esempio nel modo di giudicare i matrimoni falliti.
Secondo il diritto canonico in vigore, i matrimoni possono essere dichiarati nulli esclusivamente per incapacità di procreare o per violenza esterna e paura nel momento in cui il matrimonio viene concluso, mentre la Chiesa continua a mostrarsi cieca rispetto alle tante forme di impotenza psicologica e frigidità che essa stessa produce con la sua morale sessuale repressiva e neanche vuole capire fino a che punto la paura e la violenza possono impedire internamente la comprensione fra due persone.
Il fatto che attualmente il 30% dei matrimoni debbano essere sciolti, ha il solo effetto di spingere il Vaticano a formulare con ancora maggiore rigidità la morale matrimoniale e dove è possibile, come in Italia, a mantenere in limiti molto restrittivi la legislazione statale relativa al divorzio.

Fino a che punto la ricerca della propria madre, del proprio padre, fino a che punto il legame creato da mai soddisfatte esigenze ed attese infantili possano formare e deformare un matrimonio, è cosa che questa teologia morale non prende affatto in considerazione, e così l'indice ammonitore levato in alto sostituisce l'elaborazione della problematica reale.

L'eliminazione dell'inconscio dal proprio orizzonte condanna inevitabilmente la teologia morale della Chiesa a una totale incomprensione dell'uomo agente come portatore delle sue azioni. L'isolamento della singola azione dalla persona agente, lo scioglimento della connessione interna fra gli uomini a favore di uno schematismo valutativo puramente esterno, fissato ai fatti, basato su regole rigide, porta a un giudizio del comportamento umano che pretende di essere oggettivo, assoluto, nel quadro di un modo di pensare a due valori, bipolare, che lascia spazio solo alle categorie di buono-cattivo, nero- bianco, giusto-sbagliato.

Era inevitabile che da un simile modo di pensare seguisse fra l'altro, da tempo immemorabile, la legittimazione della pena di morte
, dal momento che a costituire il fondamento logico di tutti i metodi di pensiero qui rappresentati è il disinnesco del soggettivo o la separazione dell'uomo dalle sue azioni. È inoltre chiaro che l'arretramento del personale, del soggettivo, dell'emotivo, dell'inconscio nella teologia morale cattolica coincide con un più forte accento posto su un'istituzione collettiva finalizzata che è lo stesso magistero ecclesiastico il quale, nella sua razionalità oggettiva, si pone di fronte agli uomini come infallibile e avvolto in un'autorità patriarcale.
Se vuole raggiungere una più profonda comprensione e se insieme vuole demolire la prigione della sua pretesa di potere, la teologia morale della Chiesa non può fare a meno oggi di utilizzare le fondamentali conoscenze acquisite dalla psicoanalisi.


III - ACCETTAZIONE E APERTURA, OVVERO: CHE COSA SIGNIFICA ‘GRAZIA’ OGGI ?

Si rivela dunque estremamente urgente la necessità di un nuovo orientamento della teologia morale della Chiesa, se vuole giustificare la sua pretesa di essere parte di una dottrina di redenzione. In effetti, il modello originario della religione cristiana non lascia spazio ad equivoci a questo proposito: quando Gesù manda i suoi discepoli nei villaggi della Galilea, affida loro esplicitamente la missione di guarire gli ammalati e di cacciare i demoni e annunciare in questo modo quanto Dio fosse vicino agli uomini (il ‘Regno di Dio’) (Marco 6,8-11).

È del tutto evidente che la teologia morale della Chiesa per lungo tempo ha rinunciato ad assolvere questo compito. Essa non pensa più a liberare gli uomini con la forza della fiducia dall'inferno della loro paura, ma costruisce piuttosto sul presupposto ideologico che esista per gli uomini una condizione dell'essere redenti, trasmessa una volta per tutte sacramentalmente dal battesimo
. E cosi, in luogo dell'elaborazione psichica dei problemi dell'esistenza umana, viene posto un atto rituale compiuto su neonati, e invece della problematica luterana della mancanza di libertà, della libera volontà, si ha la fantasmagoria della fondazione di un'esistenza redenta realizzata magicamente.
La Chiesa, che si propone come il luogo della redenzione, in questo modo riduce se stessa a una burocrazia amministrativa del sempre-essere-già-redenti, limitando corrispondentemente l'ambito della sua cura delle anime: esistono peccati che secondo il catalogo del catechismo si devono confessare per ricevere il perdono attraverso il sacerdote delegato dalla Chiesa e tutto rimane chiuso in un linguaggio rituale oggettivo che non abbandona mai lo schema di libertà, norma e colpa.

Di fronte a questa incredibile esteriorizzazione del trattamento,
la teologia morale della Chiesa può corrispondere davvero alla propria pretesa solo chiedendo aiuto alla psicoanalisi cosiddetta atea, cioè conoscendo e riconoscendo nel suo significato essenziale, due regole di trattamento della psicologia del profondo inizialmente seguite in maniera puramente pratica, e cioè la mancanza di condizioni nell'accettazione e l'esito in linea di principio aperto della procedura del colloquio.

1.
Accettazione incondizionata
Si possono discutere quanto si vuole i dettagli delle concezioni di S.
Freud, si può cambiare l'intero repertorio dei suoi termini con parole ritenute più adatte ai nostri tempi, ma la grandezza umana della sua intuizione centrale non può essere messa seriamente in discussione, cioè l'atteggiamento che è alla base del contratto psicoanalitico per cui il paziente si impegna a dire tutto quello che gli passa per la mente, soprattutto quello che lo fa soffrire e il terapeuta in cambio promette di non censurare il paziente, di non manipolare, di non dirigere, ma di accettarlo come meglio gli riesce.

Un secolo fa
, nella sua casa di Berggasse 19 a Vienna, Freud dovette imparare dalla sofferenza dei suoi pazienti, soprattutto donne, che non si può aiutare psicologicamente un individuo se non lo si accetta cosi com'è, nella sua persona e nella sua situazione. E in questo atteggiamento rientra, in misura non minore, la demolizione dei propri (pre)giudizi morali.

Nel modo di rappresentarsi le cose proprio della teologia morale della Chiesa, quale è espressaancora nella recente enciclica pontifìcia Veritatis splendor, esiste un sapere su quelche è bene e quel che è male, che precede qualsiasi ipotizzabile caso singolo. Dio stesso, è noto, ha reso il magistero della Chiesa cattolica depositario di questo sapere e la coscienza del singolo individuo, benché inquinata dal peccato originale, è certamente in grado di per sé di accedere a tale sapere con la forza della propria ragione.

C'è quindi tutta una serie di azioni che già in partenza e in qualunque circostanza sono da considerare come
cattive in sé. Fra queste, nella concezione pontificia, l'impiego di mezzi artificiali per evitare la gravidanza, l'aborto anche quando si possa prevedere che una nascita metterebbe in grave pericolo la salute della madre, o una relazione adulterina, per non parlare del divorzio e di un nuovo matrimonio.
Una simile astrazione del pensiero teologico-morale, che come abbiamo visto non procede dalla vita reale degli uomini ma cala sugli uomini dal sapere divino della tradizione del magistero della Chiesa, non significa, come il formalismo di Kant, un invito a esporre creativamente la propria libertà in relazione alla situazione singola, bensì applicare alla realtà, quale che
possa essere, una molteplicità di norme di comportamento in sé univoche.

Di primo acchito, in effetti, si può avere l'impressione che in questo modo venga fornito uno schema di giudizio morale molto semplice, di grande utilità nella prassi: basta infatti, per esempio, sconsigliare la pillola alla donna e si può dire di averla aiutata in senso morale, basta dire all’adultero semplicemente, come si fa nella confessione cattolica, che il suo modo di agire costituisce un grave peccato dinanzi a Dio e una grave mancanza nei confronti della moglie, perché egli poi, posto che non sia seriamente ammalato o moralmente corrotto, torni sul sentiero della virtù grazie alla sua volontà e alla sua conoscenza, ecc.

Certo, anche la teologia morale della Chiesa riconosce che la vita non sempre è univoca come essa la descrive e la prescrive nel suo schematismo di giudizio, ma proprio per questo le appare tanto più urgente la necessità di far brillare in termini chiari la verità e mettere a disposizione dell'uomo una specie di compendio della patologia morale e cosi il modo in cui i singoli errori morali possano essere eliminati nella pratica è considerato di pertinenza della teologia pastorale.
Teoria e prassi non si trovano qui ad affrontarsi dialetticamente in quanto la convinzione etica definisce in anticipo in maniera unidirezionale l'intervento di cura delle anime.

Bisogna che ci raffiguriamo con la massima precisione possibile questo mondo della teologia morale cattolica se vogliamo apprezzare adeguatamente il contributo che Freud diede, anche sul piano morale, nella Vienna asburgica, concependo la sua psicoanalisi fin dall'inizio insieme come metodo di trattamento e costruzione teorica.

Per un terapeuta psicoanalitico è indispensabile rendersi interiormente vuoto in modo da essere aperto alla persona del suo paziente. Egli deve cercare costantemente di mettere in secondo piano le proprie convinzioni morali e religiose e re-imparare la vita con il suo paziente
.
Soprattutto deve comprendere che non serve a nulla voler migliorare l'altro con appelli morali - magari fosse cosi facile! - Per prima cosa egli deve portare l'altro a capire che cosa si agita dentro di sé quando si comporta in una maniera o in un’altra. Chiarire le motivazioni appare qui molto più importante che non abbozzare un determinato programma di comportamento corretto. Anzi, al contrario, quello che interessa è non falsificare la verità della vita dell'individuo con pianificazioni premature. Serve uno spazio di sicurezza garantita in cui diventi finalmente possibile soprattutto ritrovare se stessi.

L'emergere, nel contesto psicoanalitico, di rifrazioni, di antichissime paure e ripetizioni, rivela con quanta forza una determinata morale esteriorizzata ha contribuito alla nascita di alcune ‘contro finalità’. La domanda a questo punto non è più
che cosa accade, ma perché e come accade.
Qui non c'è più nulla da determinare e mettere a posto, si tratta invece di scoprire un’autonomia del crescere che si realizza non appena gli si lascia la possibilità. Solo chi è in sé così integrato può essere un uomo libero, e solo una persona del genere è in grado di essere un uomo ‘buono’ in senso morale. Solo a misura della propria autoconoscenza aumenta la comprensione per gli altri, e solo nella elaborazione delle proprie sofferenze si sciolgono gli impulsi ad arrecare sofferenza ad altri, magari involontariamente.

Nella psicoanalisi si scoprirà ogni volta che a sconvolgere e danneggiare il comportamento dell'uomo non è la scarsezza della morale, ma piuttosto un suo eccesso per quantità e assillo. Il problema ora non è più, ad esempio, il singolo adulterio, bensì la questione di come sia possibile recuperare la capacità di amare effettivamente un'altra persona. Il problema non è più la pillola, bensì come sia possibile per la donna ritrovare nel matrimonio una propria sana autocoscienza.
Tutta la morale appare cosi nei suoi singoli contenuti come perfettamente libera in senso kantiano: essa nasce ed è generata con la libertà stessa, procede dalla singola situazione, e non è altro che la forma concreta del rapporto reciproco. L'etica esistenzialistica è la migliore traduzione in chiave filosofica dell'atteggiamento promosso dalla moralità pratica della psicoanalisi.

Questa stessa impostazione può essere tradotta naturalmente anche nel linguaggio della religione. Essa conferma sul piano dei contenuti quello che l'insegnamento cristiano vorrebbe dire fondamentalmente e che invece nella sua rigidità dogmatica non trasmette più come esperienza: che un uomo è veramente capace di bene solo se è redento dalla grazia. Se al posto di ‘grazia’ mettiamo parole come ‘benessere’, ‘calore emotivo’, ‘autentico riferimento’ o ‘accettazione incondizionata’, e rendiamo la parola ‘redenzione’ con termini come ‘ritrovamento di se stesso’, ‘nuovo inizio’, ‘diventare coscienti’, ‘vita vera e propria’ o ‘liberazione per la verità della propria persona’, tutto questo in senso cristiano significa curare anziché distribuire norme, capire anziché giudicare, camminare insieme anziché dare sentenze e in tal modo si attuerebbe esattamente quello che è lo spirito del Discorso della montagna.
Oggi noi abbiamo bisogno di una teologia morale totalmente nuova, per riconquistare almeno il permesso di poter fare di nuovo quello che Gesù una volta ha voluto.


2.
Risultato aperto
“Ma il risultato?”, obietterà probabilmente la Chiesa a questo punto, e vorrà stabilire che almeno il risultato di una personalità ricostruita corrisponda a quello che la teologia della Chiesa definisce come ‘realtà della creazione’ e ‘volontà di Dio’. Anche questo modo di raffigurarsi le cose non è esatto. Mentre fino a questo momento abbiamo parlato della necessità di sospendere l'etica normativa per rendere possibile una sfera del
permesso dell'essere in cui possano purificarsi le sorgenti della vita personale, adesso ci occupiamo della necessità di lasciare che anche il risultato del trattamento terapeutico segua la sua strada.

Facciamo due esempi:
Secondo le dichiarazioni esplicite del
Catechismo della Chiesa cattolica, i comportamenti omosessuali sono da considerarsi come “intrinsecamente disordinati”.
Lasciamo da parte la questione se sia antropologicamente sostenibile la stretta connessione fra sessualità e procreazione quale è affermata dalla teologia morale della Chiesa: a contraddirla ci sono fin troppi e solidi argomenti tratti dalla ricerca sul comportamento, dall'etnologia, dalla storia della cultura.
Sul piano psicoanalitico fa un effetto molto strano vedere con quanta disinvoltura un determinato comportamento che può avere alla sua origine un'infinità di cause diverse, venga stigmatizzato con un'unica etichetta morale. Ci saremmo aspettati che anche dal punto di vista teologico-morale fosse valutata come una differenza estremamente importante il fatto che l'omosessualità derivi da cause biologiche e si presenti in qualche modo come condizione normale al pari degli occhi blu o i capelli scuri, o che derivi invece da gravi paure edipiche.
Poniamo che si tratti del secondo caso: può allora essere, o deve essere compito a priori della psicoanalisi curare l'omosessualità in modo che sparisca? Naturalmente no. Compito del trattamento dev'essere di individuare il margine di manovra entro cui siano soggettivamente possibili e desiderabili cambiamenti dell'impostazione pulsionale, e poi bisognerà continuare a verificare sempre di nuovo che cosa sia possibile nella situazione specifica.
In talune circostanze, il successo del trattamento consisterà nel liberare il soggetto dai sensi di colpa che all'ombra dell’educazione ecclesiastica gli hanno impedito di essere felice a modo
suo, mentre in altre circostanze consisterà nel liberare dai sensi di colpa provocati dalla stessa educazione ecclesiastica che finora gli hanno impedito di incontrare una donna, un uomo.

La cosa decisiva è questa: il risultato non può essere conosciuto in anticipo. Si costruisce, come sempre nella vita reale, attraverso il processo del colloquio stesso. Nessun terapeuta, nessun paziente, può prevedere dove si troveranno sia l'uno che l'altro al termine di una terapia che spesso dura anni, e sicuramente il terapeuta impara dal suo paziente sulla realtà della psiche umana tanto quanto il paziente dal suo terapeuta. Alla fine può essere moralmente corretto rimanere aperti alla sua omosessualità, ma può anche essere corretto eliminarla: nessuna conoscenza data in anticipo mette al riparo dal rischio imponderabile della ricerca.

Un altro esempio: la valutazione dell'aborto
. Sembra non esserci oggi problema più urgente per l'autorità vaticana, e sappiamo quanto sia netta nel suo giudizio: in qualunque circostanza l'aborto è omicidio. Possono esserci circostanze attenuanti che nel singolo caso riducono la gravità della colpa, ma che non cambiano nulla nel giudizio del fatto in sé. Ogni intervento si riduce, in pratica, all'esigenza di creare le premesse per impedire l'aborto e dare sufficiente coraggio alla vita. Ma purtroppo - o grazie a Dio - anche qui la vita è più complessa di quanto la logica nero-bianco della teologia morale della Chiesa non voglia ammettere.

Due anni fa, nella Repubblica Federale di Germania, l'avvocato Norbert Kùckelmann ha girato un film sul processo di Memmingen. Era accaduto che l'Amministrazione comunale, dietro insistenza della Chiesa cattolica, aveva sequestrato a un ginecologo, col pretesto di un accertamento fiscale, lo schedario delle pazienti e dopo lo aveva denunciato per aver prestato la sua assistenza in oltre 100 casi di omicidio. Al centro del film-documentario c'è la vicenda di una donna che, sconvolta dall'atteggiamento di estraneità del marito, si butta nelle braccia di un altro uomo. Rimasta incinta di quest'ultimo, non riesce a trovare altra soluzione che abortire con l'assistenza del dr. Theissen.
«E lei la chiama situazione di necessità?», le chiede il giudice. «In questo modo, lei ha aggiunto all'adulterio un omicidio, e si aspetta che noi la consideriamo una cosa buona?». «Che avrei dovuto fare?», risponde piangendo la donna, che con circa altre 200 era stata chiamata a rispondere davanti al tribunale in seduta pubblica. «Ho tre figli. Mio marito non lo avrebbe capito, il suo bisogno costituiva la mia situazione di emergenza». «Appunto, avrebbe dovuto parlargli». «Ma se fossimo stati in grado di parlare fra di noi, non sarebbe successo nulla di tutto questo!».
Quel che questa donna intende dire è chiaro: proprio nei momenti in cui era più necessario parlare insieme, lo si faceva di meno! Ed esiste una responsabilità nella particolare situazione rappresentata che fa apparire come un atto irresponsabile mettere alla luce ancora un altro figlio. No
, questo non significa che l’aborto sia una cosa buona, ma significa che talvolta ci si trova in condizione di dover volere qualcosa che fondamentalmente non si vorrebbe. Per la psicoanalisi questo significa che a volte si deve trovare il coraggio di rischiare una responsabilità al di là di quello di cui si può rispondere, e non evitare in tutte le circostanze lo spazio del tragico.

“Valoroso peccatore”, come disse una volta Martin Lutero - in altre parole: affidati a una grazia che ti abbraccia, proprio quando ti trovi immerso inevitabilmente in qualcosa che di per sé avresti voluto evitare con tutte le forze. Fra il nero e il bianco della teologia morale della Chiesa ci sono tutti i colori dell'arcobaleno: tutta la vita reale cui si fa ingiustizia già col solo fatto che la si voglia costringere fra gli estremi di una tipologia bipolare fuori dalla comprensione e dalla elaborazione concreta.

Certo, anche la psicoanalisi ammette che spesso gli uomini potrebbero vivere in maniera diversa da come vivono di fatto, ma ognuno, e tanto più il terapeuta, deve imparare a vivere con gli uomini così come sono ora, non come sono diventati dopo molti anni di trattamento, e non come potrebbero essere in veste di uomini del tutto diversi, bensì come sono nella loro situazione qui e ora.

La differenza sta, naturalmente, in quello che si vuole, o nella prospettiva da cui si guarda: se dall'alto verso il basso o dal basso verso l'alto, se dalla meta o dalla strada, se con gli occhi alieni di un Dio che tutto sa o con gli occhi piangenti di un uomo alla ricerca.
Nello sguardo dell'anelito non c'è male ma solo una vita impedita, non c'è vizio ma solo un domandare pieno di paura, non c'è peccato ma solo un essere immersi nel dubbio. La psicoanalisi è in pratica un procedimento di umanizzazione della morale, cioè un procedimento per restituire le categorie dell'etica all'Io del singolo e quindi alla vita reale.

«Del bene che è in voi, e non del male posso parlarvi» diceva il poeta libanese Khalil Gibran. «Poiché che cosa è il male se non il bene tormentato dalla sua sete e dalla sua fame?»
( L'occhio del Profeta, 212).
In altri termini: il peccato più grande è di non vivere veramente. Noi obbediamo troppo, funzioniamo troppo e crediamo poco, amiamo poco.


IV - IL DIO NASCOSTO

La teologia morale della Chiesa ha da imparare dalla psicoanalisi e, come abbiamo visto, non certo solo in un settore periferico, bensì al centro di se stessa. Oggi la psicoanalisi appare essenziale in quanto dà al vocabolario di colpa e redenzione, di grazia e libertà una nuova base di esperienza, sempre che si abbia il coraggio di ritrovare e rinominare, dietro la tradizionale terminologia del magistero della Chiesa, la realtà psichica.

È impossibile liberare gli uomini da se stessi senza combattere contemporaneamente l'ideologia che si è consolidata nelle loro teste quale strumento della mancanza di libertà.
In particolare, dovrà essere dissolta nella psicoanalisi una certa immagine di Dio trasmessa dalla teologia del sacrificio e dalla guida autoritaria dall'esterno. L'ateismo dell'ebreo Sigmund Freud è soprattutto una necessaria distruzione di tutte le rappresentazioni teologiche che
sono d'inciampo sul cammino verso il divenire uomo dell'uomo.

La psicoanalisi non è solo qualcosa di distruttivo cui debba essere contrapposto a completamento un metodo costruttivo sintetico. In effetti si può negare efficacemente qualcosa solo in forza di una più forte adesione e l'umanità radicalmente vissuta della psicoanalisi contiene almeno due implicazioni che di per sé sono accessibili a un'interpretazione teologica, o meglio religiosa.

1. La componente personale
Qui va ricordata innanzitutto la componente umana del primo comandamento del Decalogo: «Non ti farai immagine alcuna della divinità». Ogni rappresentazione fissata di Dio blocca la possibilità di sviluppi ulteriori. Tutto ciò che attiene al personale è libertà, un luogo della realtà che rifiuta qualsiasi determinazione dall'esterno.

Su questo versante !a psicoanalisi consiste appunto nel cercare questa realtà dell'autodeterminazione e renderla possibile attraverso l'affidarsi.
Nessun uomo sa che cosa sia una persona libera. Secondo Kant si deve postulare che qualcosa del genere esista. Certo credere, a volte contro ogni esperienza, che l'altro che entra in analisi possa essere in grado, nonostante tutte le deformazioni, di prendere personalmente in mano la propria vita, comporta un credito umano che già presuppone la realtà umana che nell'analisi stessa si realizza.

Non si può chiedere agli analisti una fede in questioni di religione che essi non condividono, va però sottolineato come tutta la psicoanalisi comunque creda nell'uomo più di quanto spesso l'uomo non creda in
sé stesso ed in questo atteggiamento è riconoscibile una fiducia che non può essere fondata empiricamente, ma contiene un a priori antropologico che implica in fondo una dimensione nettamente religiosa.

2.
La componente individuale
A differenza della maggior parte degli altri procedimenti psicoterapeutici, la psicoanalisi è caratterizzata da uno straordinario impiego di tempo. Mentre per la psicoterapia sono previste al massimo 15 ore di colloquio, cioè circa 3 mesi per la durata del trattamento, nella psicoanalisi periodi di 5 - 10 anni non sono affatto una rarità.

Quanto interesse merita un singolo uomo? In natura il singolo essere non è altro che un elemento di passaggio. La psicoanalisi, che di per sé pensa in termini biologici, assicura invece al singolo un'attenzione tale da metterlo in grado, se tutto va bene, di reimpostare in maniera autentica una vita perduta, secondo una sua struttura ideale.

Qui, nel mare di indifferenza, nasce una laguna di vincolo personale che nulla può sostituire. Qui un uomo, un essere empirico, veglia sul suo Io intelligibile. Colui che gli sta di fronte non è altro, inizialmente, che un uomo limitato fallibile, con una modesta capacità di vedere e addirittura con una certa rapidità di esaurimento - già solo 45 minuti di colloquio costituiscono un peso eccessivo per la capacità di concentrazione della maggior parte degli psicoanalisti.
Un Io più o meno casuale diviene qui per un altro Io altrettanto radicalmente contingente la base per rendere possibile qualcosa di assoluto: una libertà che supera la paura dell'individuazione in una fiducia che si tuffa nell'infinito senza lasciarsi contraddire da nulla, anche se non si lascia provare da nulla.

È una questione di uso linguistico trasmesso dalle rispettive culture il modo in cui si designa questo
fra del dialogo di due persone che rende possibile l’individuazione, il riflesso di un Assoluto in mezzo al relativo, una vera rivelazione della trascendenza in mezzo all'immanenza.
Nel Nuovo Testamento Gesù dice a un certo punto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»
(Matteo 18,20). Come si chiama quell’Io che diviene presente là dove gli uomini trovano il loro Io? Potremmo chiamarlo Dio. Potremmo chiamarlo amore. Ma sappiamo noi in che cosa ‘Dio’ e ‘amore’ si distinguono?

(Traduzione di Michele Sampaolo)

Home Page | Chi siamo | Attività | Relatori | Bibbia | Chiesa | Etica | Economia | Polis | Pensieri | Audio | Video | Newsletter | Link | Mappa del sito

Cerca

Torna ai contenuti | Torna al menu