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Luigi De Paoli 5.03.1994

Etica > Etica cristiana e psicoanalisi (Eugen Drewermann 5.03.1994)



L’originalità di Drewermann



Qualche decennio fa uno dei più grandi storici contemporanei, A. Toynbee, scriveva che l'Occidente avrebbe compiuto un errore madornale nell'affidare la traduzione delle religioni positive al linguaggio della metafisica greca, troppo carica di autosufficienza, sia morale che intellettuale, al punto da snaturare il sentimento religioso che si fonda, invece, sulla consapevolezza della debolezza umana e della dipendenza dall'Altro.

Gli stessi teologi cristiani avrebbero ceduto alla tentazione di armonizzare fede e filosofia greca al punto da stravolgere l'originale messaggio di Gesù al di là di ogni possibilità di riconoscerlo.
Per avere una riprova di tale diagnosi basterebbe aprire una qualsiasi pagina del recente Catechismo della Chiesa Cattolica e paragonarla ad una qualsiasi pagina dell'Antico o del Nuovo Testamento: tanto trasuda spirito dottrinale-filosofico-intellettuale il primo, quanto ne è carente il secondo.
Mentre il Catechismo Vaticano non è centrato sulla storia e sulle vicende concrete degli uomini, il secondo, cioè la Bibbia, lo è in modo altamente drammatico, al punto da essere un buon copione per un film, cosa impensabile per l'arido e astratto testo catechistico del Vaticano.

Come mai ciò sia accaduto e quali conseguenze abbia determinato lo chiarisce Drewermann, con una impressionante dovizia di dati raccolti dalla letteratura, dalle sedute di psicoterapia, dai colloqui pastorali e da una prolungata ricerca sui principali problemi biblici, teologici ed ecclesiali.


Galileo, il ritorno del rimosso

Forse per tale ragione egli è stato soprannominato il “Galileo della Westfalia”: come il grande fisico, Drewermann ritiene che per andare avanti sia necessario operare una “rottura” con le avviluppanti ideologie cosmologiche che, in nome della verità di cui si dichiarano disinteressate vestali, non tollerano cambiamenti.
Fu proprio Galilei infatti che, pena l'esilio, obbligò il magistero ecclesiastico a correggere i criteri fondamentali dell'esegesi biblica, di cui esso si riteneva l'unico e infallibile guardiano.
Con Drewermann il caso Galilei si riapre: dal momento che non era mai stato chiuso. Era stato rimosso, acciocché gli ingenui credenti non fossero turbati dal fatto che per secoli il Magistero aveva promosso una erronea catechesi a partire da una interpretazione letterale del testo biblico, errore che Galileo segnalava con consapevole temerarietà.

Drewermann riapre il caso Galileo perché segnala che con i criteri funzional-logico-aristotelici non si arriva a Dio, né si possono fecondare le coscienze degli uomini, imbrigliando in canoni e istituzioni la Grazia vitale del Dio dell'Amore.

Ciò significa che Drewermann neghi il metodo storico-critico? Niente affatto.
“Io mostro solo che finiamo in un ateismo illuminato, se ci fermiamo a tale metodo: inoltre, e viceversa, mostro che rimaniamo prigionieri di un modernismo antimodemistico se non prendiamo conoscenza dei risultati di tale metodo”.
Come Galileo critica l'interpretazione letterale del testo biblico, affermando che il fine dell'autore è insegnare “come si va in cielo ma non come vanno le cose del cielo”, così Drewernann tiene a sgretolare la posizione razionalista-storicista dell'attuale esegesi cattolica per introdurre una dimensione “poetico-salvifica”.

Per lo psicoanalista tedesco la Bibbia non si pone lo scopo di dire cosa hanno fatto Abramo, Mosè o Gesù: i passi biblici si dovrebbero leggere
“come se quegli stessi li avessimo sognati noi la notte scorsa”, oppure si dovrebbero ascoltare come si ascolta un amico, non ponendo l'interesse sui fatti, bensì sul “significato emozionale”.
Esemplari sono le parabole o racconti che, pur non contenendo verità storico-fattuali, hanno assunto una valenza storico-simbolico-universale proprio perché attraversano la storia di ogni uomo e di ogni tempo.
Di qui la coincidenza con l'esperienza psicoanalitica, durante la quale la storia passata del paziente rivive attraverso un nuovo percorso emozionale e acquisisce un senso dinamizzante solo quando è tolta dal suo sarcofago razionalistico e dalla sua dimensione cronachistica.

Ecco perché Drewermann si scaglia con passione dialettica contro il linguaggio dogmatico della gerarchia, così abissalmente lontano dalla modalità profetica con cui parlava Gesù, dalle cui labbra fluivano
“cascate di immagini e di parabole, che sconvolgevano profondamente la gente”. Per lui Dio era più vicino “alle mani unte di un mendicante” o sulla “bocca devastata dal vizio di una prostituta”.
Drewermann indica l'originalità eroica di Gesù proprio nella lotta spietata che Egli portò contro la scienza teologica che cercava di capire Dio a partire dalla “tradizione” e dal
“fruscio dei papiri”, rifiutandosi di capire Dio a partire dal presente, dalle infinite rifrazioni della luce negli angoli più oscuri della vita.

E questo radicamento nel presente costituisce un altro ponte con il procedimento psicoanalitico, che rigetta ogni speculazione sul passato nel convincimento che solo ciò che pensa il paziente nell'
hic et nunc è fondamentale che venga vissuto, esplicitato e poi integrato con la storia personale, la cui memoria ha senso solo se feconda vitalmente il presente.
A testimonianza del modo con cui Drewermann collega costantemente presente e passato c'è tutta l'analisi biblico-psicoanalitica che egli sviluppa in relazione al male oscuro dell'uomo, al suo “peccato originale”.


Peccato versus Redenzione

Nella letteratura teologica cattolica il peccato è “originale” in quanto commesso volontariamente dalla coppia originaria: tale peccato consisterebbe in una disobbedienza esplicita al divieto di Dio di avvicinarsi all'albero della conoscenza e di mangiarne i frutti. Inoltre si trasmetterebbe, quasi geneticamente a tutto il genere umano e per tutto il tempo a venire. A meno che... a meno che Dio non accetti una riparazione “infinita” commisurata all'offesa “infinita” ma chi poteva fare ciò, se non un Dio che assumesse la condizione umana e risarcisse Dio Padre dall’offesa arrecatagli dalla prima “coppietta”?

Questo è il succo del ragionamento teologico bimillenario che ha dominato nella chiesa cattolica: di conseguenza la Redenzione è un atto riparativo verso un Dio sostanzialmente permaloso e narcisista, che non accetta alcuna disobbedienza da parte dei suoi a meno che non venga ripagato con uguale moneta. Insomma una dinamica divina ispirata alla legge del taglione, per cui ad una offesa deve corrispondere una pena.

Questa concezione prevale tutt'oggi nel magistero cattolico ed è chiaramente espressa nel capitolo II del recente
Catechismo vaticano intitolato, per l'appunto Cristo ha offerto se stesso al Padre per i nostri peccati (p. 168).
Nel primo capitolo gli estensori del
Catechismo insistono sul fatto che la “Rivelazione ci dà la certezza di fede che tutta la storia umana è segnata dalla colpa originale liberamente commessa dai nostri primogeniti” (p. 111). Il peccato è sempre e solo “disobbedienza”, “ribellione contro Dio”, “amore di sé fino al disprezzo di Dio” (p. 468).
In tale ottica la Rivelazione serve solo a mostrare la capacità di Dio di “perdonare”: non può essere guarigione o liberazione, perché l'uomo non è, ad esempio, malato, o debole: è semplicemente cattivo, ribelle, disobbediente. Ancora prima di nascere. Ancor prima di essere concepito.

Drewermann è consapevole che questa perversa concezione di Dio è frutto della nevrosi clericale e con minuziose analisi testuali, illuminate da una premessa psicanalitico-antropologica, dimostra come l'uomo sia segnato, sin dall'inizio della sua comparsa nel cosmo e proprio in virtù della peculiare evoluzione della coscienza, non da una “colpa” ma dall'angoscia, che nell'uomo aumenta proprio perché egli è consapevole sia della propria grandezza che della propria finitudine, sia della propria potenza come della propria impotenza.

È a partire da questa condizione esistenziale che l'uomo non può che oscillare tra due posizioni: o farsi Dio, coltivando sentimenti di onnipotenza, o vivere depressivamente come un esiliato, che aspira a tornare al paradiso terrestre delle sue ossessive idealizzazioni.
Tutto ciò corrisponde alla diffusa dottrina cristiana secondo la quale la superbia sarebbe l'origine del peccato: ma il movente, dice Drewermann, non sarebbe la volontà (di disubbidire) ma l'angoscia, che
“spinge l'uomo a perdere la propria misura e a voler essere di più di quel che è: per paura di essere un animale egli deve essere un angelo, per paura di essere alcunché deve essere un Dio. L'angoscia non permette mai di essere un semplice uomo”.

Questo ribaltamento “galileiano” del primo libro della Bibbia, che ancora oggi la gerarchia cattolica continua pervicacemente a leggere in modo letterale, senza tener in debito conto la lezione di Galileo e delle scienze antro- psicoanalitiche, impone un simmetrico e coerente ribaltamento delle interpretazioni della Rivelazione, della Redenzione, della Cristologia: infatti, se tutti gli errori che noi, uomini e donne, compiamo quotidianamente dipendono dall'angoscia e da modalità difensive non coerenti con il principio di realtà, allora il senso della presenza di Gesù non può più essere letto come “sacrificio” e come “riparazione” sebbene egli sia per Drewermann essenziale come è per il papa, non lo è certamente nello stesso senso.

Il teologo tedesco nega naturalmente che Dio avesse bisogno della morte sacrificale dell'unico Innocente per poter perdonare gli uomini: l'illustre falegname di Nazaret muore, non per riparare il Padre, ma perché
“la libertà e il senso di umanità che egli incarnava facevano inevitabilmente emergere tutte le nostre resistenze e le coercizioni religiosamente interiorizzate”.
Gesù muore non solo perché predilige pubblicani e prostitute, cura di sabato, restituisce i lebbrosi alla società, smuove i paralitici bloccati nella loro rinuncia al movimento, ma soprattutto perche “distrugge l'esteriorismo della religione”.
La redenzione che Gesù opera comporta la denuncia e lo smascheramento delle potenze demoniache che avvelenano la speranza, desertificano l'amore, anemizzano la fede forze che si annidano nella tradizione sociale e familiare, ma anche in quella religiosa, per cui ogni qualvolta Gesù
“osa vivere e comunicare un po' di libertà a favore degli uomini, sempre si scontra con quella corporazione degli scribi che lo pedina passo passo e prepara la sua condanna a morte”.
La redenzione, dunque, non è effetto di una morte sacrificale ma di una vita esemplare, incentrata, non nella masochistica sottomissione a un Dio sadico, bensì nella testimonianza di un Dio liberante, che rigenera coloro che sono “rinchiusi nel ghetto della disperazione” e che corre a salvare non le 99 pecore al sicuro ma quell'unica perduta.

In sostanza la redenzione non è atto magico o compensativo, compiuto 2000 anni fa, ma si realizza in ogni relazione personale che comporta il “farsi prossimo” e prossimo misericordioso verso chi è disperato, umiliato, impoverito da mille circostanze negative.
Drewermann trova nella psicoterapia analitica lo spazio per generare una intesa feconda con il sofferente attraverso una bontà incondizionata e una fiducia radicale con cui il terapeuta introduce l'interlocutore al mistero dell'esistenza “con le immagini eterne della religione a livello dell'inconscio”. E questa è “la base per il miracolo della guarigione redentiva grazie alla forza della fede”.


Legge versus Amore

“Ho il sospetto - scrive Drewermann - che la chiesa stia per attuare diligentemente quello che, duecento anni fa, fu proclamato come il programma della eliminazione della religione: la riduzione di tutto il contenuto dottrinale religioso alla morale. Se ci guardiamo attorno vediamo che, nei documenti ufficiali, la domanda 'cosa dobbiamo fare' è costantemente collegata a determinati valori ed è espressa in un intreccio fatto di determinate prescrizioni pratiche e di impulsi“.

Il contrario di Gesù, che invece, inaugura una nuova dinamica religiosa in cui gli uomini sono invitati ad andare al di là della legge: non è un caso che egli non parli quasi mai di matrimonio, meno ancora codifichi i rapporti sessuali o sociali.
Secondo il teologo tedesco. Gesù non paria nemmeno dell'amore ma di quella dinamica quasi dimenticata dell'amicizia e della fraternità: dinamica di trascendimento dell'interesse individualistico e di apertura all'infinita concatenazione con persone e cose con cui vige un legame creaturale, non solo spirituale, ma anche fisico-molecolare.

Nel rispetto della legge, continua Drewermann, si diventa buoni cittadini, buoni cristiani, persone rette e rispettose, ma infecondi, incapaci di generare bontà, fraternità, comunità:
“proprio per questo le predicazioni di Gesù apparivano un invito alla ribellione, all'anarchia, un attacco contro tutte le garanzie stabilite. Secondo Gesù, quel che davvero bisogna fare quando un uomo si smarrisce o procura dolore ai suoi simili è semplicemente vedere ciò che gli manca o che più lo affligge. Questo era il suo insegnamento, quell'insegnamento che gli meritò la morte”.

Drewermann insiste sull'errore millenario della Chiesa di aver convertito il messaggio cristiano in una esortazione a un'incessante ascesa spirituale o un idealismo morale con una forte tensione trascendente.
“Niente di più sbagliato - egli scrive- che pensare di servire un Dio il quale, dall'altra riva, ci esorta a raggiungerlo attraversando il fiume del tempo. Suo vero fondamento è semmai la convinzione che Dio, un giorno o l'altro, nel mezzo del nostro cuore assediato dalla paura, dirà: “Pace a Voi”. Pace che in ebraico equivale a salute, integrità e felicità perfetta”.

Niente di più sbagliato, dunque, che imporre comandamenti là dove la relazione è ispirata all'amore: cosi come non si può tradurre in direttive canoniche “il discorso della montagna”, semplicemente perché le leggi (e quindi le sanzioni) non sono in grado di estorcere l'amore: anzi generano paura ed angoscia, ostacolando la conquista della libertà e della fiducia. E qui si aprirebbe una lunga riflessione sulla forza dialettica con cui Drewermann disintegra l'apparato moralistico (fedeltà, indissolubilità, contraccezione, ecc.) con cui la Chiesa Cattolica svuota e riempie la sostanza del matrimonio cristiano.
Se infatti il matrimonio cristiano è opera della grazia di Dio, esso non è un'istituzione naturale e come tale non è soggetto alla “legge”, come non può essere soggetto a legge quanto è gratuito, quanto rientra nell'ambito del dono.


Ministero sacerdotale versus uomo sacerdotale

Avendo mutato il paradigma interpretativo nei confronti della millenaria riflessione teologico-biblica, Drewermann trae le naturali conseguenze a livello pastorale-organizzativo e dimostra come l'istituzione ecclesiale sia impigliata in una dinamica sacrificale-riparativa, ma non realmente salvifica.

La critica che egli muove soprattutto ai chierici è proprio che costoro, con argomentazioni pseudoteologiche, sono stati educati a rinunciare alla realizzazione del Sé e ad idealizzare l'assoggettamento al Genitore, che occupa tutta la possibile area maturativa del prete-religioso, finendo per inibirne tutte le capacità, non solo intellettuali e critiche, ma anche affettivo-pulsionali.
Tale impoverimento ha senso proprio alla luce del presupposto inconscio secondo cui la continuità con Gesù Cristo si sostanzia proprio e solo nel sacrificio di Sé, nell'obbedienza al Padre, nella rinuncia a ogni personale aspirazione, che non sia l'identificazione col Padre. Identificazione, ovviamente, che è incompatibile con l'individuazione.
Per mantenere tale assetto psichico il chierico ha bisogno di una struttura verticale-gerarchica, nella quale vi sia uno che stia sopra, che esiga l'immolazione a quello che sta sotto; il quale, a sua volta, farà altrettanto con quello che sta sotto di lui.

Nasce così, una catena sado-masochista, nella quale sono coinvolti i “fedeli”, che non hanno
se non due alternative: o uscire dalla Chiesa cattolica, o rimanervi ma a prezzo di non essere riconosciuti come persone-fratelli-sorretti ma solo como assoggettati.
Ciò induce Drewermann ad affermare che il Cattolicesimo tende ad indurre nei chierici (e nei fedeli) una forma di alienazione della coscienza, ed uno stato patologico di tipo nevrotico, caratterizzato dalla costrizione a ripetere eternamente il rituale della nparazione-riconciliazione.

Vediamo brevemente perché:

a. L’ideale del chierico e i contenuti della fede non crescono a partire da un Io libero e autonomo, ma sono proposti da figure esterne di tipo messianico-sacrale, che garantiscono una crescita magica dell'Io e una abbondante ricompensa ultraterrena a condizione che esso si sottometta all'autorità, l'unica che ha il potere di pensare-normativizzare e decidere ciò che è buono/cattivo vero/falso.

b. Tale debolezza dell’Io risale al momento della scelta della professione che generalmente avviene massivamente in un periodo, se non infantile, adolescenziale e sulla base di un convincimento inconscio di non essere indispensabili o degni di essere amati.
Il fatto di essere “eletti” da Dio compensa momentaneamente il “buco nero” dell'angoscia; ma dato che l'Io non sente realmente tale elezione, deve costantemente ripetere dottrine standard relative alla bontà di Dio e inculcare norme che lo facciano sentire un “eletto” rispetto alla massa dei “non eletti”. Di qui, ad esempio, l'accentuazione ossessiva dei peccati sessuali, la qual cosa offre ai casti chierici la possibilità di sentirsi realmente “eletti”, in quanto superiori.

c. Questa “elezione” sacrificale trova il suo transfert teologico nel triangolo (pseudo trinitario): Dio padre. Maria madre e Gesù figlio. Il Dio severo, autoritario e padrone si coniuga con una madre. Maria, povera ed umile donna, sottomessa alla volontà del maschio onnipotente, pronta a “sacrificarsi” prima per il Padre, poi per il Figlio, il quale, a sua volta, non può non continuare a “sacrificarsi” per la Madre sofferente, fino alla completa riconciliazione tra Madre-Padre-Figlio.
Il chierico, dal canto suo, modella la sua vita sulla stessa base sacrificale della Madre Chiesa, e diventa un “eletto” nella misura in cui si sottomette alla volontà del Padre che esige tale sacrificio.

d. La sottomissione-obbedienza, dunque, è il centro delle preoccupazioni del chierico e, conseguentemente, della chiesa: la libertà di coscienza e la stima di Sé possono diventare, addirittura, impedimenti al sacrificio di Sé. Di qui un ascesi ossessiva del sacrificio, che è antagonistica del dono. La differenza è radicale, perché nel sacrificio c'è la dissoluzione dell'Io a favore della onnipotenza dell'Altro, mentre nel dono c'è un arricchimento gioioso sia dell'Io che dell'Altro.
Se il paradigma vincente è il sacrificio, il chierico non può conoscere l'eros, l'amicizia, la sessualità, perché tali dinamiche richiedono una disposizione al dono, non al sacrificio.

e. Per difendersi dai suddetti bisogni “primari” il chierico deve ricorrere ad una ossessiva inquisizione dell'eros e della sessualità; persino dell'amicizia, dato che in essa si nascondono i pericoli dei bisogni relazionali di tipo affettivo. Non è un caso che chierici, vescovi e papi, pur potendo, non vivano secondo uno stile familiare, ma in un perpetuo isolamento affettivo, certamente non come fratelli-sorelle.

Essendo stata precocemente e permanentemente amputata la dimensione emozionale, ogni incontro può diventare un'occasione potenziale di “tentazioni”: ma un'ascesi opportunamente studiata viene in aiuto, legittimando solo due tipi di relazione: o quella cerebrale, intellettualistica, dogmatica; o quella moralistica, che fa perno sulla volontà e sullo sforzo personale.
Di qui la coazione, da parte della classe sacerdotale, a privilegiare una sorta di tenaglia con cui immobilizzare le istanze interne di tipo pulsionale e fantasmatico: una ganascia della tenaglia è costituita dalla potenza della tradizione, con le sue norme inderogabili e rassicuranti; e l'altra è rappresentata dal terrore delle pene eterne e dal senso di colpa, che agisce come deterrente di ogni esigenza di libertà e spontaneità.

Il risultato di questa dinamica ecclesiale è disastroso, dice Drewermann, perché da un lato nevrotizza il chierico, e dall'altro nevrotizza la chiesa e la società, perché la sacralizzazione e la teologizzazione del sacrificio non hanno il potere di “curare”, “salvare”, o “liberare”.
Orbene
se una religione, se una fede, non operano tali miracoli sono oggettivamente prive di senso, soprattutto in un'epoca in cui la domanda di salvezza è, non solo più cosciente, ma anche più drammatica.

Per di più è in perfetta antitesi con il messaggio di Cristo che:

• si dichiara un uomo inviato da Dio per promuovere “liberazione” e “guarigione”, sia in senso materiale che spirituale. Gesù, cioè, non costruisce una dottrina, non parla in modo catechistico e impersonale di Dio e non lascia documenti scritti: appunto perché il suo scopo non è ellenizzare, o intellettualizzare i rapporti, ma guarirli dal male, dalla colpa, e dalla disperazione;

• anziché istituire il sacerdozio libera la comunità da ogni culto sacrificale e da ogni dipendenza da una classe sacerdotale. Il sacerdozio (nella sua accezione rituale) è superfluo, perché Cristo ha riconciliato tutti gli uomini con Dio: e la sua comunità ha, invece, il compito (o il ministero) della riconciliazione, della giustizia, della guarigione. Tutta la vita diventa un culto fondato sul dono, e il tempio è collocato nel cuore;

• non ordina sacerdoti, né chiede voti religiosi o giuramenti di fedeltà. Chiede “uomini sacerdotali”, che si donino soprattutto al nemico o all'avversario, come segno dell'amore che Dio ha per tutti;

• propone (e non impone) una comunità anti-gerarchica, anti-secolare, anti-monarchica, nella quale la propulsione sia fondata sul servizio, invece che sul dominio, sull'ascolto reciproco invece che sull'obbedienza unilaterale, sulla fiducia nel Dio provvido invece che sulle certezze offerte dal potere e della ricchezza;

• e soprattutto attacca i “parolai” di Dio. Non gli atei, ma coloro che bestemmiano Dio, presentandosi come quelli che sono sempre a posto, che pregano in vistose vetrine in modo da essere lodati.
“Egli - per citare ancora Drewermann - ha voluto la fine delle parole avvolte dalle nubi d'incenso, dalle pratiche sacrificali d'una perpetua angoscia... Per questo egli ci ha dato la sua forza: per guarire la malattia, per cacciare l'ossessione. Una chiesa che non è essenzialmente terapeutica nella grazia di Dio non è mai la 'comunità'dell'ebreo Gesù di Nazaret”.

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