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Luigi De Paoli

Etica > Etica cristiana e psicoanalisi (Eugen Drewermann 5.03.1994)



Frammenti del pensiero di Eugen Drewermann


Eugen Drewermann, 1940, teologo e psicoterapeuta, è autore di famose opere di cui abbiamo ritenuto opportuno ritagliare alcune citazioni.



L'ostilità della Chiesa ai miti e alle manifestazioni inconsce della psiche

«La deleteria polemica della chiesa contro le energie inconsce della psiche umana comincia già con il rifiuto cristiano primitivo del mito pagano. I primi apologeti cristiani, per distinguere se stessi e le proprie dottrine il più possibile dalla divinità morente e risorgente delle religioni antiche, negarono consapevolmente già nel II secolo la comune origine di tutti i simboli religiosi dagli strati profondi della psiche umana, senza volerlo essi repressero, anzi demonizzarono cosi il mondo dei miti, delle fiabe e dei segni quasi si trattasse di qualcosa di acristiano e di ostile a Dio, senza presagire che cominciavano cosi ad avvelenare le radici della stessa cristianità». (PTM)

«Parallelamente all'ostilità della teologia cristiana nei confronti dei miti, già nei primi secoli cristiani si osserva come, per legittimare la fede cristiana, si ricorre alla filosofia greca e alla sua pronunciata razionalità. Il tratto antimitico fondamentale dell'Antico Testamento e l'illuminismo razionale del mondo greco derivanti ambedue da un'area culturale di stampo prettamente patriarcale, strinsero cosi nel cristianesimo una singolare alleanza, che dopo grandi successi iniziali doveva ritorcersi sempre più contro le dottrine autentiche del cristianesimo». (PTM)

«Collegata al fraintendimento razionale di
se stessa, fraintendimento ostile ai miti è la superficialità con cui la teologia cristiana spiega i propri dogmi e li sacrifica addirittura inevitabilmente in malafede. L'indice più chiaro di questo sviluppo consiste nella riduzione di fatto della dottrina della fede cristiana a una semplice dottrina morale. Giusto due secoli fa I. Kant espresse per la prima volta quel che nella rivoluzione francese era già una convinzione vissuta: e cioè che tutta la dogmatica cristiana sarebbe potuta cadere senza danno come un castello di carta e che soltanto la moralità, la dottrina delle virtù cristiane andava considerata come la vera sostanza della religiosità». (PTM)

«Invece di approfondire il mistero della mancanza umana di libertà nel campo della lontananza da Dio partendo dalla psicodinamica inconscia dell'angoscia, l’unilateralità della teologia cristiana trasformò questa proposizione centrale della sua dottrina in un dogma da credere in maniera puramente positivistica, dogma che dichiarava l’uomo colpevole per motivi non ulteriormente comprensibili della “giustizia” divina e, a seconda delle circostanze, induceva ad indulgere a un sinistro fatalismo o a un rigorismo ascetico virtuoso» (PTM)

«Di importanza pratica nella teologia cristiana non erano tanto le astruse speculazioni di un Paolo o di un Agostino, quanto piuttosto le dottrine assurde, ma cosi chiare per la sana ragione umana e didatticamente cosi maneggevoli, secondo le quali gli uomini peccano perché sono troppo superbi o, in maniera ancora più semplice, perché sono semplicemente disobbedienti. La complicata psicologia dell'angoscia si trasformava cosi automaticamente in una solida ideologia del potere e della disciplina ecclesiastica, al fine di meglio estorcere umiltà e obbedienza, vale a dire servilismo e strisciante tradimento di sé. Naturalmente in questo modo l'angoscia dell'esistenza senza Dio non veniva guarita con una fiducia più profonda, ma si ingigantiva al contrario soltanto la paura degli uomini: proprio la psicanalisi ha molto contribuito a dimostrare la connessione fra strutture autoritarie di dominio e repressione morale delle pulsioni». (PTM)



La negazione della tragedia umana

«È sorprendente, anzi spaventoso constatarlo: il cristianesimo nega completamente la tragedia. Non solo esso non ha elaborato alcuna teologia della tragicità, ma non molto tempo fa ha addirittura messo all'indice dei libri proibiti una persona come M. de Unamuno, perché riteneva il pensiero tragico del filosofo spagnolo inconciliabile con l'idea cristiana della redenzione. Questo contrasto viene cioè ritenuto tutt'oggi come fondamentale: chi parte dalla redenzione non può assolutamente ammettere la tragedia; le due cose sono contrarie e contraddittorie fra di loro. Dobbiamo però domandarci se ciò sia vero e perché lo debba essere; il cristianesimo parte infatti dogmaticamente addirittura dalla tragedia perfetta dell'esistenza umana, e il suo rifiuto del tragico è cosi singolare che qui debbono per forza giocare un loro ruolo motivi particolari». (PTM)

«Al racconto jahvistico delle origini tutta l'esistenza umana al di fuori della rivelazione concessa da Dio (Jahvé) al popolo di Israele appare come un'unica tragica concatenazione fatta di colpa e buona volontà. Lo jahvista non vede mai l'uomo come un individuo semplicemente cattivo, empio, nemico del bene per superbia, disobbedienza o arroganza; egli osserva piuttosto come gli uomini cerchino di continuo disperatamente di essere buoni, ma senza riuscirci, perché l'angoscia avvelena fin dall'inizio le loro azioni e le perverte tragicamente nel loro contrario. L'angoscia li induce a perdere la fiducia nel loro Creatore, e cosi essi cadono in un mondo senza Dio, in cui non riescono a sopportarsi come essere finiti. Per superare la loro nullità sono costretti a tendere all'assoluto, ad essere uguali a Dio, e si condannano così, a motivo delle esigenze esagerate che si pongono, alla rovina». (PTM)

«Ma con questo cambiava anche di molto la posizione nei confronti del fenomeno della tragicità. Seguendo la diagnostica jahvistica si sarebbe potuto e dovuto fare della dottrina cristiana del peccato originale uno strumento universale di comprensione della problematica dell'esistenza umana, ma si utilizzò la dottrina del peccato originale in maniera puramente appellativa nel senso dell'
usus elenchthicus: cioè per mostrare che la fede in Cristo è necessaria per salvarsi o, in altre parole, per mostrare che l'uomo non può trovare la sua pace da nessun'altra parte, in nessun'altra religione al di fuori del cristianesimo». (PTM)

«Ora non si trattava più di analizzare e capire la tragicità dell'esistenza umana, ma di rinfacciare la colpa di non avere ancora trovato la fede in Cristo. Il motivo della conversione a Cristo esercitò un influsso tale, e il contrasto fra il cristianesimo e la religione ebraica, nonché con tutte le altre concezioni “pagane”, andava messo cosi in risalto che la tragica prigionia dell'uomo nel peccato divenne ora qualcosa di per
superabile, anzi di già da sempre superato in Cristo e, di conseguenza, un mero incubo di ricordi del passato». (PTM)

«Bisognava negare la tragicità dell'esistenza umana, così si ritenne, per sottolineare lo stato di redenzione dell'esistenza in Cristo. I fronti erano ora chiari: là un paganesimo pessimistico, fatalistico, schiavo di una fede nel destino, qui un cristianesimo pieno di gioia e di speranza, fondato sulla libertà e sulla decisione, fiducioso in Dio». (PTM)

«In questo senso il cristianesimo aveva perfettamente ragione quando, con l'idea della redenzione, ritenne contemporaneamente superate in linea di principio la dipendenza e la debolezza dell'Io e quindi tutta l'esperienza della colpa tragica fatta nel mondo. Ma chiaramente per paura della forza di attrazione dell'antica mitologia e soprattutto per sottolineare l'unicità di Cristo, esso fece fronte contro i miti pagani in un modo tale da ritenere di dover condannare e disprezzare, assieme ai miti antichi, anche le forze mitizzanti presenti nell'uomo. L'inconscio non venne integrato, assimilato, elaborato, bensì represso, rimosso e demonizzato» (PTM)



L'angoscia come spiegazione del “peccato”

«Riconoscendo infatti solo l'intelletto e la volontà dell'uomo, da quel momento in poi c'era ormai bisogno di “predicare” il cristianesimo per rendere possibile la “fede” e, quindi, la “redenzione”. Se malgrado la predicazione qualcuno non “credeva”, ciò lo si doveva o solo al fatto ch'egli non aveva ancora capito nel modo giusto il messaggio - e che aveva quindi bisogno di essere ulteriormente e più insistentemente istruito -, oppure al fatto che non “voleva”, e in tal caso egli era cattivo e andava severamente punito». (PTM)

«La superficialità della diagnosi del peccato, nonché la concezione moralistica della redenzione erano una conseguenza inevitabile della superficialità dell'antropologia teologica, della riduzione dell'uomo all'intelletto e alla volontà. Il dogma del peccato originale è del resto solo un esempio di come la dogmatica cristiana, con questa riduzione, si condanni alla rovina». (PTM)

«Anziché studiare le angoscio concrete dell'uomo e curarle con la forza sanante della fede, si dichiarò il singolo o un ‘ossesso’ o un uomo di cattiva volontà; e in ambedue i casi, con la mitologizzazione e con la moralizzazione del problema, ci si privò della possibilità di mostrare realmente al singolo come egli avrebbe potuto comprendere e elaborare, in virtù della fede, le tragedie della sua vita». (PTM)

«Quando si legge la descrizione dell'amore in Genesi 2, bisogna innanzitutto riflettere che il racconto del paradiso terrestre, proposto dallo jahvista, è una specie di retroconsiderazione dell'ordine che Dio ha previsto per il bene dell'uomo, e che tale ordine sussiste solo fin quando uno si sa contenuto in Dio. Ogni uomo, cosi afferma lo jahvista, perde a modo suo di vista Dio per la grande angoscia, simboleggiata dal serpente del non essere, e da quel momento in poi il giardino di Dio gli appare come una foresta minacciosa; costretto a lottare per la mera sopravvivenza, egli disimpara alla fine addirittura la cosa più umana di tutte: l'amore. Nelle spire dell'angoscia l'amore tra l'uomo e la donna si trasforma nella maledizione dei sessi; si perverte in un tormentoso miscuglio fatto di sete di potere e di umiliazione dell'altro, di pruderie e di voluttà (Gn 3, 8.16)». (PTM)

«Lo jahvista afferma infatti semplicemente che, di per sé, la relazione fra l'uomo e la donna non sarebbe condannata a complicarsi e a fallire, come sembra invece avvenire continuamente; in particolare egli si rifiuta di fare della differenza e della tensione psicologica esistenti fra l'uomo e la donna un dualismo ontologico della creazione e addirittura una prova della contraddittorietà del divino stesso». (PTM)

«Non possiamo concepire così Dio, dice lo jahvista; non possiamo calunniare così la sua creazione e in particolare la figura della donna; né, di fronte al dilemma della nostra incapacità di amare, possiamo dichiararci in maniera così toccante innocenti. Se l'uomo e la donna si umiliano e tormentano a vicenda in un modo a quanto pare necessario, ciò per lo jahvista non dipende dalla volontà ferrea di uno Zeus beffardo, ma è un segno del fatto che l'uomo è in contrasto con se stesso e col suo Creatore, e quello che gli sta decisamente a cuore è di far teologicamente derivare l'ostilità dei sessi da una più originaria ostilità dell'uomo nei confronti di Dio». (PTM)



L'amore non è un comandamento

«Stranamente l'amore ama proprio l'imperfetto, ciò che ha bisogno di essere completato; nell'amore uno vorrebbe percepire che cosa può significare per l'altro e che cosa può dargli, e per la reciproca simpatia nulla è più mortale della sensazione che l'altro si comporti in maniera talmente perfetta e autarchica che sia diventato un “uomo sferico” tale da non mancare di alcuna cosa e da impedire che gli si possa ancora dare qualcosa. L'impulso sessuale a cercare la nudità dell'altro e a lasciarsi possedere proprio attraverso di essa è il più delle volte solo un semplice simbolo di quel che in verità intimamente avviene fra due persone che si amano: non per svergognare, ma per completare esse cercano formalmente le nudità, le carenze, i punti vuoti dell'altro, per completare con la propria esistenza quel che gli manca». (PTM)

«Quando due creature umane si amano, nel sacramento del matrimonio esse lo fanno, in base a quanto abbiamo detto, in un modo che li rimanda al di là di sé a Dio, alla cui presenza esse si sentono sicure e protette quanto basta per accettarsi a vicenda nella loro limitatezza umana e non nutrire nei riguardi dell'altra attese esagerate e assolute. Di qui segue che, in senso strettamente teologico, il matrimonio è una pura opera della grazia di Dio». (PTM)

«È cosa che lascia perciò quanto mai perplessi veder fare della indissolubilità del matrimonio un comandamento morale o giuridico: di una conseguenza della fede si fa così un oggetto della volontà; un'opera della grazia di Dio diventa un'opera dell'uomo; un mistero teologico diventa un pregiudizio giuridico; un evento soprannaturale diventa un atto, che suscita l'impressione di essere naturale quanto la conclusione di un matrimonio in seno ad altri gruppi sociali al di fuori della chiesa; un atto in conformità a regole e a convenzioni sociali, che nell'ambito della chiesa comporterebbe appunto solo l'esigenza morale della indissolubilità. In questo modo si vela quella che è propriamente ottima dottrina teologica, e cioè che il matrimonio, quale sacramento, non è appunto una istituzione naturale, ma un'opera della grazia di Dio». (PTM)



La riduzione intellettualistica e giuridica della fedeltà e del perdono

«Sulla base della grazia non si possono imporre comandamenti; si possono solo trarre conclusioni, che derivano come in maniera ovvia, se e nella misura in cui un uomo sta nella grazia. Le conseguenze di questo tipo non sono una parte dell'etica e della giurisprudenza generale; non si possono tradurre in atto moralmente con l'intelletto e la volontà; risultano se ci sono i presupposti della fiducia, se tali presupposti mancano, non si possono estorcere con alcuno sforzo morale». (PTM)

«La fedeltà è un atteggiamento che scaturisce dall'amore; essa non ne è il fondamento, ma una conseguenza; chi pertanto vuole superare una crisi dell'amore comandando la fedeltà, assolutizza in questo modo una forma fenomenica dell'amore e ne fa la sua quintessenza, senza riguardo alle condizioni in cui l'amore può nascere e sussistere; il concetto di fedeltà viene allora dichiarato un valore a sé stante, che dispensa da ogni ulteriore riflessione e analisi dei motivi per cui due coniugi rimangono insieme o si separano, e che anzi deve chiaramente o coscientemente escludere una simile riflessione e analisi». (PTM)

«Di fronte a questa scelta, cent'anni dopo Tolstoj e insieme al signor Karenin, si trova oggi naturalmente tutta la chiesa. Essa, che nella vita privata esige e si attende dai coniugi una totale disponibilità al perdono, continua a non essere capace di perdonare il fallimento di un matrimonio. Perdona una suora che infrange i voti “perpetui” e sposa un giovane; perdona una prostituta che fa “penitenza” e entra in un convento; perdona l'assassino e il ladro; ma rifiuta il suo perdono a coniugi che - quasi sempre contro la volontà, in un groviglio difficilmente discernibile fatto di mancanza di libertà, di disposizione del destino e di colpa reale - vedono fallire la loro convivenza». (PTM)

«A loro, cosi dice la chiesa, è possibile perdonare solo se sono disposti a “migliorare” e “riparare”. Ma se umanamente il “miglioramento” è appunto consistito nel fatto di aver trovato la forza di abbandonare un matrimonio divenuto insostenibile, che cosa significa qui “riparazione”? Se la miglior forma di “riparazione” consiste appunto nel lasciar libero l'altro di percorrere il suo cammino verso la vita eterna e nel non essergli più di ostacolo con la propria persona, che cosa significa qui ‘miglioramento’?». (PTM)



L'alleanza nascente tra etica e psicoanalisi

«Se una alleanza tra psicanalisi e teologia morale oggi è in grado e in dovere di operare qualcosa, questa cosa è senza dubbio la seguente: cercare di comprendere il carattere enigmatico di quell'essere contraddittorio che è l'uomo partendo dai suoi due opposti poli. L'uomo è l'oscuro intreccio di istinti, di mancanza di libertà e di impotenza, che la psicologia del profondo ci ha insegnato a vedere come fardello e consolazione; ed è nello stesso tempo la libertà dello spirito e della volontà, che la teologia morale cerca di descrivere come suo distintivo e suo compito». (PTM)

«Ambedue cercano di interpretare, a seconda dei casi, il destino o la vocazione dell'essere umano, e ambedue hanno bisogno l'una dell'altra al fine di completarsi reciprocamente nella loro contraddittorietà. Senza l'una e l'altra non esisterebbe infatti lo spazio di ciò che costituisce e contraddistingue essenzialmente l'uomo: non esisterebbe, lungo la linea di confine tra libertà e necessità, l'ambivalenza della tragicità, la speranza e la delusione della ricerca e del fallimento, dell'eterno e eternamente tormentoso “forse” della poesia di Hugo von Hoffmannstahl; e precisamente questa miscela contraddittoria di incertezza e di fiducia, di disperazione e di fede è il distintivo dell'uomo». (PTM)

«Pure la teologia morale deve tener conto della tragica dialettica fra buona volontà e perfida malvagità, fra anelito eroico e falsità sotterranea, mettere quindi in conto la opposta finalità della vita e della morte. Dalla psicanalisi essa può e deve quindi imparare che è sostanzialmente l'angoscia a trascinare l'uomo al male, e deve prender atto una volta per tutte di come gli uomini possano sentirsi inermi e impotenti nella loro angoscia di fronte al loro inconscio. Solo allora la teologia morale riuscirà a motivare e a esporre in maniera convincente la sua persuasione che solo mediante la forza opposta all'angoscia, mediante una forma più profonda di fiducia è possibile all'uomo sottrarsi alle leggi ossessive della nevrosi e delle sue deviazioni». (PTM)

«Solo partendo da questa visuale la teologia morale può nello stesso tempo definirsi - in armonia con la dottrina ecclesiale del bisogno assoluto di redenzione da parte di tutti gli uomini e della impossibilità di compiere il bene al di fuori della fede - come un'autentica disciplina teologica distinta dall'etica filosofica. L'inevitabilità della colpa, cosi come la descrive la poesia di v. Hoffmannsthal, la fusione fatale di tutta l'esistenza con la colpa, rispecchiantesi in modo particolare nel senso depressivo di colpa, potrà divenire realmente comprensibile per la teologia morale solo se il dogma ecclesiale del “peccato originale” verrà scandagliato sino in fondo con l'aiuto della conoscenza che la psicologia del profondo ha della psicodinamica dell'angoscia». (PTM)

«Quando Gesù inviò i suoi discepoli per il mondo, diede loro il compito d'imporre le mani ai malati, di scacciare i demoni e di annunciare che il Regno di Dio è vicino. Se comprendo correttamente questo mandato, con ciò s'intende mostrare quel che possano fare insieme la pastorale e la psicoterapia». (PTM)

«Quel che avviene nella psicoterapia è soltanto ciò che la religione, a mio parere, dovrebbe fare, ossia aprire uno spazio nel quale gli uomini possano vivere senza censure e dirigismo». (PS)



L'amore, forza liberante

«Sotto il profilo teologico l'esistenza di ogni uomo somiglia alla situazione di Pietro che, incarcerato e attentamente sorvegliato, attende la sua morte sicura, e la psicologia del profondo, presa isolatamente in se stessa, ha indubbiamente ragione a trasformarsi in ultima analisi nel mitema depressivo di questa visione del mondo come di una prigione ineluttabile; ogni uomo porta però in sé anche l'immagine essenziale della propria libertà, e la cosa importante è quella di percepire tempestivamente l’angelo di Dio, che entra da lui nel carcere per “risvegliare” Pietro alla sua esistenza, esistenza non più incatenata dall'angoscia della morte e dalla paura degli uomini (At 12,1-19)». (PTM)

«Quando vediamo soprattutto la chiesa cattolica non stancarsi di identificare l'amore con il matrimonio e il matrimonio con l'allevamento dei figli, malgrado la spaventosa minaccia della sovrappopolazione, dobbiamo ricordare con chiarezza che Gesù (e anche Budda) non considerò suo compito stabilizzare socialmente l'istituzione del matrimonio; egli non ha sfiorato con una parola neppure la questione intraecclesialmente tanto importante della monogamia o della poligamia, e le poche cose che ha detto al riguardo erano unicamente rivolte a limitare l'arbitrio degli uomini nei confronti delle donne; egli non mise in discussione neppure le regole ebraiche relative alla possibilità di sposarsi più volte. La cosa che gli stava a cuore era invece una fratellanza universale nel rapporto reciproco; non i vincoli della famiglia, ma solo i vincoli del cuore, dell'armonia dei sentimenti, l'affinità e la mutua appartenenza interiore doveva d'ora in poi stare alla base delle relazioni fra gli uomini e orientare a Dio». (PTM)

«Una delle grandi e sagge dottrine delle stessa chiesa cattolica dice che gli uomini sono prigionieri, a motivo del “peccato originale”, di una “concupiscenza disordinata” e che non sono molto capaci di amare; tale concezione viene confermata dalla psicologia del profondo, a patto che si riconosca come causa dell’allontanamento dall'origine essenziale dell'esistenza umana l'angoscia presente nelle fondamenta dell'esistenza. Ma allora, proprio da parte ecclesiale, non si dovrebbe sottolineare e confermare che la forza redentrice della fede si manifesta sostanzialmente nella capacità di incontrare l'altro come donna e come uomo con amore fraterno e di preoccuparsi unicamente del suo bene temporale ed etemo?». (PTM)

«Tutto il mistero della morte sta infatti in questo particolare: che è possibile riconciliarsi con essa solo se amiamo infinitamente un'altra persona al nostro fianco. Solo nell’amore si dischiude la bellezza infinita e la necessità assoluta dell'esistenza di una determinata creatura umana; solo nell'amore riemergiamo in un certo senso all’inizio della creazione e attuiamo dall'interno il disegno di Dio, che dall'eternità volle che esistesse quest'uomo». (PTM)

«Nell'amore soltanto le stelle cominciano a brillare, in seno alla fantasticante luce della luna, come gli occhi dell'amata; solo in esso la notte si stende come un manto; solo per gli occhi dell'amore la scia delle stelle nel cielo brilla come una treccia di capelli e di seta». (PTM)

«Soltanto l'amore è capace di spiritualizzare lo spazio e il tempo, perché solo esso riempie e sente la figura spirituale dell'altro, che non può essere spiegata e compresa nello spazio e nel tempo, con il gioco del caso e con cause mosse dall'esterno». (PTM)

«Appunto per questo l'amore non si lascia scoraggiare dalla morte. Ove i sensi esterni non riescono a percepire altro che la crudele opera di distruzione della persona più amata e bella della terra, gli occhi dell'amore riconoscono una semplice scomparsa dell'involucro, l'affiorare della figura luminosa, autentica e vera dell'anima, l'entrata nella presenza dell'eternità». (PTM)

«L'amore fra l'uomo e la donna, l'amore terreno, “carnale”, non è affatto una mera sala d'attesa per il cielo; non è di per sé impuro e imperfetto; è invece, come nell'esperienza e nell'iconologia dell'antico Egitto, lo specchio e l'anticipazione di quella realtà che, in un'infinita maturazione, costituisce la felicità di quel dove che chiamiamo “cielo”; non si può dire che sia il compimento di tutti i desideri umani, ma è senz'altro la più importante garanzia, il pegno di una futura pienezza dei nostri desideri». (BS)



Il Dio “indottrinato”

«Pretendo, ne più ne meno, che sia posto fine a un modo oggettivante d'insegnare ciò che concerne il cristianesimo, che sia posto fine a un modo di parlare dei ‘misteri di Dio’ che trascuri le implicazioni esistenziali e l'esperienza». (FRV)

«Non il mondo dei fatti e dei ragionamenti, ma il mondo dei sogni è il punto d'origine del fatto religioso. Poiché i sogni sono in maniera essenziale il linguaggio di Dio, oggi, 87 anni dopo l'apparizione della
Interpretazione dei sogni di Freud, io chiedo che la teologia, e in modo particolare l'esegesi, riprenda finalmente a percorrere i sentieri sui quali i medici di Esculapio un tempo, gli sciamani dei popoli primitivi ancora oggi, hanno potuto e possono guarire gli uomini per mezzo di sogni divini, precorrendo ciò che oggi si chiama psicanalisi». (FRV)

«Chi definisce il cristianesimo una dottrina, determina egli stesso, volente o nolente, lo
status dell'insegnante, giustifica necessariamente l'esercizio dell'insegnamento in campo religioso e capovolge la parola di Gesù». (FRV)

«Per quanto riguarda il conflitto con la sinagoga, quel che, nel destino di Gesù, si presenta come il destino di Dio è sempre la sorte di tutti noi, e mai nulla di ciò che succede in questo istante è soltanto ‘fatto’, è soltanto ‘storia’, soltanto passato, anzi si tratta qui dell'eterna domanda, della domanda che si ripropone ogni volta di come noi intendiamo “l'ingresso” di Dio nella nostra vita». (MA)

«Per esempio: negherei la necessità del metodo storico-critico per l'interpretazione della Bibbia? Niente affatto. Io mostro solo che finiamo in un ateismo illuminato, se ci fermiamo a tale metodo; inoltre e viceversa mostro che rimaniamo prigionieri di un fondamentalismo antimodernistico, se non prendiamo conoscenza dei risultati di tale metodo». (CC)

«io nego naturalmente che Dio avesse bisogno della morte sacrificale dell'unico Innocente per poter perdonare noi uomini divenuti colpevoli; inoltre condivido l'affermazione che la mistica della croce del cristianesimo oscura la bontà pura e semplice del Padre di Gesù Cristo e costituisce la causa di molte forme di sadismo e masochismo della storia della spiritualità cristiana; viceversa sottolineo che Gesù dovette morire perché la libertà e il senso di umanità, che egli incarnava, facevano inevitabilmente emergere tutte le nostre resistenze e le coercizioni religiosamente interiorizzate». (CC)

«Dopo questi miei lavori l'affermazione che io negherei la divinità di Cristo, o la resurrezione, o la storicità della rivelazione può essere ribadita, a mio parere, solo se si interpreta la verginità di Maria
biologicamente, il sepolcro vuoto la mattina di Pasqua fotograficamente e l'ascensione di Gesù al cielo astrofìsicamente». (CC)



Dio si occupa degli smarriti

«Nessuno, nemmeno fra gli scrittori russi, ha mai penetrato tanto a fondo il significato delle parole di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, quando rivolgendosi ai suoi eterni nemici, gli ineccepibili e devoti farisei, gli scribi e gli alti sacerdoti, chiede loro, quasi scusandosi, di comprendere quale sia la sua vera missione: mettersi alla ricerca della pecora smarrita del gregge e considerarla, nella propria angoscia, più importante delle altre novantanove che non hanno bisogno di conversione. Questa pecora, la centesima del gregge, che si è perduta nel deserto, invoca aiuto aspettando rassegnata la belva famelica: se il pastore non ne segue le tracce, la sua fine è senz'altro segnata. Ciò che è davvero decisivo è che Gesù considera tutti noi come pecore smarrite e perdute, incapaci di trovare da sole la via del ritorno». (BS)

«È proprio ai poveri e agli afflitti che Gesù promette il regno di Dio e solo a loro annuncia una grande ricompensa nei cieli. Poiché hanno toccato talmente il fondo che non hanno più bisogno di ricorrere alle mascherature della menzogna; poiché sono talmente prostrati che non nutrono più alcun desiderio di gloria; poiché sono talmente stanchi e sconfortati che decidono di lasciarsi vivere, trascurando progetti e ambizioni, alieni dall'angoscia di mete importanti». (BS)

«Ma come può un uomo riuscire a superare la confusione interiore e risorgere dalla morte a vita? Ancor oggi la teologia continua a rimproverare alla psicologia del profondo, come pure a ogni forma di religiosità mitica, di diffondere, a differenza del cristianesimo, una dottrina dell'autoredenzione, ingannando cosi l'uomo con il miraggio che egli possa consegnare la propria essenza alla libertà della luce grazie all'impegno e alla forza dello spirito. In realtà, la psicoterapia analitica è ben consapevole, come a loro tempo gli egizi, che non può esservi per l'anima umana alcuna “autorendenzione”. Ciò che noi siamo, lo dobbiamo esclusivamente all'amore e senza il riferimento a un'altra persona non potremmo mai attingere la nostra maturità». (BS)

«In passato la teologia cristiana ha sempre di nuovo cercato di definire la propria fede nella resurrezione in contrasto e antitesi con i miti e le saghe nelle religioni dei popoli. Tuttavia la figura di Gesù di Nazareth non è affatto una confutazione, ma al contrario, la conferma, l'approfondimento e la condensazione di quel che, vuoi come immagine o attesa, vuoi come speranza o certezza, si è sedimentato nell'anima dell'uomo in ogni tempo e in ogni luogo, e non già nell'opposizione, bensì nella sintesi delle forze spirituali dell'uomo il cristianesimo trova la propria verità. In particolare, la teologia del vangelo di Giovanni mostra già soltanto nell'immagine che offre del mondo una profonda affinità con le visioni degli antichi egizi. Mentre, sulla scorta del pensiero apocalittico tardo-giudaico, i primi tre vangeli potevano illustrare il corso della storia umana soltanto come scissura insanabile tra “questo mondo” e “il mondo a venire” vaticinando l'imminente cancellazione di ogni forma di vita, per Giovanni lo spazio del divino non è qualcosa che “verrà” in un futuro più o meno prossimo, ma piuttosto quella sfera di verità e luce di cui partecipano, in ogni tempo, tutti gli uomini che, come Gesù e attraverso Gesù, “da Dio sono stati generati” (Gv 1, 13) ovvero che, al pari di Gesù, hanno Dio come “Padre” (Gv 8, 12-20; 8,37-47)». (BS)

«Rispettando le varie leggi si diventa senz'altro buoni cittadini, persone rette, oneste e rispettate, ma non è su questa via che ci si educa alla bontà. Proprio per tale ragione il pensiero e le predicazioni di Gesù apparivano un invito alla ribellione, all'anarchia, un attacco contro tutte le garanzie prestabilite. Secondo Gesù, quel che davvero bisogna fare quando un uomo si smarrisce o procura dolore ai suoi simili è semplicemente vedere ciò che gli manca o che più gli affligge. Questo era il suo insegnamento, quell'insegnamento che gli meritò la condanna a morte». (BS)

«Certo, non è escluso che si possa pervertire anche l'esortazione al perdono. È nota la boria con cui certe persone si compiacciono di celebrare la propria magnanimità cristiana dicendo a qualcuno: “Ti perdono” per poi colpirlo magistralmente, a parole, con la frusta dell'insulto, del disprezzo, del sadismo. Ma non era questo che Gesù intendeva. Voleva semmai che gli uomini imparassero a rinunciare a qualunque forma di rivendicazione sì che potessero dialogare fra loro in un'intimità priva di barriere, secondo il costume di Dio, non già di Lamech. Se soltanto, comprendessimo quel che si agita nel cuore di un nostro simile, saremmo subito disposti a stargli accanto nella sua pena. Non dovremmo più difenderci da lui, saremmo pronti a donargli persino il nostro mantello, se ne avesse bisogno, e se ci chiedesse di fare un miglio insieme a lui, ne faremmo due». (BS)

«Spesso o quasi sempre si ha l'impressione che il cristianesimo consista in un idealismo morale con una forte tensione trascendente e sia essenzialmente un'esortazione a un'incessante ascesa spirituale. Niente di più sbagliato. Esso non si fonda affatto sulla convinzione che dobbiamo servire un Dio il quale, da un'altra riva, ci esorta a raggiungerlo attraversando il fiume del tempo. Suo vero fondamento è semmai la convinzione che Dio, un giorno o l'altro, nel mezzo del nostro cuore assediato dalla paura, dirà: “Pace a voi!”». (BS)



Il perdono come trasfigurazione del male

«Ciò che si verifica in questo momento, non può trovare espressione migliore dell'immagine che ci offre il racconto evangelico; “mostrò loro le mani e il costato” (Gio, 20-20). Qui si rapprende tutto il senso del perdono, vedere, sentire e riconoscere che le ferite mortali, l'oltraggio, i maltrattamenti che un altro uomo ha subìto per colpa nostra, vedere che i segni dei chiodi con cui il male ha infierito contro la sua persona si sono trasfigurati e hanno acquisito un nuovo significato poiché ora si rivelano a noi in una luce affatto nuova, non più come testimonianza di dolore e sofferenza, bensì di guarigione e vita, non più come testimonianza di colpa e morte, bensì, al contrario, come promessa di futuro e riscatto. Ciò che fino a questo momento ci era apparso caotico e insensato ci viene ora incontro trasfigurato e trasformato, si erge al centro del nostro cuore imponendo, o meglio, offrendo “pace”, che in ebraico equivale a salute, integrità e felicità perfetta, una pace interiore in cui ciò che è stato risana». (BS)

«Ma se davvero vogliamo parlare di penitenza, non sarebbe forse opportuno che l'istituzione stessa della Chiesa facesse per prima pubblica penitenza chiedendosi come mai la lingua del perdono è scaduta, nella sua predicazione, a mero atto giuridico indifferente alle motivazioni che stanno alla base dell'agire umano, ai sentimenti, a quella profonda comprensione della vera origine della paura e della disperazione». (BS)

«È stata proprio la moralizzazione e l'istituzionalizzazione giuridica di uno dei più arcani segreti della resurrezione ad aver trasformato il “sacramento della penitenza” in una sterile procedura coercitiva che, separata dalle forze vitali dell'anima, esaspera la paura e la pena anziché portare conforto e sollievo. Deve necessariamente cambiare qualcosa sotto questo aspetto, se vogliamo recuperare quella peculiare forma di onestà e profondità delle meravigliose immagini di perdono che Cristo ci ha donato». (BS)

«Anche le parole di perdono con le quali un prete accoglie, in nome della Chiesa, il cosiddetto penitente non saranno mai efficaci né davvero risanatrici
se sullo sfondo non si profila quell'intima comprensione che permette di condurre l'altro a nuova vita riscattando i moventi delle sue azioni grazie a una più ampia esperienza di vita, amore e gioia». (BS)

«La Chiesa ha probabilmente commesso un errore fatale delegando, in senso puramente giuridico, quella straordinaria opportunità di perdonarci a vicenda le nostre colpe nella sera di Pasqua, a una precisa autorità ecclesiastica, alla classe dei preti, cui possono per di più accedere soltanto persone di sesso maschile. Eppure devono essere senz'altro nel giusto quei passi del Nuovo testamento dove si parla di un sacerdozio universale. Così, nel vangelo di Matteo (18,18), non si legge che il perdono debba essere amministrato da un gruppo ristretto di addetti ai lavori, bensì che ogni vero credente, chiunque abbia vissuto la trasfigurazione delle ferite nella “sera della Pasqua” si sente ed è chiamato alla grazia del perdono. Soltanto quando gli uomini dialogano davvero, sì che la loro natura più riposta possa trasformarsi sotto lo sguardo di bontà e comprensione dei loro fratelli, soltanto allora i motivi che ci inducono al male vengono meno da sé. Né con la violenza né con le cosiddette “buone intenzioni” può essere trasformata la vita. Ma con la gioia di essere amati dagli altri malgrado tutte le nostre colpe e malefatte non è più tanto difficile amarci fra noi». (BS)



La radicalità di Gesù

«Gesù, nel mentre cosi guarisce, è costretto a dichiarar guerra proprio alla teologia oggettiva del suo tempo. Ogniqualvolta egli osa vivere e comunicare un po’ di libertà in favore degli uomini, sempre si scontra con questa corporazione degli scribi, che lo pedina passo passo e prepara la sua condanna a morte. È l'angoscia continua e collettivamente congelata che impedisce agli uomini di vivere in maniera personale». (PSG)

«Nel Nuovo Testamento esiste solo una categoria, che Gesù sente come un pericolo, come un cancro quando si parla di Dio. Questi parolai, che chiacchierano imperturbabili delle cose di Dio per tutto il paese, sono indigesti a Gesù, perché non fanno altro che spargere angoscia e terrore e si presentano sempre come quelli che non fanno mai qualcosa di sbagliato, che sono sempre perfettamente in ordine, che alla sera non vanno a dormire se non hanno letteralmente adempiuto cento volte nel modo giusto la legge. C'è da vomitare, da inorridire nel vedere come essi non si pieghino sulla misera degli uomini». (PSG)




Le citazioni sono tratte dai seguenti volumi:


PTM:
Psicoanalisi e Teologia Morale, Queriniana, Brescia, 1992

FRV:
An ihren Fruchten soli ihr sic erkennen, Olten, 1988

MA:
Das Markusevangelium, 1° vol., Olten, 1988

BS:
Io discendo nella barca del sole, Rizzoli, Milano, 1993

CC:
La controversia dei chierici, a cura di Peter Eicher, Queriniana, Brescia, 1991

PSG:
Parola che salva, parola che guarisce, Queriniana, Brescia, 1990



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