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Gian Luigi Prato 5.03.1994

Etica > Etica cristiana e psicoanalisi (Eugen Drewermann 5.03.1994)



Il "caso Drewermann": quale esegesi biblica?


Gli scritti esegetici di Drewermann



La vasta produzione bibliografica di Eugen Drewermann in campo biblico-esegetico ha avuto inizio con un'opera monumentale in tre volumi, frutto della sua tesi di dottorato, nella quale egli analizza il problema del male sotto il profilo esegetico, prendendo in esame il racconto genesiaco della creazione (Gen 2-3), e ampliando poi le sue considerazioni esegetiche sul piano psicanalitico e filosofico (Strukturen des Bòsen. Die jahwistische Urgeschichte in exegerischer, psychoanalytìscher undphilosophischer Sicht, Miinchen - Paderbom - Wien 1977-78); il successo di questo lavoro è testimoniato tra l'altro dalle numerose edizioni che ne sono state tratte nel corso dei 10 anni successivi (6° 1987).

In seguito l'autore si è occupato del vangelo dell'infanzia di Luca (capp. 1-2), che egli analizza nella prospettiva della "psicologia del profondo"
(Dein Nome ist wie ein Geschmack des Lebens. Tiefenpsychologische Deutung der Kindheitsgeschichte nach dem Lukasevangelium, Freiburg - Basel - Wien ^SS), ed ha steso un ampio commento al vangelo di Marco in due volumi (Dos Markusevangelium. Bilder von Eriósung, Olten 1988 [I vol.] e 1988 [II vol.]).

Tuttavia Drewermann ha tentato anche di esporre più in generale i principi che guidano la sua lettura del testo biblico in una serie di riflessioni raccolte nei due volumi che portano il titolo significativo di
Tiefenpsychologie und Exegese (Olten - Freiburg 1984, 6° 1988 [I vol.] e 1985, 1988 [II vol.]), ai quali hanno reagito nel 1987 due illustri esegeti neotestamentari tedeschi (Gerhard Lohfink e Rudolf Pesch) con uno scritto dal (contro)titolo altrettanto indicativo di Tiefenpsychologie und keine Exegese, pubblicato quasi emblematicamente dal Katholisches Bibelwerk di Stuttgart.

Drewermann ha comunque voluto ribadire la propria posizione esegetica rispondendo poco dopo con un'altra opera, il cui titolo "evangelico" (cfr. Mt 7,16) può suonare persino provocatorio:
An ihren Friichten sollt ihr sie erkennen. Anrwort auf Rudolf Peschs und Gerhard Lohfìnks "Tiefenpsychologie und keine Exegese" (Olten - Freiburg 2° 1988).

Ma ovviamente l'autore ha avuto modo di manifestare il proprio assunto esegetico in numerosi altri scritti o conferenze o interviste, tra cui meritano di essere ricordate alcune meditazioni sulla morte e la risurrezione, che prendono lo spunto dal vangelo di Giovanni ma vengono inserite in una più ampia trattazione dell'antico mondo egiziano
(Ich steige hinab in die Barke der Sonne, Olten 1989, tradotto in italiano da Amelia Valtolina per la casa editrice Rizzoli: lo discendo nella barca del Sole Milano 1993).


L'antico mondo egiziano interpretato da Drewermann

Poiché il campo biblico su cui Drewermann esercita la sua metodologia fa parte di un mondo culturale antico dai suoi precisi connotati e valori, è opportuno forse prendere in considerazione anzitutto la prospettiva entro cui egli si accosta a questo ambiente lontano, traendo lo spunto proprio dalla sua recente opera sulla concezione egiziana della morte e della risurrezione (Io discendo nella barca del sole, v. sopra).
Il mondo egiziano ha saputo costruire infatti una sua visione antropologica, in cui trovano posto anche i problemi della morte e dell'aldilà, in sintonia con un proprio sistema che si formula in termini cosmologici ma che è quanto mai unitario, criptico e autosufficiente, nel senso che si fonda solo su se stesso e non mutua alcun elemento da altre civiltà straniere.

Già l'antichità greca e poi romana, per non parlare della cosiddetta tarda antichità (classica) in cui confluiscono anche concezioni cristiane e quindi giudaiche, non è più riuscita ad afferrare i valori profondi racchiusi in tale sistema, e ha dato origine ad una storia dell'interpretazione della cultura egiziana che si è protratta nei secoli ed influenza tuttora qualsiasi accostamento al mondo egiziano antico che non sia frutto di una diretta e specifica ricerca egittologica.

La descrizione di Drewermann, animata dall'esplicito intento di mostrare come la concezione cristiana dell'oltretomba e della risurrezione sia debitrice di quel mondo, ricalca sostanzialmente la problematica del punto di partenza cristiano, e resta dunque contrassegnata da una specie di contrapposizione tra "questo" mondo e il mondo futuro.
Lo si constata nell'assimilazione, seppure non molto sviluppata, della morte al sonno, che è simbolo piuttosto greco (e "occidentale"), nella contrapposizione tra il cielo stellato, inteso come abitazione dei defunti, e il mondo terreno, e soprattutto nel sottofondo dualistico costante su cui viene mantenuta la trattazione, come se il mondo egiziano antico la potesse confermare.
Quest'ultimo, pur essendo fondato su formulazioni apparentemente dualistiche (si pensi solo al fatto che i faraoni sono "signori delle due terre", ossia dell'Alto e del Basso Egitto), è in realtà costituito dalla percezione della molteplicità del reale, irriducibile ad ogni unità o anche ad ogni dualità assoluta (già sul piano teologico la divinità non è intesa come una in sé stessa, ma come "uno che diventa milioni").

Infine, poco peso viene dato nella trattazione di Drewermann al problema etico e alla sua storia lungo i secoli della civiltà egiziana, come pure poca importanza viene accordata al fatto che probabilmente il superamento del giudizio da parte del defunto viene garantito in ultima analisi da formule magiche, la cui giusta recitazione vale più dello stato etico reale del defunto stesso, in quanto gli permette di accedere allo stato di beatitudine nell'aldilà.

Queste ed altre possibili osservazioni sulla sintesi comparativa che Drewermann ha operato della cultura egiziana antica vogliono solo porre in evidenza come il suo orientamento interpretativo sia appunto frutto della tradizione creatasi da altri presupposti religiosi, ed è in linea con quell'accostamento estrinseco al mondo egiziano originatesi già agli albori del Cristianesimo, e di cui quest'ultimo non è neppure responsabile diretto.

Esse tuttavia possono tornare utili per capire analogicamente la prospettiva entro cui questo studioso interpreta anche i testi biblici. L'orientamento ermeneutico infatti resta invariato: anche il contenuto della Bibbia va capito su un piano simbolico, ed il valore universale dei simboli che in quel testo si esprimono in maniera più o meno evidente va ricercato da un lato nell'ambito della scienza delle religioni e dall'altro in quello della psicologia del profondo. In altri termini, essi funzionano a livello esemplare ed archetìpico, al di là dell'importanza storica e del rivestimento culturale specifico che quei testi hanno assunto nel loro ambiente di formazione.

In realtà, questo tipo di esegesi, universalizzante ed attualizzante nello stesso tempo, non è nuovo nella stona dell'ermeneutica biblica; nuova è tutt'al più l'impostazione e la strumentazione della ricerca, mentre il suo sottofondo, tutto sommato "allegorico" costituisce l’asse portante e continuamente risorgente dello sviluppo dell'interpretazione biblica, tanto ebraica quanto cristiana.
Per fare un esempio celebre ad ancora abbastanza recente, essa ha avuto una delle sue ultime e più divulgate manifestazioni nell'esegesi demitizzante di Rudolf Bultmann, per il quale il testo biblico vale in quanto rappresenta il modo con cui Dio interpella l’uomo singolarmente, per proporgli i valori salvifici fondamentali al di là del linguaggio "mitico" di cui il testo necessariamente è rivestito; occorre andare al di là di tale rivestimento per scoprire il messaggio esistenziale e perenne del Dio che si manifesta.

Per Drewermann tutto sommato il testo biblico va preso in considerazione per questo suo scopo fondamentale, ma solo se lo si ricarica del suo linguaggio mitico e simbolico, poiché quest'ultimo è essenziale alla sua comprensione. In tal senso egli intende ricuperare pienamente il valore del linguaggio in generale, e di quello biblico in particolare: un testo lo si comprende a fondo non se si va al di là del suo rivestimento espressivo, ma proprio all'interno di quest'ultimo e secondo le forme del suo linguaggio.

È chiaro allora che il problema della storicità, intesa come fattualità storica concreta di ciò che il testo narra, diventa del tutto secondario: "II rapporto fra discorso religioso e storia concreta e fattuale
(Historie) va concepito come il rapporto che intercorre fra un'opera d'arte, una poesia, un dramma e il loro relativo periodo storico... Quel che voglio non è un ritorno al di là di Bultmann, ma una prosecuzione dell'ermeneutica esistenziale arricchita dalla comprensione del linguaggio concreto simbolico della Bibbia, comprensione che ci viene dal metodo della psicologia del profondo" (da "Psicologia del profondo e esegesi. Intervista di Michael Brómse e Wolfgang Thoms a Eugen Drewermann", in E. Drewermann, Parola che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede. Brescia 1990, p. 367).


Esegesi della Bibbia o esegesi di una lettura della Bibbia?

Ma questi valori simbolici universali da quale Bibbia vengono estratti? Di fatto sembra di poter cogliere nei risultati dell'esegesi di Drewermann non quanto il testo biblico può suggerire, sia pure su questo livello ermeneutico, ad uno sguardo il più possibile diretto e neutrale, interessato cioè a cogliere il senso immediato del contenuto nelle risonanze delle sue problematiche interne e originarie.
Per capire le proposte esegetiche di Drewermann occorre invece rifarsi all'interpretazione globale del testo biblico che si è sviluppata all'interno della tradizione cristiana e addirittura nell'ambito di una formulazione teologica sistematica.

Di qui appunto l'analogia con l'esegesi dell'antica cultura egiziana, di cui si è detto sopra, ma anche le reazioni e le polemiche derivanti dal fatto che il terreno su cui si gioca non è neutrale o puramente culturale, come nel caso dell'antico Egitto.
Comunque, senza il sottofondo dell'esegesi teologica, peraltro ampiamente divulgata in sede catechistica negli ambienti cristiani e pertanto quasi insensibilmente assimilata dal lettore abituale della Bibbia, l'analisi di Drewermann che vuol porre in evidenza le costanti simboliche del testo mediante le tecniche della psicologia del profondo resta priva dei suoi punti di riferimento e di verifica.

L'esempio più palese di quest'ermeneutica "pilotata" è forse ancora quello che Drewermann ha proposto per primo nel corso della sua feconda e ampia ricerca, ossia L’esegesi del racconto di Gen 2-3 esposta nel suo studio
Strukturen des Bósen. Infatti qui si suppone anzitutto che il testo intenda parlare di quella condizione "paradisiaca" sin troppo nota al lettore cristiano, che inquadra immediatamente il testo genesiaco nell’ambito della problematica squisitamente teologica del peccato originale, e su questo sottofondo si cerca di cogliere i vari elementi simbolici del racconto. Così la creazione dell’uomo si trasforma immediatamente in una coscienza di finitezza e quindi di angoscia potenziale, che in quel contesto viene ancora risolta (o guarita?) proprio in riferimento alla stessa situazione paradisiaca.

La messa in discussione del precetto di non mangiare il frutto dell’albero che è m mezzo al giardino significa già uno stravolgimento del precetto stesso, che quindi si trasforma ancora una volta in minaccia e angoscia per l'uomo
Nello spiegare il fatto che l'eventuale trasgressione del precetto è collegata alla sanzione della morte da un lato si afferma che quest'ultima va intesa non come una morte fisica che subentra più o meno immediatamente con la trasgressione, ma piuttosto come presa di coscienza della mortalità umana; dall'altro lato, però, l'interpretazione (in senso prevalentemente teologico-dogmatico) della morte come castigo si fa sentire quando l'autore afferma che sul piano simbolico profondo si percepisce la morte come una condanna là dove si coglie il fallimento della propria vita e quasi se ne desidera volontariamente la fine.

Insomma, l'universalizzazione del significato del testo genesiaco si presenta in gran parte come un'analisi delle problematiche sollevate dalla storia della sua interpretazione, per di più all'interno di un preciso sistema religioso, anziché come approfondimento delle questioni che il testo solleva in rapporto al suo ambiente di origine, e che potrebbero rivelarsi ben più ricche di quanto supponga questa loro riduzione ai rispettivi valori simbolici. Il testo biblico, in altre parole, diventa il punto di appoggio o l'occasione per riproporre significati esistenziali di indubbio valore, e come tali in fondo estraibili da qualunque altro testo di contenuto analogo.

Per fare qualche altro esempio, infatti, la guarigione dell'indemoniato (cfr. Mc 1,21-28) andrebbe intesa come una liberazione da ciò che impedisce all'uomo di vivere autonomamente, soprattutto sul piano delle convenzioni sociali e dei condizionamenti collettivi, a cominciare dai legami ideologici ed etici che vincolano il singolo al gruppo cui appartiene. La corsa di Pietro e dell'altro discepolo" (innominato) verso il sepolcro sono simbolo del contrasto dialettico o addirittura del conflitto tra l'impulsività e la razionalità che regna in ogni individuo (cfr. Gv 20,1-10). Oppure ancora: il fatto che Gesù cammini sulle acque (cfr. Mt 14 25) significa che egli salva sempre dall'abisso minaccioso che rischia di inghiottire l'uomo in pericolo.

Come si vede, il risultato finale di questo processo universalizzante rafforza o conferma quanto altre esegesi allegorizzanti hanno già proposto, ma di per sé potrebbe formularsi anche prescindendo da quel particolare testo o in fondo anche dal personaggio Gesù, che viene a rappresentare solo il punto di partenza estrinseco ed occasionale di questo processo ermeneutico.


La polemica equivoca a difesa del metodo storico-critico

È comprensibile allora come un simile accostamento al testo biblico abbia suscitato perplessità e obiezioni, sopratutto da parte di chi vede troppo trascurato in tale esegesi "sincronica" il metodo storico-critico. Più volte infatti si è rimproverato a Drewermann di non tener conto del senso effettivo di un testo, quello cioè che solo una ricerca filologica e storica correttamente condotta è in grado di cogliere.

Ed è vero anche che lo stesso Drewermann si è espresso non sempre in maniera coerente sul valore di questo metodo. Da un lato infatti egli sembra squalificarlo, dicendo persino che mentre il metodo (esegetico) condotto secondo i dettami della psicologia del profondo libera dall'angoscia, il metodo storico-critico in ultima analisi rischia di crearla. Ma dall'altro egli riconosce, di fronte a sin troppo evidenti obiezioni, che il metodo storico-critico è necessario, sia perché fornisce i dati storici su cui opera poi lo studio del simbolo, sia perché tenta di capire anche il linguaggio con cui i testi vengono formulati.
Tuttavia esso non può essere sufficiente, e va quindi costantemente integrato e superato.

Ma la polemica condotta contro la posizione di Drewermann sulla falsariga del metodo storico-critico mira piuttosto ad altro, e in questa sua intenzionalità, peraltro del tutto palese, rischia di creare equivoci. In sostanza, si vuole rimproverare a Drewermann di ridurre il Cristianesimo ad una forma di autoredenzione, negando quindi la storicità dell'evento straordinario della rivelazione e della sua attuazione concreta nella figura di Cristo.
La risposta di Drewermann è tuttavia in linea con quell'intento esistenziale che anima la sua esegesi: egli vuole dimostrare cioè che l'uomo per realizzare la propria salvezza ha bisogno di un interlocutore, rappresentato in questo caso proprio dalla figura di Gesù.

Per sua stessa ammissione, Drewermann vuole solo contestare alla Chiesa (soprattutto cattolica) il monopolio del dogma e della verità, di cui si ritiene esclusiva depositarla e garante, mentre di fatto le sue concezioni antropologiche o teologiche possono essere patrimonio di altre civiltà, come per esempio di quella egiziana per quanto concerne l'idea di risurrezione.

E' strano come i difensori del dogma o della singolarità del messaggio cristiano debbano appoggiarsi, in questo caso, al metodo storico-critico, che è stato considerato spesso in passato come fautore di dubbio e quindi accolto con diffidenza negli ambienti esegetici cattolici.
In realtà, l'equivoco consiste nel fatto che i termini di questa polemica sembrano ricalcare quelli con cui nei primi secoli del Cristianesimo si pretendeva opporre la verità storica e reale di quest'ultimo alle "favole" dei pagani. Ma i criteri di verità e di falsità restano in ambedue i casi del tutto aprioristici e di per sé prescindono dalla formulazione concreta e quindi dal linguaggio con cui si presenta rispettivamente ciò che è ritenuto vero e ciò che è ritenuto falso.
È ingenuo infatti ritenere che la filologia (biblica) praticata da un metodo storico-critico possa raggiungere la verità obiettiva di un testo, poiché tra l'altro se la stessa filologia può essere considerata una scienza moderna, lo è nella misura in cui al suo sorgere, nel periodo dell'Umanesimo e del Rinascimento, si è sempre mantenuta alle strette dipendenze di un sistema culturale più vasto, e soprattutto di ben precise teorie della conoscenza (cfr. in proposito Paolo Lombardi,
La Bibbia contesa. Tra umanesimo e razionalismo. La Nuova Italia, Firenze 1992).

Ma anche la difesa della singolarità e della superiorità del messaggio cristiano è in se stessa la replica di una polemica antica, di cui già il Cristianesimo si è fatto carico per presentarsi con questi stessi connotati di fronte ad un mondo culturale ben più antico: pur essendo l'ultimo in ordine cronologico esso ha dovuto adottare criteri storiografici ben precisi per poter affermare che in realtà era il primo e quindi il migliore. A questo scopo si è rifatto semplicemente al mondo ebraico e alla dialettica con cui quest'ultimo ha tentato di qualificarsi di fronte alle altre civiltà contemporanee, ma nello stesso tempo ha ritenuto di essere l'interprete autorevole e definitivo dell'ebraismo e delle sue Scritture.

La discussione sorta attorno al "caso Drewermann" si nutre dunque di tematiche e di argomentazioni che non sono nuove nel corso della storia dell'esegesi, e si ripropongono ogni volta che un'interpretazione universalizzante del testo sembra depauperarlo o ridurne e magari annullarne la portata religiosa ritenuta in qualche modo eccezionale.
Ciò conferma che l'esegesi di Drewermann va colta nell'ambito di questo suo punto di riferimento: essa resta dunque "biblica" nella misura e in fondo con le stesse caratteristiche (sia pure rovesciate) con cui lo è l'esegesi della tradizione cristiana che intende fondare su un libro (Le "Sacre Scritture" appunto) il proprio sistema teologico. E come si verifica anche per le altre cosiddette "religioni del libro", il sistema religioso che sul libro
si fonda ritorna ad esso solo per questa sua funzione "fondatrice" e quindi in pratica solo intenzionalmente e al di là di quello che il libro può dire di fatto.


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