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Testimoni del nostro tempo
Pubblicato da Sandro Stella in Chiesa • 06/10/2009 14.54.47

Premessa
Le possibilità date all’uomo dalla scienza sul governo della propria vita, personale e relazionale, hanno mutato l’idea tradizionale di “natura”, coi limiti e i meccanismi che essa, finora, ci ha imposto.
In astratto, l’uomo è sempre più padrone del suo destino, ma, di fatto, schiere sempre più imponenti di umanità aumentano la loro distanza dai fortunati, che (a prescindere anche dalle proprie capacità) dispongono dei mezzi per realizzare la loro esistenza.
I cattolici del nostro continente, sostenuti dagli “atei devoti”, che si fanno scudo dell’identità cristiana per difendere il loro livello di benessere, rivendicano nella costituzione europea il riconoscimento della matrice cristiana.
Ma il modello d’Europa cristiana è entrato in crisi da (almeno) 500 anni e oggi la sua difesa ad oltranza alimenta le paure, gli egoismi etnici, la volontà di sopraffazione, l’incapacità di condivisione, la frantumazione, i conflitti.
Vita mea (nel senso di livello di vita o modo di vivere che mi sono conquistato) mors tua (o depauperamento, mancanza di solidarietà e tolleranza).
I beni comuni sono sempre di meno: la privatizzazione e l’esclusione sempre di più.

Cambiare rotta
La crisi, che tutti sentiamo, dovrebbe esser compresa nel suo senso originario: il momento in cui le cose, tutte, sono “passate al vaglio” (questo il senso della parola “crisi”) dell’autenticità e valore per l’esistenza delle creature. Una parte va scartata, per mantenere ciò che ci fa vivere.
Questo è anche il primo annuncio che troviamo nel vangelo, nelle parole di Giovanni e in quelle di Gesù: l’appello a cambiare il cuore e la mente.
Questo primo messaggio evangelico, che attraversa - polemicamente anche allora - tutta l’azione di Gesù, proclama apertamente che anche il sistema religioso cui egli stesso apparteneva aveva bisogno di una conversione radicale. Afferma senza “pudori” che quella fede in Dio, propagata con tutti i mezzi da quel sistema “sacro”, per quanto ortodossa secondo gli schemi codificati e immodificabili, era falsa, non salvava le persone e non era approvata da Dio. Nonostante i segni prodigiosi con i quali autenticava la sua parola, portò rapidamente il “profeta nazareno” (da giovane, come era avvenuto anche a Giovanni) a una ignominiosa condanna a morte.
Anche il sistema religioso cui apparteniamo noi, piuttosto che conservare la forma identitaria, che s’è data in secoli di scandaloso potere, deve ritrovare, o meglio, re-inventare la sua genuinità.
Non è che oggi tra i cristiani la testimonianza autentica non ci sia più: per fortuna c’è (magari, non sempre coerente) nella vita di tanti cristiani. E c’è anche in molte profonde ispirazioni dei documenti “ufficiali”, come, per esempio in quelli del concilio vaticano secondo. Ma è spesso contraddetta anche ai più alti livelli d’autorità, dalla prassi e dal metodo, che, piuttosto che aver fiducia nello Spirito di Gesù, opera con lo stile e i mezzi della potenza umana.
Dalla identità cristiana, la struttura cattolica centrale (in primo luogo: quelle locali ne seguono spesso l’esempio) ha espunto e “proiettato” all’esterno tutto il male, attribuito agli altri, inorgogliendosi in una padronanza della verità e del bene, che la porta a “pontificare” sulle scelte e le opinioni altrui, sui tentativi di soluzione che non corrispondono al suo schema, preconfezionato.
Perciò si vuole convertire, ma non convertirsi, non si accetta l’altro, pretendendo anche che Dio stesso non l’accetti; si relativizzano “storicamente” gli errori e i delitti interni e si assolutizzano quelli degli “altrimenti” credenti. Gli ecclesiastici pretendono di togliere lo Spirito ai laici, che devono “apprendere tutto” da coloro che “si fanno chiamare maestri”, insegnando anche cose di cui, da sé, si dicono incompetenti: scienze biologiche, comportamenti sessuali, politica ed economia.
I figli di Dio, secondo loro, sono solo i loro praticanti. Gli altri sono fuori di casa e, se vogliono entrare, devono farsi aprire la porta da loro, accettando tutti gli usi e costumi che vi sono comandati.
Anche i vescovi, per dottrina successori degli apostoli che erano esponenti di diverse tradizioni cristiane (ad esempio, quella di Giacomo, quella di Pietro, quella di Paolo) - convissute e accettate fraternamente (anche se non senza conflitti) nei primi secoli e testimoniate anche nei vangeli canonici -, devono ora essere sottomessi, a volte al vescovo di Roma, ma più spesso agli ufficiali della sua curia, che si sono fatti arbitri di ciò che è retto e opportuno, in ogni luogo e situazione. I pastori del popolo vengono messi a tacere, obbligati al segreto (anche contro il comando di Gesù), da questi funzionari del diritto canonico.
I carismi, così vivi nelle Chiese paoline, sono stati annientati dalla legge e ridotti a pure funzioni accessorie, spesso concesse per necessità (perché mancano i preti).
Le donne: tacciano.

Lievito e sale nella massa
Eppure il compito dei cristiani è essere lievito, sale. “Opportune et importune”, essere sapidi e non scipiti. Non fuori dal mondo, ma mescolandosi con esso.
Non omologatori rispetto a una civiltà, battezzata cristiana, passata perché al vertice non s’è voluto - per ragioni di potere - fare i conti con la modernità, ma animatori di questa umanità, le cui gioie e speranze e preoccupazioni sono anche quelle dei cristiani.
Allora: fine dell’alto e basso, ma “comunione” (da commune, di tutti); fine del segreto, ma, invece, parole di franchezza (parresia); fine delle pecore nell’ovile, ma campo aperto e rispettoso al talento di tutti.
E fine della pretesa di giudicare e avere una risposta (per giunta, definitiva e urbi et orbi) su tutto: sull’inizio e la fine della vita, sull’amore, sulla giustizia e sulla verità, anche quello che (ancora) non sappiamo. E, per parte nostra, abbiamo anche poco praticato, facendoci troppo spesso amici e compartecipi di quelli che hanno tesori e fortune sulla terra, piuttosto che dei tribolati e pestati dalla vita, che si trovano sulla strada.
Se il sale diventa scipito la gente non sa che farsene e lo butta via.
Non sarà, forse, per questo che troppi, dopo aver assaggiato da bambini il nostro sale, lo sputano e non ne vogliono più sapere?
Servono parole oneste, non astratte; che curano le ferite; e vicinanza concreta: un vero farsi prossimo. “Fratelli non solo in chiesa, ma anche in frittata”, mi diceva mio padre, parlando genericamente degli uomini di chiesa.
Non si pretende che queste parole siano dolci, né comode, né miracolosamente risolutive; ma che non siano evasive rispetto all’autenticità della domanda e consentano alle persone di sentirsi accompagnati nella loro sofferta ricerca.
Quanto a questo, dovremmo aver imparato anche dalla bibbia - che racconta il cammino tortuoso e incespicante dell’uomo verso la sua crescita morale - che spesso è praticabile per noi non la risposta “assoluta” (Mosè per la durezza del cuore umano stabilì la legge del divorzio, la legge del taglione e, prima, i patriarchi praticavano la poligamia), ma il meglio che riusciamo a fare: e in questo Dio ci viene pazientemente incontro .
Lassisti? No: ma accompagnatori amichevoli, sinceri e rispettosi, negli eventi festosi, oscuri o sofferti dell’esistenza umana.
E, invece, non dovremmo accettare il sopruso, l’inganno, la dignità calpestata, la giustizia negata, l’intolleranza e il rifiuto dell’altro.
Perché siamo più severi con chi è lacerato e fragile nella propria sofferenza, che con coloro che disprezzano i piccoli e deboli della terra?
Le beatitudini sono la nostra visione del mondo, il magnificat e il racconto del giudizio universale la nostra scelta di campo anche nell’agire politico.
Naturalmente, il loro contenuto attiene al regno di Dio e non è raggiungibile entro i limiti spazio-temporali della storia; assume, però il criterio di sicuro orientamento, di opera sempre in-compiuta (“già e non ancora”), di consegna da incarnare senza timidezze.
Per questo, il marchio cristiano non è appiccicabile a nessun “partito”, vecchio o nuovo.
Piuttosto, è una mobilitazione ispirata da una visione del destino personale, delle nazioni, dell’umanità e persino dell’universo, che non ne svela il mistero, ma che, un passo avanti l’altro, allena le coscienze individuali e delle comunità, piccole e grandi, a scegliere concretamente da che parte stare.
Perché, nella stessa prospettiva enunciata dal magnificat e dal giudizio di Gesù sull’umanità, troveremo tanti compagni di strada: non solo i nostri; anche quelli che non credono, ma forse ancora provano a sperare e, comunque, non si rassegnano a come va il mondo.
Progetto astratto? No, perché si schiera apertamente nelle questioni scottanti.
Effimero e inefficace? No perché mette tutto se stesso in quello che è fattibile concretamente oggi.
Elitario? No, perché si unisce a (e unisce) tutte le forze disponibili, anche lontane dalla sua ispirazione religiosa, culturale, sociale. E non pretende di guidarle, di monopolizzarle, di etichettarle sotto la sua matrice, ma, appunto, si mescola.
Il cristiano non ha paura di influenzare, ma non pretende di essere lui il costruttore della città di Dio. Questa cosa la riserva a lui, come dice il salmo “se non è il Signore a costruire la casa, i costruttori sprecano le loro fatiche”.
Il cristiano sta con gli altri, si unisce ai movimenti di popolo, alle istanze liberatrici che Dio suscita in ogni tempo nella società.
Non balla da solo, nel circolo cattolico: sta nella massa, come il lievito.

L’agenda
In questa prospettiva, i cristiani devono darsi una nuova agenda.
La priorità dell’agire cristiano non è più quel che è stato chiamato l’interesse di Dio.
Questo è avvenuto nella storia per un confronto tra divinità, che ha ridotto anche Jahve, (colui del quale non si può dire neanche il nome e si può celebrare solo per quello che ha fatto per gli uomini, a cominciare dalla creazione) in un dio geloso, come le divinità dei pagani. Uno che si offende come loro e pretende che noi alimentiamo la sua gloria con la nostra devozione e il rispetto dei suoi comandi. Nel suo nome si può disprezzare e sterminare chiunque non riconosca lui o i suoi seguaci. La storia l’ha ampiamente dimostrato: l’esito concreto dell’interesse di Dio è il motto “dio è con noi”, che ha giustificato tanti delitti contro l’umanità.
E la priorità non è nemmeno l’interesse della chiesa, che Gesù ha pensato come struttura di servizio, che “non cerca il proprio interesse” (S. Paolo) ed è esemplarmente indicata nel comandamento della lavanda scambievole dei piedi, da praticare in modo “normale” (da norma). Non una cerimonia “profumata” e pro forma: tanto è vero che quando Gesù volle darne l’esempio scandalizzò Pietro, che si rifiutava di farsi lavare i piedi, perché, secondo lui, era un’umiliazione inaccettabile del suo maestro e Signore.
Del resto, la storia del cristianesimo ci ha insegnato che l’interesse della Chiesa si è realizzato come interesse materiale degli ecclesiastici, che ha deposto potere e soldi ai loro piedi e nelle loro mani.
La storia dice quanto spesso questo tesoro sulla terra e questo potere nella vita secolare, giustificati anche con documenti legali falsificati, sia stato usato a vantaggio e glorificazione dei prelati e delle loro famiglie.
Un esempio emblematico su tutti: papa Giulio II voleva per sé una tomba dal costo esorbitante nella basilica di S. Pietro (da rifare come la più grande chiesa del mondo), molto più imponente di quella di Pietro stesso - a suo tempo deposto poveramente nella terra -, con quaranta statue del più grande genio artistico del suo tempo.
Nelle loro vesti e nelle loro corti sfarzose, “i pastori” si sono trasformati in eccellentissimi, principi e sovrani, con le insegne di una autorità sacra e quindi inviolabile, sotto pena di scomunica.
In questo modo, si sono appropriati di quella gelosia di potenza, gloria e ricchezza, che attribuivano a Dio.
Questo, nel tempo, ha giustificato la loro impunità nell’abuso delle leggi, di cui avrebbero dovuto essere custodi e vindici.
In realtà, l’interesse prioritario del cristiano, come insegnava papa Giovanni nel suo testamento spirituale, e, prima, i grandi padri della chiesa, è quello per la condizione umana.
Il cristiano, dunque, deve impegnare i suoi talenti, personali e comunitari, per le sorti umane, per le battaglie e i traguardi dell’umanità, in attuazione del disegno della creazione.
Per farlo, deve allearsi con l’umanità che lotta per una vita corrispondente alla dignità che Dio ha pensato per tutte le creature.
Al primo posto della nostra agenda, non ci sono battaglie “cristiane”, ma battaglie “umane”, in profonda partecipazione agli sforzi e impegni della “comunità degli uomini” per realizzare la sua autentica vocazione.
Lo scrivevano già i cristiani del secondo secolo: “Gloria Dei vivens homo”.
I cristiani sono chiamati a concorrere con il loro pieno e disinteressato contributo all’agenda degli uomini di buona volontà, o per dir meglio, (nella traduzione più corretta dell’annuncio della nascita di Gesù) degli uomini in quanto amati da Dio, e a farsi partecipi, consapevoli e motivati, del comune destino di salvezza universale.
Infatti, afferma l’apostolo Paolo, “tutta la creazione sta gemendo nelle doglie del parto, finché non si sarà manifestato il mistero nascosto nei secoli in Dio”.
Poi, la vita eterna, secondo la promessa di Gesù nel racconto del giudizio finale, è gratuito dono di Dio, promesso a tutti gli uomini - l’aspettino o no - che lavoreranno lealmente, sia pure solo nell’ultima ora della giornata, a realizzare il loro felice destino.


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