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Bernhard Häring 24.01.1993

Etica > Istanze etiche nella società planetaria (1993)



Svelamento delle tentazioni di chi detiene il potere



La morale tradizionale, destinata soprattutto ai confessori, ha trattato soprattutto o quasi esclusivamente, la morale individuale. Questioni come l'uso retto del potere, dell'autorità nello Stato e nella Chiesa non hanno trovato attenzione. Eppure questo problema è di grandissima portata per la morale di tutti.

Anche cambiando paradigma, non si tirano facilmente subito tutte le conseguenze.
Un esempio di grande portata può dimostrare il progresso, ma anche la difficoltà di tutto questo. Nel nuovo
Catechismo della Chiesa cattolica, che contiene per molti versi grandi ricchezze, c'è un punto che per me è critico. Nel n. 2181 si insegna con enfasi che chiunque, per propria colpa, manca a una messa domenicale o festiva commette grave peccato, ma non ci si pone la domanda su quale e quanta sia la responsabilità delle autorità e del legislatore per garantire a tutte le comunità cattoliche la regolare celebrazione eucaristica.
Tale critica vale allo stesso modo, anche per la mia opera, tanto diffusa,
La legge di Cristo. Il cambiamento del paradigma non significa che si sia in grado di tirare tutte le conseguenze logiche. Ci vuole tempo ed uno sforzo comune.

Il mio professore Romano Guardini scrisse e disse cinquanta anni fa che il problema dell'uso del potere sarà uno dei compiti più urgenti della teologia in genere, specialmente della teologia morale. Oggi in molte nazioni, anche in Italia, si sente tanto questo problema, finora troppo trascurato. È ben conosciuta l'affermazione di Lord Acton:
«II potere ha la tendenza a corrompere chi lo detiene. E il potere assoluto ha una tendenza assoluta a corrompere».
In questa relazione cerco aiuto nella sacra Scrittura che proprio a questo riguardo offre una ricchezza immensa. La potenza del male consiste nel suo velamento, nelle larve per nascondersi, per offrire un volto innocente o sacro. Cristo ci insegna con il suo esempio e le sue parole come lo svelamento del male può romperne la prepotenza.
Voglio dare particolare attenzione al significato e uso del potere nella Chiesa per due ragioni: la prima per fedeltà alla sacra Scrittura, la seconda per l'uso che si fa del potere in tutte le sfere del mondo.



Cristo stesso svela le insidie del maligno

Prima tentazione: il sacro egoismo


«Allora (dopo il battesimo) Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Gli si avvicinò il tentatore e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane"» (
Mt 4,1-5).
Il tentatore usa la carta più forte: "Se sei Figlio di Dio", cioè figlio che approfitta della sua posizione, come tutti i figli dei potenti: pane, ricchezze, autorità sacralizzata, miracolosa. Dietro tali insinuazioni sta una falsa immagine di Dio ed una falsa aspettativa di un Messiah con interessi terrestri.
Non si tratta del "pane frutto della terra e del lavoro dell'uomo”, accolto come dono del Padre di tutti, ma del pane del potente, pane che non è per essere condiviso, ma usato e distribuito come elemosina, come sostegno di un ordine ingiusto e di una dipendenza indegna per coloro che lo ricevono.
Come le tentazioni seguenti, anche questa era frequente presso la classe privilegiata d'Israele, presso i Sadducei e presso il clero ebraico.
La risposta di Gesù va vista nel contesto di Matteo: «II figlio dell'uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio
». Non possiamo non pensare alla parola del Padre rivolta a Gesù quando risalì dall'acqua del battesimo: «Questi è il mio Figlio diletto nel quale ho posto la mia compiacenza» (Mt 5,17).

Si tratta del primo versetto del primo Cantico del Servo di Jahveh e del programma della missione di Gesù come Servo umile, uno di noi, figlio dell'uomo, Servo sofferente, protagonista della non-violenza che spezza le inimicizie.
Gesù vive di questo programma, di questi Cantici cantati da Maria e Giuseppe, dagli
anawim, dagli umili di Israele.

Chiunque conosce Gesù come l'umile, non violento, sofferente Servo del Signore, non superficialmente ma nella sua centralità, come è scritto nei nostri cuori dal nostro battesimo, sarà capace di smascherare tutte le forme del "sacro egoismo", dell'egoismo individuale e collettivo sacralizzato.
E quante sono e sono state nella storia le larve di questa tentazione satanica! La tentazione pericolosa del "sacro egoismo" della mafia e di simili gruppi prepotenti non sarebbe possibile se tutti gli uomini della Chiesa, soprattutto i pastori ed i teologi, fossero nutriti e formati dal programma del Servo sofferente, Gesù che ha portato il fardello di tutti fino alla croce. Egli ha smascherato tutte le forme di religione che si pagano con profitti egoistici.

Sono schiavi di questa rete del Tentatore anche i preti, i vescovi che si alleano con i potenti e i ricchi per distribuire i loro piccoli pezzi di pane-elemosina, consolidando così la struttura di ingiustizia, anche senza rendersene conto. La tentazione si nasconde, il nascondimento è la sua forza, forza del male, del maligno.



Seconda tentazione: "Gettati giù dal pinnacolo del tempio”


Qui Gesù smaschera una delle tentazioni sataniche più insidiose: un “alto clero” delle diverse religioni, sacerdoti e porporati, con titoli ed insegne impressionanti.
Quando ero giovane insegnante a Roma, ho visto un giorno l'entrata solenne dei cardinali in San Pietro con code di dodici metri di lunghezza, e studenti privilegiati che si sentivano onorati come portatori di code.

Questa tentazione di gettarsi dall'alto del pinnacolo del tempio era più forte in una cultura aristocratica di nobili che dall'alto comandavano il popolo basso di analfabeti in nome di Dio.
Il fenomeno non è specifico della nostra Chiesa, ma proprio nella Chiesa di Gesù si dovrebbe stare più attenti. Cristo, Servo umile, si è scelto un clero umile lavando i piedi dei suoi discepoli e dicendo: «anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri" (
Gv 13,14). Egli ne ha dato l’esempio non con un mero rito, ma con tutta la sua vita fino alla croce.

All'inizio dell'era costantiniana sorse il grande movimento del monachesimo come protesta non violenta per svelare le nuove tentazioni presenti nell'Impero che metteva i vescovi nei palazzi rivestendoli con titoli sfarzosi.
Gli imperatori del Sacro Romano Impero sacralizzarono il loro potere in una maniera spaventosa e contaminante. Quando il papato e molti vescovi divennero preda dell'aristocrazia, degli imperatori e dei re, la tentazione del clero di insegnare e governare dall’alto pinnacolo divenne molto forte e sarebbe diventata insuperabile se non ci fossero stati nella Chiesa santi di tutti i ranghi che svelavano, per quanto possibile, i pericoli di tale posizione sull'alto pinnacolo.

Gli studiosi del rapporto fra violenza e sacro hanno provato storicamente che le tendenze più forti verso la violenza erano sempre collegate con una sconcertante ostentazione di superiorità in nome della religione, nei rapporti fra uomo e donna, fra ricchi e poveri, potenti e oppressi.
Alla luce del vangelo dobbiamo dire: i portatori dell'autorità nella Chiesa e nello Stato, che dimostrano la loro superiorità con insegne e titoli sacralizzanti, non conoscono e non riconoscono credibilmente Cristo, il Servo umile esaltato dal Padre.

Gli ultimi papi sono stati molto sensibili a questo riguardo. Pio XII ha ridimensionato le code cardinalizie ed ha cercato di semplificare il cerimoniale pontificio.
Giovanni XXIII ha dimostrato grande rispetto verso cardinali, vescovi e loro collaboratori nel Vaticano, ma si è sentito offeso dalla mania per i titoli pomposi. Egli chiamò il redattore dell'
Osservatore Romano e gli disse di non voler più leggere frasi come la seguente: "Come abbiamo potuto cogliere dalle auguste labbra di Sua Santità". Scrivete: "II Papa ha detto" e basta. E molti prelati seguirono il suo esempio di semplicità.

In occasione dei 450 anni delle tesi di Martin Lutero a Wittenberg, ero stato invitato dalla televisione nordamericana ad un dibattito sulle prospettive dell'ecumenismo con il prof. Bainton, grande ecumenista luterano. Avevamo preparato i temi, ma a sorpresa il prof. Bainton mi pose la domanda: "Lei pensa realmente che noi protestanti non ubbidiremo mai come sudditi ad un Papa Romano?". Per un momento rimasi incerto, poi risposi con una domanda: "Se non solo i Papi, ma anche tutti i loro collaboratori e tutti noi teologi cattolici seguissimo l'esempio di semplicità di Papa Giovanni, cosa direbbe?". La risposta fu pronta: "Allora anche noi protestanti saremmo disposti a ripensare tutto".

Dopo la prima sessione del Concilio Vaticano II, Karl Barth scrisse un piccolo libro di valutazione. Si confrontò con la battuta sentita a Roma: "Nulla è cambiato, eccetto il fatto che San Giuseppe ha trovato un posto nel Canone eucaristico". La risposta di Barth fu: “Se tutta la Chiesa romana seguisse l'esempio di San Giuseppe e dell'umile Giuseppe Roncalli sarebbe per noi protestanti la più forte sfida!".

Quando nel primo anno del suo pontificato Paolo VI mi invitò a predicare gli esercizi in Vaticano, chiesi al Maggiordomo come rivolgermi agli augusti ascoltatori. Egli mi diede una risposta dettagliata. Chiesi di scrivermi la lunga lista di titoli perché per cose che non mi piacciono non ho memoria. Poi egli riferì la cosa al Papa Paolo VI. Questi all'inizio degli esercizi mi diede ordine di non perdere tempo prezioso con titoli inutili: “Lei può dire all'inizio: Padri venerabili, e basta”.

Verso il fine del Concilio Vaticano II un gruppo di patriarchi, cardinali e vescovi, insieme ad alcuni teologi tra cui Yves Congar ed il sottoscritto, si radunarono diverse volte nel Collegio del Belgio per elaborare una proposta concreta su semplicità e povertà.
Si sperava che alla fine del Concilio tutti i Padri avrebbero promesso di ritornare alla semplicità evangelica vivendo
da vescovi questa povertà in modo esemplare. Alcune centinaia di vescovi si mostrarono pronti ad approvare la proposta, ma purtroppo il tempo premeva e questo schema 14 fu archiviato. Ma un buon numero di vescovi vive secondo questo ideale. Penso ai tanti vescovi dell'America Latina, dell’Africa, etc.

In Germania si sentono raramente titoli sontuosi e diventa sempre più evidente che i vescovi sono tanto più ascoltati e seguiti quanto più grande è la loro semplicità. Dopo il Concilio i vescovi anglicani nella
Lambeth Conference hanno abolito tutti i titoli vanitosi come "His Grace".
Se non m'inganno, oggi solamente prelati che hanno difficoltà ad interiorizzare il Concilio mostrano ancora attaccamento a titoli che derivano dai tempi della sacra alleanza fra trono e altare.

Sono convinto che non piace a Papa Giovanni Paolo II se alcuni, seguendo usanze preconciliari, lo chiamano anche per iscritto
Sanctissimus o Beatissimus.
Ci vorrebbe ovunque, dove è presente ancora la vanità clericale di titoli antievangelici, un centinaio di santi come Filippo Neri che con il suo umorismo pieno di compassione ottenne buoni risultati nella lotta per la semplicità evangelica.

Il mondo critico è attento, e non solo i nemici della chiesa. Durante gli ultimi anni ho sentito protestanti, fervidi protagonisti dell’ecumenismo, che si scandalizzano se nella Chiesa cattolica si manifestano ancora tendenze verso titoli sontuosi. Si considerano queste vecchie tendenze come sintomi di patologie più profonde.

Non si tratta solo di tentazioni di prelati. Anche noi teologi possiamo cadere nella tentazione di un certo trionfalismo e ostentazione di superiorità.
Suor Celeste Crostarosa, fondatrice dell'Ordine delle monache Redentoristine, scrisse nei
Dialoghi verso l'anno 1726: «II Signore mi ha dimostrato quanto grande sia l'errore di chi volesse imitarlo nella sua altezza. Io sono l'umiltà e il punto d'incontro con me è l'umiltà, consapevolezza della nullità».
Noi non possediamo nulla come proprietà nostra, eccetto i nostri peccati. Umiltà e semplicità sono la condizione della profonda gratitudine per la beata esperienza della gratuità di Dio.
Tutti i tesori divini si aprono agli umili, ai semplici. La chiesa, ritornando alla più convincente semplicità ed umiltà, avrà un grande avvenire: sarà luce del mondo, sale della terra.



Terza tentazione: il potere falsamente sacralizzato


La terza tentazione satanica è la più insidiosa: la lunga tradizione umana di sacralizzare il potere, la superiorità, addirittura in nome di Dio. C'è nella chiesa un potere sacro, ma in un senso opposto ad ogni forma d'idolatria, il potere marcato dalla sequela dell'umile Servo di Dio, Gesù Cristo.
«Tutte queste cose io ti darò, se prostrato a terra mi adorerai». Il potere come tale non è satanico, ma è esposto spesso e in diversi modi alla tentazione satanica dell'orgoglio che abusa del nome di Dio. Servirsi della religione, anche della religione cristiana invece di servire, ha una nota satanica che danneggia tutti i rapporti umani nel mondo e all'interno del recinto religioso.

Le forze delle tenebre sono adorate, in un modo o
in un altro, dove si sacralizza l'abuso del potere per la propria esaltazione.
Si può interpretare meglio il grandioso
midrash di Matteo (4,1-11) sullo svelamento delle più insidiose tentazioni solo se si presta particolare attenzione al modo in cui nei quattro vangeli si manifesta un conflitto continuo e gravissimo fra la vera vocazione di Cristo, umile Servo di Jahveh, servitore non violento, e le aspettative di gran parte delle autorità religiose d'Israele nel tempo di Gesù.

La tentazione è antica e fa parte del peccato del mondo. Ne erano contaminati pure i discepoli. Gesù vede chiaramente che tale tentazione satanica è già smascherata dal profeta Isaia (oggi si specifica: Deutero-Isaia) nei grandiosi Cantici del Servo di Jahveh.
Chi conosce l'intera storia delle sacralizzazioni del potere a servizio dei potenti e a danno del popolo, non può non meditare su questi quattro Cantici. Essi non possono essere altro che una grande rivelazione del cielo.
Gesù li conosce bene e spesso vi accenna. Li conosce, Lui dal cuore umile, fin dalla sua infanzia attraverso Maria, sua madre, San Giuseppe e gli
anawim suoi parenti. Maria li canta e li interpreta con la sua vita e tutto risuona costantemente nel cuore di Gesù.
Non basta dire che Gesù ha smascherato la tentazione satanica che sacralizza insieme con il potere anche la violenza. Gesù è in persona, nella sua vita e con la sua morte, lo svelamento di queste tentazioni.


"Va via da me, Satana" (Mt 4,10 e 16,22)


È impressionante vedere nel vangelo che Gesù, la mitezza in persona, dopo aver elogiato Pietro: «Beato sei tu, Simone», lo chiama: «Satana, tu mi sei d'inciampo» (
Mt 16,22).
Sarebbe un errore pensare che Pietro sia stato l'unico a meritare un tale ammonimento. Noi tutti, soprattutto noi che abbiamo un particolare ministero nella Chiesa, siamo in un modo o nell’altro esposti ad un concetto falso e pericoloso di messianicità, siamo esposti al pericolo di usare la religione e una particolare vocazione per il prestigio personale e per esercitare un potere umiliante sugli altri.
Il punto di partenza è la vera immagine della vocazione di Gesù il Cristo, come espressa insuperabilmente nei quattro Cantici di Isaia (
Is 42,1-9; 49, 1-12; 50, 4-10; 52,13- 53,12).

Pietro, come gli altri apostoli, ha una difficoltà enorme ad entrare pienamente nella visione di un Messia che lava i piedi dei suoi amici e prega sulla croce per i suoi nemici.
Pietro, che confessa che Gesù è Figlio di Dio, ha il compito di confermare i suoi fratelli e le sue sorelle nella fede del Dio Padre che ha esaltato il suo umile Servo.
L'umiltà del Cristo ed il suo amore non violento che spezza le inimicizie sono tanto importanti per la nostra vita di fede quanto la sua vera divinità.

Dopo la confessione di Pietro e l'accoglienza di tale confessione da parte di Gesù, Matteo prosegue: «Poi Gesù comandò ai discepoli di non dire a nessuno che egli è il Messiah» (
Mt 16,20).
In seguito Gesù dichiara apertamente in qual modo egli si manifesterà come "figlio dell'uomo", come il servitore non violento di Dio e Pietro manifesta la sua opposizione al vero concetto di Messiah. Il peccato di rinnegamento consiste esattamente nel rifiuto di voler conoscere tale uomo umile, non violento, sofferente per i suoi nemici, i peccatori: «Non conosco quell'uomo» (
Mt 26,72-74).



"Dopo la conversione conferma i tuoi fratelli" (Lc 22,52)


Pietro ha una missione particolare: confermare i fratelli nella fede, proprio lui che aveva bisogno di un profondo ripensamento e di una vera conversione.
Nella predicazione di Pietro è centrale Dio che "ha esaltato il suo umile Servo".
Nella seconda lettera (1,17-18) sottolinea che sul monte avevano sentito di nuovo la stessa voce del Padre presente in
Is 42,1: «Tu sei il mio Figlio prediletto».
Nella prima lettera mette in rilievo la morale che corrisponde alla fede in «Cristo che soffrì per voi, lasciando a voi un modello, così che seguiate le sue orme: Egli non commise peccato né fu trovato inganno sulla sua bocca; insultato non restituiva l'insulto, soffrendo, non minacciava» (1
Pt 2,19-24). È evidente il riferimento al quarto Cantico del Servo (Is 55,5.9.12).
La stessa centralità del messaggio sul Servo sofferente del Padre si trova nella predica di
At 2,14-36.

Se Pietro ha la particolare vocazione di confermarci nella fede in Cristo, Servo esaltato dal Padre, ed indicarci la sequela del Servo non violento, ne segue che anche noi possiamo correttamente annunziare Cristo Messiah, Figlio del Dio vivente, solo se lo conosciamo e riconosciamo con la nostra vita come Servo sofferente che ci guida sulla via di pace e di salvezza. Conosciamo così il tipo di conversione indispensabile per una nuova evangelizzazione, per ogni evangelizzazione.


Si tratta del nucleo della nostra fede e del nostro messaggio.

Non basta crederlo superficialmente, è necessario che diventi il nucleo fecondo della nostra fede e del nostro annuncio. Appartiene al ministero petrino del Papa illuminarci e confortarci su questa strada, perciò io gioisco che Papa Giovanni Paolo II predica infaticabilmente il vangelo della pace e della non violenza evangelica. È sbagliato mettere in rilievo altri insegnamenti secondari del Papa in modo da oscurare il centro della sua missione.
Seguire con fede, fiducia e coraggio Cristo, Servo umile, non violento, esaltato come tale dal Padre, Servo che ci guida sulla via della pace: questa è la nostra vocazione.

Tutti noi, in particolare i teologi di morale, abbiamo il compito di dare piena risonanza alla centralità della conversione verso Cristo, Servo esaltato dal Padre, ma lo possiamo fare solo con una profonda personale conversione, talora per noi non meno difficile che per Pietro ed alcuni suoi successori.
Io vedo in questa conversione di Pietro e di tutti i cristiani ferventi il punto archimedeo per la fioritura della Chiesa e della sua missione per la salvezza del mondo, il punto archimedeo per smascherare le forze delle tenebre, per svelare e superare le tentazioni più pericolose in genere ed in particolare di chi detiene autorità e potere nella Chiesa e nel mondo.
Non è lecito dividerci su punti accidentali. Uniti in questa visione centrale troveremo la riconciliazione su molte altre questioni.



La fede che ci salva e ci guarisce: la purificazione del Tempio

Il grande midrash di Matteo 4 sulle tentazioni più pericolose va approfondito con un altro brano evangelico che ci da la chiave per comprendere meglio la lotta dura, ma non violenta, di Gesù contro le falsificazioni più insidiose della vera religione fatte della classe dirigente d'Israele.
Certamente era una missione dura per il mansueto e non violento Servo di Dio Gesù, ma era un compito indispensabile per lo scopo supremo della sua vita: guadagnare adoratori autentici. «Infatti il Padre cerca tali persone che lo adorino. Dio è Spirito e coloro che lo adorano devono adorarlo in Spirito e verità» (
Gv 4, 23-24).

La salvezza è inscindibile dall’adorazione autentica ed ugualmente la purezza di fede e adorazione porta in sé una grande forza di salvezza e di guarigione, la forza terapeutica della non violenza.
Nelle riflessioni precedenti abbiamo visto la centralità dell’amore non violento del Servo di Dio. La non violenza che spezza le inimicizie e trasforma i nemici in amici è la forza della verità dell’amore e della compassione con i nemici, i peccatori.

Spesso ho sentito che Gesù scacciando i commercianti di religione non fu del tutto non violento, io lo vedo in modo contrario: qui si trova la chiave per comprendere meglio la missione del medico divino, del Servo non violento di Jahveh. Gesù non ferisce nessuno, ma apre gli occhi di chi vuol vedere, apre gli occhi alla vera religione, all'adorazione di Dio in una casa intesa come “casa di preghiera”.
Gesù manifesta la sua ira e la sua compassione contro l’abuso della religione. Matteo mette in rilevo il risultato immediato della purificazione della religione, riferisce con semplicità commovente: «e vennero a Lui nel Tempio ciechi e storpi ed Egli li guarì tutti» (21,14).
È quasi un commentario sul quarto Cantico del Servo: «Per le sue piaghe noi siamo guariti» (
Is 53,3).
La purezza della fede, la vera adorazione nella sequela del Servo sofferente, non violento, possono guarirci da molte forme di cecità e di svisamento e farci camminare sulle vie della pace.
Se si superano le tentazioni di abusare della religione per il proprio profitto, la propria vanità, per un potere ingiusto, si possono sviluppare rapporti sani e sananti tra le persone e le comunità e sorgono anche strutture sane che favoriscono il reciproco rispetto e la reciproca fiducia.



Pietro garante della completezza del collegio apostolico


Pietro convertito è accettato come garante della completezza del collegio apostolico che simbolizza la completezza delle tribù del nuovo Israele. Il suo modo di agire è il tipo ideale dell'esercizio di autorità che raduna.

La comunità propone due sostituti al posto di Giuda. Pietro non vuole fare una sua scelta.
«E gettarono le sorti» (At 1,15-26).

Pietro riconosce l'apostolato di Paolo
«chiamato per volontà di Dio apostolo di Cristo Gesù» (1 Cor 1,1), «Apostolo non da uomini né in virtù di un uomo, ma in virtù di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo risuscitò da morte» (Gal 1,1). Ma Paolo salì «a Gerusalemme per prendere contatti con Cefa» (Gal 1,15).

Gli apostoli e dei loro discepoli missionari costituirono ovunque in breve tempo una comunità eucaristica con un ministro permanente riconosciuto dalla comunità. Il criterio principale era che fosse un testimone credibile della fede in Dio Padre che ha esaltato il Suo Figlio, umile Servo Gesù.

Pietro da prova della sua profonda conversione a Cristo, umile Servo, in occasione del confronto con Paolo:
«Quando venne Cefa ad Antiochia, mi opposi a lui affrontandolo direttamente a viso aperto, perché si era messo dalla parte del torto» (Gal 2,11).
Pietro accetta l’ammonimento per non bloccare l'evangelizzazione dei non Giudei, si lascia guidare dallo Spirito su nuove strade recandosi da Cornelio e battezza i pagani senza imporre loro la legge giudaica.
È commovente leggere con quale comprensione e non violenza giustifica la sua condotta «presso gli altri apostoli e i fratelli» (
At 11,1-18).



Il ministero petrino a servizio del sacramento dell'unità


Pietro, insieme con gli altri apostoli ed i loro successori, ha il compito irrinunciabile di garantire che ovunque vi sia una comunità di fedeli sia celebrato il memoriale del mistero dell'umiltà del Verbo fattosi uomo, secondo il sacro mandato: «Fate questo in memoria di me, mangiatene tutti!».

Una comunità senza ministro eucaristico è tronca e priva del diritto più sacro. L'eucaristia celebrata secondo il mandato di Cristo è segno e sacramento efficace dell'unità fra le componenti della comunità e fra tutte le comunità di discepoli che credono e seguono il Servo di Dio esaltato dal Padre.
A questo riguardo la storia degli ultimi secoli, ad es. in America Latina, ci pone gravi problemi. Per secoli non si è permesso loro di avere ministri eucaristici indigeni a causa di criteri non derivati dal Vangelo e dall'antichissima tradizione.


Il ministero dell’Unità

Tutte le comunità apostoliche insieme a Pietro sono testimoni della preghiera-testamento di Gesù: «Io ho dato loro la gloria che Tu mi hai dato, perché siano perfetti nell'unità in me» (Gv 17,10-27).
Meditando la Bibbia e studiando la storia della Chiesa diventa chiaro che il ministero dell'unità dipende profondamente dalla conversione radicale a Cristo, Servo non violento esaltato dal Padre. L'esercizio dell'autorità conferita da Cristo va giudicata secondo la purezza della fede simbolizzata dalla purificazione del tempio e dalla resistenza alle tentazioni tipiche svelate da Cristo (
Mt 4).

Nell'antichissima tradizione sono evidenti i principi di collegialità e sussidiarietà. Una tendenza centralistica che non da abbastanza spazio alla collegialità e sussidiarietà porta in sé tante tentazioni e pericoli di patologie. Il Concilio Vaticano II ha chiaramente intuito l'importanza del principio di collegialità per ritornare all'unità delle Chiese cristiane.

A questo riguardo Giovanni Paolo I ci ha lasciato il testamento prezioso di una visione chiara:
«Cristo Gesù, Pietro e Paolo e Giovanni non furono capi di Stato. So e capisco le ragioni storiche... Ma come si fa a cambiare pelle di colpo, mettersi addosso un vestito così diverso, un titolo di potere, intrinsecamente estraneo alla missione del vescovo e del pastore, come quello di sovrano della Città del Vaticano... Pietro, a Cornelio che gli si era prostrato ai piedi, disse: “Alzati, anch'io sono un uomo”. La collegialità tra il papa e i vescovi è stata confermata dal Concilio. La collegialità tra il Papa e i vescovi, resa viva e operante, diventa la prova e il sigillo della cattolicità e si esprime attraverso il Sinodo dei vescovi. La collegialità tra i vescovi delle chiese locali si esplica, in primo luogo, nelle conferenze episcopali nazionali... che hanno perciò pieno titolo di vita e di azione» (Camillo Bassotto, "II mio cuore è ancora a Venezia" - Albino Luciani, Musile di Piave, Venezia 1990, p. 127).

Dopo aver letto nell'annuario Pontificio la lunga lista di titoli imposta al Papa, Giovanni Paolo I disse con amarezza: «È un retaggio del potere temporale. Manca solo il titolo Papa-re... Come può il Papa presentarsi dialogando, da fratello e padre in Cristo, con le Chiese sorelle, investito di tutti questi titoli?» (i.c., p.233).
Papa Luciani, nei trentadue giorni del suo pontificato non poteva fare grandi passi per l’ecumenismo, ma acquistò tante simpatie presso le "Chiese sorelle", come lui chiamò le Chiese definite "separate" dal Concilio e ci sono conservate parole cosi chiare sul ministero dell'unità che potranno servire come faro sulle strade verso la piena riconciliazione. Cito una parola che mi sembra caratteristica: «L'unità della Chiesa è grazia e dono di Dio, è lavoro e impegno dell'uomo. Bisogna pregare, fare penitenza, convertirsi, la Chiesa e ogni cristiano... Dobbiamo morire per risorgere, perderci per ritrovarci» (i.c., p.233).

Mi impressiona in modo particolare la chiarezza con cui ha intuito che la collegialità fra Papa e vescovi sarà un punto saliente non solo per la riforma della Chiesa cattolica, ma anche come presupposto di un dialogo fruttuoso con le Chiese sorelle. Nel suo primo discorso Giovanni Paolo I parlò del ruolo dei vescovi «la cui collegialità vogliamo avvalorare, avvalendoci della loro opera nel governo della Chiesa universale… Nessun vescovo potrà essere scelto senza che vengano tempestivamente consultate le conferenze episcopali e i consigli pastorali» (i.c., p.234).

Anche Papa Giovanni Paolo II ha fatto molti passi profetici nella giusta direzione. Molto è stato fatto, forse noi tutti avremmo dovuto fare di più sulla strada indicata dal Concilio e dal Papa dei trentadue giorni, pochi giorni, ma con un'eredità non ancora abbastanza apprezzata.

Quello che non è permesso a un credente è cadere nell'indifferenza. Cristo non ha pregato invano per l'unità della sua Chiesa. Dio ci ha concesso l'esperienza stupenda del Concilio, sono tanti i segni incoraggianti se poniamo la nostra fiducia in Lui, ma condizione assoluta è che l'unità dei cristiani ci stia tanto a cuore quanto a Cristo nella sua grande preghiera prima della morte.
Tutti possiamo dare un contributo se ci lasciamo guidare dallo Spirito Paraclito.

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