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Bernhard Häring 23.01.1993

Etica > Istanze etiche nella società planetaria (1993)



Da un'etica dell'obbedienza a un'etica della responsabilità



La storia dell'etica nel tempo moderno è marcata da un cambio radicale di paradigma. Alla monarchia assoluta, alla società aristocratica e ad ogni dittatura corrisponde un'etica dell'obbedienza, il punto di vista è quello del potere, dell’autorità: il padre di famiglia, il datore di lavoro, il comandante militare, il governo; dall'altra sponda stanno quelli che obbediscono, devono obbedire. Nella società e cultura autenticamente democratica il punto di vista decisivo è la persona, il cittadino, !'uguaglianza fra donna e uomo, sposa e sposo, il bambino va visto non tanto nella sua debolezza che richiede obbedienza verso i genitori ed educatori, ma piuttosto nel suo diritto di crescere verso una certa autonomia, maturità e responsabilità personale.

La dottrina sociale della chiesa con i suoi due pilastri, solidarietà e sussidiarietà, richiede indispensabilmente un'etica di responsabilità e corresponsabilità. Ma la dottrina morale ufficiale della chiesa fa fatica ad adottare radicalmente il paradigma nuovo, il cambiamento, il punto di vista dal basso, dal debole, dalla persona, dalla famiglia con uguaglianza fra donna e uomo.
Ogni tanto sentiamo l'obiezione: la chiesa non è una democrazia e non deve assimilarsi alla democrazia. La nostra risposta è che purtroppo nel passato la chiesa, particolarmente i papi e i vescovi, era troppo assimilata ai sistemi politici autoritari. La chiesa, popolo di Dio con i suoi ministri, non ha bisogno di assimilarsi ad un certo tipo di democrazia moderna, ma ha la missione di divenire per la società un modello di fratellanza, di amicizia, di rispetto reciproco in piena fedeltà al vangelo. All'inizio della chiesa non si trovano Eminenze ed Eccellenze Rev.me, o Santità sulla terra e su trono, ma fratelli e sorelle in Cristo, amici e amiche di Colui che si è fatto uno di noi, figlio dell'uomo.

Il programma di un'autentica etica di responsabilità fra credenti lo riceviamo da Cristo stesso:
«Non vi chiamo servi, perché il servo non sa ciò che fa il padrone. Vi ho chiamati amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio ve l'ho fatto conoscere» (Gv 15,15).
Chi pensa di poter imporre il suo parere dall'alto, non ha con sé le promesse del Maestro:
«Io sono in mezzo a voi come uno che serve» (Lc 22,27). «Quelli che hanno il potere... si fanno chiamare benefattori, voi però non agite così» (Lc 22,25s.).
Tutti quelli che si vantano di una superiorità oppure di un certo monopolio della verità sono ammoniti:
«Ti ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti ed ai potenti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21).
Con questo non si negano i differenti ministeri e carismi nella chiesa, ma si indicano criteri di credibilità.



Le nostre esperienze storiche

Penso che il mio itinerario verso un chiaro paradigma di un'etica di responsabilità sia tipico di molti.
Disgustato dalla teologia morale insegnatami secondo manuali estremamente legalistici con tanti precetti ecclesiastici “sotto peccato mortale” entrai convocato nel servizio sanitario della seconda guerra mondiale. Tante volte ho visto cristiani, tanto cattolici che protestanti, prestare un'obbedienza incredibile verso il regime criminale di Hitler. Si scusarono tali atti criminali con l'obbedienza. Mancò generalmente, con eccezioni certo, una educazione al discernimento, alla franchezza, al coraggio di disobbedire. Lo slogan “Il Führer comanda, noi obbediremo” non fu pubblicamente contraddetto dalla maggioranza dei vescovi. Tanto in Italia che in Germania il regime totalitario approfittò dello spirito di obbedienza coltivato dall'alleanza sacra fra trono ed altare. C'erano martiri come Jägerstätter, però questi pochi non ottennero nessun appoggio dal clero alto. La conclusione che si impose a me era: la chiesa ha bisogno di coltivare lo spirito profetico nel suo seno per essere
sal terrae.

Non basta scrivere nuovi manuali di teologia morale. Tutte le strutture ed anche il diritto canonico devono essere impregnati dallo spirito della libertà in Cristo.
In questo senso cerco adesso di chiarire il rapporto fra obbedienza autentica e spirito di responsabilità autentico. La mia tesi principale è: l'obbedienza può essere una virtù solo nella misura in cui è ispirata dalla virtù di responsabilità. Non c'è autorità autentica senza la virtù di ascolto. Le obbedienze dei cristiani hanno il carattere di obbedienza reciproca. Questo vale dalla famiglia fino al Papa. Il papà ed il Papa possono essere modelli di obbedienza nella misura in cui essi ascoltano ed obbediscono. La parola obbedire viene dalla radice
audire = ascoltare.



Un esempio di disobbedienza

Nel primo anno del mio ministero pastorale un uomo si confessò per aver disobbedito a sua moglie. Gli chiesi di aiutarmi a capire, perché a scuola avevo imparato che è la moglie che deve obbedire. “Che cosa significa la disobbedienza del marito?” La risposta fu chiara: “Mia moglie aveva ragione ed io non volevo riconoscerlo”. Ringraziando per tale chiarificazione proposi al mio penitente di confessarlo a sua moglie. Ma l'uomo mi disse: “No, queste cose si confessano nel confessionale, ma non a casa!”

Quante volte nella storia della chiesa i “Principi della chiesa” hanno confessato la loro disobbedienza verso i fedeli, i piccoli, i semplici, sia nel confessionale sia in pubblico? Era più facile per loro confessare di aver disobbedito al Papa che riconoscere di non aver ascoltato ed obbedito al gregge loro affidato.
Eppure l'obbedienza come virtù e come parte della virtù di responsabilità richiede una netta reciprocità. Chi non ascolta non sarà ben ascoltato, non sarà obbedito con ragione. Peggio: chi non ascolta con prontezza il suo prossimo non ascolterà Dio che ci parla
«in una successione e varietà di modi e in questa fine dei tempi ha parlato a noi nel Figlio» (Ebr 1,1-2).



Visione teologica della responsabilità

«In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio» (Gv 1,1 ). Dio parla, Dio è comunicazione, Dio è dialogo. Il Padre parla comunicando se stesso nel Verbo, parla al Verbo nell'eterno evento del dono reciproco. Nel dono reciproco lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio. Il Padre comunicandosi nel Verbo spira l'amore ed il Figlio ridonandosi al Padre spira lo stesso Spirito, emana l'amore. San Tommaso dice: «il Figlio è Verbum spirans amorem». L'opera della creazione e della salvezza è la sovrabbondanza dell'amore fra Padre e Figlio nello Spirito amore.



Tutto fu fatto per mezzo del Verbo (
Gv 1,3)

L'uomo è la creatura privilegiata perché in Lui la vita diventa
«luce degli uomini» (Gv 1,1,4). Se con Aristotele si contempla la creazione nelle categorie di causalità, l'uomo s'inserisce nella catena delle causalità, sia pure grandiosa. La visione della nostra fede è infinitamente più grandiosa e ricca. Tutto è dono, tutto è comunicazione di Amore, tutto invita al dialogo, alla responsabilità. Nella nostra fede la creazione ha la forma del Verbo e dell'alito di amore. Nella lode delle creature dotate di spirito e di lingua si innalza la risposta di ringraziamento, di gioia, di fiducia.
Dio ci manifesta la sua gloria nella grandezza della sua Creazione, ma in un modo insuperabile Dio ci comunica la sua umiltà nel Verbo fatto uomo. Dio parla al nostro cuore con il linguaggio del bambino, con le parole ed esempi del “Figlio dell’Uomo”, del Servo sofferente e glorificato.
Per mezzo del dono dello Spirito Paraclito, il Figlio glorificato ci assume nella sua risposta d'amore, d'umiltà, d'obbedienza in modo che tutta la nostra vita può divenire una risposta umile, generosa e valida.

Questa è la grandezza degli umili: essere pienamente assunti nel dialogo tra il Padre e il Figlio, Verbo fattosi uomo, nell'alito dell'amore. Comunicandoci l'alito del suo amore, Gesù ci invita ad entrare consapevolmente nel suo dialogo con il Padre in modo che uniti con Gesù possiamo dire “Abbà, Padre” con tutta la nostra vita. Nella grande preghiera prima della morte (
Gv 17) Gesù ci manifesta che i suoi discepoli fanno parte del suo dialogo con il Padre, animati dallo stesso Spirito. Sulla croce Gesù ci rivela la grandezza e la forza e nello stesso tempo l'umiltà del suo dialogo con il Padre invitandoci a farne parte. Col suo grido “Abbà, Padre, perdona loro” Egli associa tutti gli operatori di pace e di non violenza come figli e figlie del Padre nell'opera di salvezza e di redenzione. E la fede fiduciosa ci introduce nella sua ultima preghiera: “Abbà, nelle tue mani affido il mio spirito”.
Ecco il fondamento di una autentica etica cristiana di risposta e responsabilità!



Dio e il prossimo aspettano da noi risposte vitali

Gesù, Verbo incarnato, nella umiltà della nostra carne ci indica gli orizzonti del dialogo che diventa vita e verità. Egli vive nella parola che viene dal Padre: «Questi è il mio Figlio diletto» (Mt 3,17; Mt 4,4). Se noi ascoltiamo questa voce del Padre seguendo il cammino del Servo non violento, il Padre ci riconoscerà come suoi figli e sue figlie. Col suo esempio Gesù ci manifesta anche che la sua risposta al Padre non si distacca dal suo modo di ascoltare gli uomini e di rispondere con un amore infinito.
Similmente Gesù assume nella sua suprema risposta la nostra prontezza di rispondere adeguatamente al prossimo, ai pregi e bisogni della comunità, a tutta la famiglia di Dio. Non possiamo non vedere che Gesù ci invita particolarmente ad associarci al suo modo di divenire messaggio e risposta d'amore per i disprezzati, i lebbrosi, i falliti, insomma per i bisognosi di amore.
Nella reciprocità della nostra coscienza con quella di Gesù siamo sempre confrontati con la domanda fondamentale: sono io del tutto pronto alla risposta nei confronti di Dio e del mio prossimo? Sono io in cammino per divenire per il mio prossimo, per la mia famiglia, la mia comunità, per i poveri, una parola autentica in cui riecheggia Gesù, testimone dell'amore del Padre? È la mia risposta degna di essere assunta dalla risposta che Gesù dà al Padre nella forza dello Spirito?



La qualità della nostra risposta dipende dal nostro modo di ascoltare

Il terzo carme del Servo tematizza il rapporto fra ascolto e parola che conforta e sostiene: «II Signore Dio mi diede una lingua di discepolo, affinché io sappia sostenere lo stanco con la parola: egli risveglia il mio orecchio, perché io ascolti come fanno i discepoli: il Signore Dio mi aprì l'orecchio» (Is 50, 4-5).
La mia risposta a Dio nella mia vita e per mezzo del dialogo con gli uomini dipende dalla mia disponibilità e capacità di ascolto. D'altra parte la mia disponibilità e capacità dipendono da tanti altri che mi aprono il cuore e l’orecchio per mezzo di parole ed azioni che sono ispirate dall'amore.

Secondo le più recenti ricerche il feto sente già abbastanza presto la voce della madre e poi gradualmente anche le altre voci. Egli immagazzina il suono delle voci nella sua memoria primitiva. Se tali voci avevano il tono dell'amore il bambino diventa in modo particolare capace di percepire le voci che indicano simpatia, affetto, amore.
La fede viene dall'ascolto (
Rom 10,14). Certo, si tratta alla fine di ascoltare Cristo stesso e la sua parola. Ma la nostra capacità umana dell'ascolto autentico dipende dall'esperienza umana soprattutto nella famiglia. Se ci si ascolta vicendevolmente con amorevole attenzione, con affetto, con pazienza, allora si svilupperà la gioia nell'ascolto. Se i genitori gioiscono già dei primi tentativi del bambino di parlare, dei suoi primi balbettii, dei suoi primi passi, del suo sorriso, allora il bambino diventa da parte sua attento, pronto ad ascoltare le voci che esprimono affetto, amore, stima ed invitano ad una risposta.
II nostro ascolto, fondamento della fede crescente sul quale riposa la fede viva, viene esercitato soprattutto nel matrimonio e nella famiglia, appreso gioiosamente ovvero ostacolato. Una richiesta di coscienza per tutti!

Ma anche l'altra dimensione non è meno significativa. Se nella fede vissuta diventiamo sempre più pronti all'ascolto di Dio e della sua chiamata, si formerà una nuova qualità del nostro ascolto reciproco, della sensibilità alle varie manifestazioni del prossimo. La fede è un'accoglienza riconoscente della lieta novella, in gioiosa disponibilità alla risposta. E questo dà una nuova vitalità e sensibilità al nostro dialogo intra-umano.
La profondità e vitalità della fede in quanto ascolto, accoglienza e risposta, crescono in misura del reciproco ascolto fra di noi. Il nocciolo dell'obbedienza alla lieta novella è proprio l'ascolto attento. E a sua volta questo dipende da come ci viene rivolta la parola e da come ci viene risposto.

Le autorità della chiesa ed i genitori hanno molte cose in comune, sopratutto le seguenti: essi non possono aspettarsi che si dia loro ascolto e che si obbedisca sensatamente se essi stessi a loro volta non sono buoni ascoltatori, rivolti rispettosamente verso coloro cui vogliono interessarsi.
Parola e risposta sono intimamente collegate. La parola che è ispirata dall'amore e spira amore è il miglior invito ad un ascolto attento e ad una attenta risposta. Chi sa ascoltare con cuore ed intelligenza impara a dare gradualmente una risposta adeguata a Dio e al prossimo. Questa è la profondità della fede e dell’etica di responsabilità.



Risposta di fede e responsabilità

II nocciolo della fede cristiana e della preghiera è rispondere in base all'ascolto sincero della parola che ci viene rivolta: accoglienza gioiosa e risposta riconoscente.
La risposta di fede non è qualcosa staccata dalla nostra persona. Al contrario, la risposta di fede è viva nella misura in cui noi stessi diventiamo risposta riconoscente, dono di noi stessi a Dio che nella grazia di fede fa dono di se stesso. La fede viva è una risposta che viene dal profondo della nostra persona, nella nostra unicità.

La nostra fede come risposta contiene in sé già la dinamicità della responsabilità morale. Staccata dalla risposta di responsabilità la fede è sterile, staccata dalla dimensione della fede un'etica che si chiama di responsabilità rimane superficiale e incompleta.
L'etica della responsabilità di carattere cristiano consiste nell'integrazione di fede e vita: noi ci adoperiamo affinché ogni pensiero, ogni parola, ogni azione divengano parte integrante della risposta di fede di fronte a Dio. Per tutto quello che Dio nel suo amore ci ha affidato: la vita umana, la salute del corpo e dell'anima, il mondo economico, politico, le condizioni ecologiche, ecc., ci sentiamo responsabili davanti a Dio nella misura delle nostre capacità in modo che il nostro impegno interumano ed intermondano diventino parte integrante della nostra risposta data a Dio nella fede.
Come l'amore di Dio e l'amore del prossimo sono inscindibilmente collegati, lo sono anche la risposta data a Dio e agli uomini e la responsabilità di tutto il nostro agire davanti a Dio e davanti agli uomini. In tal modo diventiamo gli uni agli altri dono di Dio e parola in unione con il Verbo fattosi uomo.

Così la nostra responsabilità davanti a Dio diviene origine e scopo della nostra responsabilità reciproca. Dio Creatore e Padre chiama ciascuno e ciascuna con il suo nome proprio; e poiché egli è Dio e Padre di tutti, la sua chiamata non può essere altro che una con-chiamata
, una chiamata alla comunità di salvezza e alla solidarietà di salvezza di tutti e per tutti davanti al suo volto. La conseguenza sarà che nella fedeltà alla nostra fede ed alla nostra coscienza ci uniamo a tutti gli uomini nella ricerca del bene e del vero (cf. Gaudium et Spes n. 16). Non c'è altra via per rispondere solidalmente alla nostra chiamata che sostanzialmente è con-chiamata. Etica di responsabilità dice inevitabilmente corresponsabilità davanti a Dio.



In cammino verso la piena responsabilità

Responsabilità e corresponsabilità sono un ideale, ma anche una meta obbligatoria. La questione di coscienza e della reciprocità delle coscienze è soprattutto: siamo sinceramente ed intensamente in cammino verso questa meta?
Ascoltare autenticamente e rispondere sinceramente è un’arte, una virtù mai pienamente acquisita. Abbiamo bisogno del reciproco aiuto. Se i genitori, gli educatori e tutti i gestori di autorità si rendessero conto che la reciprocità delle coscienze, l'arte della reciproca obbedienza, la pienezza dell'ascolto e delle risposte non sono mai pienamente raggiunte, allora sarebbero in grado di aiutare i figli e tutti quelli che sono in qualche modo loro affidati mettendosi insieme in cammino per apprendere una obbedienza responsabile, per crescere verso la maturità.

Il tipo autoritario che mai dubita nei propri riguardi e tanto più nei riguardi del prossimo è un pericolo ed una minaccia alla crescita solidale verso la corresponsabilità. Un tipo più o meno autoritario, troppo certo di se stesso, ricorre facilmente ai mezzi di punizione e rimunerazione per promuovere un sentimento non di responsabilità, ma di obbedienza. La minaccia più pericolosa in tutti i rapporti umani, ma soprattutto fra genitori e figli, è sottrarre l'amore se l'altro non ascolta, non obbedisce. Dalla fede sappiamo che Dio mai ci sottrae il suo amore. Dio Padre ci viene sempre incontro con una grazia preveniente per guarirci ed incoraggiarci nel cammino della fede, della speranza, della riconciliazione, dell'amore. Siamo fedeli al piano di Dio quando cerchiamo di imitarlo in questa direzione.

Byrrhus Frederic Skinner ha dimostrato bene la combinazione fra rimunerazioni e punizioni per manipolare animali e uomini, adulti e più ancora bambini. Ma Skinner era cieco verso il fatto provato che persone marcate dall'esperienza di gratuità non si lasciano manipolare dal suo sistema. Il bambino che ha dato fastidio ai genitori e proprio in tale occasione sperimenta l'amore gratuito, fedele, costante dei genitori è in cammino per sperimentare la dimensione della gratuità che è la dimensione più importante della fede autenticamente cristiana. Guai se i genitori che non si danno tempo e sforzo per dimostrare affetto gratuito ricorrono a tutto un sistema di pagamento e punizioni per ottenere il comportamento desiderato!

Anche nella chiesa c'è un problema grave a questo riguardo: la trascuratezza della gratuità e generosità come risposta all’esperienza della gratuità. Pensiamo al moralismo e legalismo dei tempi passati: tante leggi ecclesiastiche, fino a piccole rubriche “sotto pena di peccato mortale”. Si usò troppo facilmente tale minaccia. Ad esempio: Dio che mette nell’inferno un cattolico che per propria colpa ha trascurato l'obbligo di assistere alla messa domenicale una sola volta. Si parlò genericamente su un atto di masturbazione come peccato mortale, pur ammettendo situazioni di diminuita colpa. E non si pose il grave problema: quale immagine di Dio riflette un tale rigorismo? Si voleva ad ogni costo evitare i peccati ottenendo spesso risultati contrari.

Il problema delle rimunerazioni nel servizio della chiesa è tutt’altro che facile.
È giusto il riconoscimento per un servizio generoso e fedele, anche per un'obbedienza esemplare, ma c'è la tentazione di ottenere un facile conformismo con un sistema di promozioni, di titoli talora anche antievangelici, non si vede il grave pericolo di promuovere vanità, gelosia ed invidia. Si pensa troppo poco all'arte di educare anche strutturalmente alla purità delle intenzioni e alla piena sincerità del servizio.
Siamo in un momento di transizione in cui è urgente trovare una sintesi fra i grandi orientamenti biblici che vanno verso una morale basata sull'esperienza di gratuità e gratitudine, sulla vigilanza della purità delle intenzioni, e l'uso delle conoscenze nuove che ci sono offerte dalle scienze umane.

Anche le strutture giuridiche ed il sistema di nomine e di promozioni vanno viste alla luce della trasparenza, tanto importante per la credibilità della chiesa, non solo attraverso persone eroicamente sincere, ma anche attraverso la prassi quotidiana.
Qui penso anche alla virtù della critica che richiede soprattutto la prontezza di soffrire, altrimenti non ci sarebbe la piena purità delle intenzioni. D'altra parte soffre la credibilità della chiesa come istituzione se si fa soffrire quelli che con amore esprimono critiche ben fondate. Penso a Rosmini che a causa della sua critica ben fondata ha sofferto troppo dando un esempio straordinario di amore verso la chiesa che lo ha fatto soffrire. Quanto avremmo guadagnato ascoltando questo profeta!



Sto alla porta

Marcel Légaut ed altri hanno usato l'espressione “sto alla porta” per indicare il fenomeno complesso dell'autenticità della fede. Ci sono quelli che pensano di stare dentro e dicono “Signore, Signore”, ma non lo onorano con la vita. “Sto alla porta” per liberarmi dalla contaminazione di aspetti negativi. “Sto alla porta” per entrare fermamente nella chiesa dei poveri, umili, non-violenti, ma purtroppo non sono ancora perfettamente dentro. Cerco di conoscere Gesù, servo non-violento, cerco di amare l'uomo nelle sue condizioni difficili, ma ne sono ancora lontano. Altri che sembrano star fuori, forse amano i poveri più di noi.

I grandi teologi come Karl Rahner, Karl Barth ed anche il Concilio Vaticano II hanno prestato attenzione a questo problema. A causa di una molteplicità di fattori e anche a causa delle nostre deficienze, molti stanno fuori dalla chiesa, malgrado il fatto che cercano con cuore sincero le vie del bene e della verità e vivono sinceramente secondo il dettame delle loro coscienze. Rahner li chiama “cristiani anonimi”: questi, pur non chiamandosi cristiani, ascolteranno il giorno del giudizio queste parole: “Ebbi fame e mi deste da mangiare... ero in carcere e veniste a trovarmi”. Dice Karl Barth: sono quelli che con cuore sincero vivono l'
analogia fidei, ascoltano i bisogni, le virtù degli altri, vivono con coscienza retta e sincera, sempre disposti a mettere in pratica la verità conosciuta.

Dall'altra parte ci sono cristiani romano-cattolici di ogni grado che sottoscrivono non solo le verità rivelate, ma anche tutti i decreti ed insegnamenti emanati dal Vaticano, ma non conoscono l'esperienza della gratuità, della grazia, della generosità. Sono servi pagati, obbedienti in cose piccole, ma meno sensibili nelle cose importanti.
Come cristiani maturi non vediamo nessun motivo per lasciare la nostra chiesa, ma dobbiamo fare uno sforzo generoso e continuo per entrare pienamente nella chiesa umile, povera, nella chiesa che vive secondo l'esperienza della gratuità, secondo la legge della grazia, la chiesa che vive ed insegna il discernimento, la chiesa che rinuncia a controlli esagerati perché crede nello Spirito Santo e lo adora in tutta la sua vita. Ma per molti è duro e difficile
vivere fedelmente e gioiosamente la tensione fra il “già” e il “non ancora”. Proprio questo contrasto, questa tensione dovrebbe essere per noi una spinta per vivere esemplarmente la testimonianza della fede gioiosa, la generosità come risposta all'esperienza della gratuità divina.
Su questa strada, in questo cammino, abbiamo tutti noi, dal Papa fino al bambino, il diritto di fare sbagli, ma mai ci dovremmo permettere di essere contenti nel senso del fariseo che dice davanti a Dio: “Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Piuttosto stando davanti a Dio rivolgiamo i nostri occhi e i nostri cuori a chi ci rende una testimonianza autentica di continua conversione, di ricerca infaticabile e solidale per conoscere meglio ciò che è vero, buono, generoso.

La personalità cristiana responsabile e corresponsabile cresce soprattutto nel coltivare una memoria riconoscente, essa nasce dalla ricchezza del passato, della storia della salvezza e della propria storia vissuta in solidarietà. Essa vive intensamente il momento presente come invito alla vigilanza, alla prontezza e al discernimento. Che cosa posso offrire a Dio ed al prossimo qui ed oggi per tutto il bene ricevuto? La personalità cristiana vive sempre nella tensione di crescita, di speranza e di impegno in vista della responsabilità per il futuro, il futuro proprio e quello degli altri.
Con queste virtù escatologiche che corrispondono alla dinamica della storia di salvezza si diventa un testimone credibile del messaggio di salvezza, del regno dell'amore, della pace e della giustizia, un rappresentante autentico dell'etica di responsabilità.



La preminenza della conversione per mezzo della fede

Cristo ci viene incontro come la personificazione della lieta novella. Egli ci invita in piena libertà all'amicizia, alla partecipazione nel regno della pace in piena corresponsabilità. Cristo certamente non fu un moralista. Egli ci attrae con il suo amore e ci vuol vedere come “luce del mondo”, di un mondo minacciato dalla morte di freddo. La sintesi del suo evangelo risuona: «Gesù venne per proclamare la lieta novella: il tempo di salvezza compiuto e il regno di Dio è giunto, convertitevi credendo alla lieta novella» (Mc 1,14-15).
La vera conversione cristiana è l'accoglienza della lieta novella che ci viene incontro nella persona di Cristo. La conversione è un nuovo rapporto in Cristo col Padre, un nuovo modo di pensare non in vista di leggi, ma in vista di Cristo, Vangelo vivente. La conversione è la prontezza di entrare nel regno della pace, dell'amore per comunicarlo ad altri con gioia, con amore, partecipando attivamente alla venuta di Cristo e all'opera della sua grazia.

Tutto questo insieme si chiama corresponsabilità in Cristo e con Cristo nella comunità di fede. Possiamo senz'altro parlare di “obbedienza di fede” che non è una sottomissione ad una legge astratta e rigida, ma un nuovo disegno di partecipazione.
Il moralismo è esattamente l'approccio contrario: chiasso di leggi, precetti, divieti, controllo, minaccia con sanzioni severe. Il moralismo è sterile e brutto. La morale cristiana autentica fluisce dalla conversione alla lieta novella, a Cristo in persona ed al Padre celeste.

La morale cristiana è opera dello Spirito. O meglio: frutto dello Spirito. Questa visione sta al centro della lettera ai Galati, il grande documento della libertà in Cristo:
«Per la libertà Cristo ci liberò» (Gal 5,1). E questa libertà ci invita come grazia dello Spirito Santo. «Se siete animati dallo Spirito, non siete più sotto la legge» (Gal 5,18).
Paolo, da una parte oppone
«le opere proprie dell'egoismo incarnato» (Gal 5,19-21) e dall'altra parte «II frutto dello Spirito: amore, gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza, fiducia, non violenza, padronanza di sé» (Gal 5,22). Tutto questo è frutto dello Spirito e nello stesso tempo frutto della conversione di fede, frutto dell'accoglienza gioiosa della lieta novella e della grazia, risposta vitale e riconoscente.
Con Paolo lottiamo oggi di nuovo contro il moralismo rigido e sterile che cerca di imporre il conformismo imposto dall'alto a grave danno della nostra missione di evangelizzazione attraente.

Dalla nostra scelta per il primato della conversione di fede deriva anche il cammino dell'educazione fin dall'infanzia. Chi vive la struttura di fede del cuore convertito sa comunicare al bambino la gioia e la fiducia. Consapevoli di essere soltanto in cammino, gli educatori in famiglia e nella chiesa avranno l'umiltà di riconoscere le loro deficienze e sbagli. Diranno dopo uno sbaglio: “questo non era giusto, mi dispiace”. Mai si ascolterà: “bambino, obbedisci! Papà lo sa, mamma lo sa, non domandare!”
Nel documento preparato dalla commissione preparatoria del Concilio dai moralisti del Sant'Uffizio, tante volte si legge:
Inculcandum est fidelibus, cioè inculcare un ordine di leggi e divieti, invece di condurre soavemente e coll'esempio all'ascolto, all'accoglienza dei segni di amore e di pace, condurre all'opera della grazia, alla gioia di fede e così al cammino della vera responsabilità.
Bisogna dirlo chiaramente: Se i genitori e/o i rappresentanti della Chiesa ci chiedono modelli di comportamento morale con la semplice motivazione della loro autorità superiore, ciò è in contrasto con la struttura fondamentale della fede autentica e della obbedienza di fede. Tanto peggio quando le autorità stanno inculcando un certo precetto o divieto con intemperanza ed intolleranza.



II posto dell'obbedienza nell'etica di responsabilità

L'obbedienza è una virtù quando è obbedienza responsabile in una vita ed in un rapporto tesi verso la maturità. Ma allo stesso modo è una virtù la disobbedienza responsabile come espressione di una coscienza marcata dalla responsabilità e corresponsabilità vissuta nella reciprocità delle coscienze. L'etica della responsabilità non è un sottocapitolo di un'etica di obbedienza. Al contrario, l’obbedienza per essere una virtù, deve subordinarsi e coordinarsi con l’etica di responsabilità. Ci è consentito richiedere soltanto un'obbedienza ben motivata. Una premessa generale è una fiducia ben fondata nella responsabilità dei portatori di autorità e nei loro sforzi intelligenti e pazienti di motivare sensatamente le loro richieste, di accettare volentieri la domanda: “perché?” e di ascoltare con rispetto gli argomenti contrari.
Se i portatori di autorità avanzano spesso richieste autoritarie che appaiono immotivate alle persone cui sono dirette rifiutando anche un dialogo rispettoso, giustamente perdono la fiducia fondamentale che si dovrebbe avere nei loro confronti. La conseguenza per “i sudditi” (come essi si sentono se sono squalificati da modi autoritari) sarà o il conformismo insincero, o la sottomissione servile, cioè una crescente condizione di “minorità”, oppure l'indifferenza totale verso tale autorità o perfino la ribellione aperta e violenta.

Quindi, un'autentica obbedienza, come si può notare facilmente, non è in contrasto con un'autentica etica di responsabilità. E l'etica di responsabilità non è nemica della virtù dell'obbedienza, ma è piuttosto la garanzia indispensabile di una obbedienza degna di cristiani, degna di persone in cammino verso la maturità. L'obbedienza che ha il suo posto nei rapporti fra credenti viene dall'ascolto, analogicamente con la fede che viene dall'ascolto. Come possono i portatori di autorità sperare di essere ascoltati se essi stessi non sono disposti ad ascoltare?
Nel secolo scorso il Cardinale Newman ha scritto sulla necessità di consultare i fedeli in questioni di fede. Molto più urgente è l'obbligo di consultare i fedeli in questioni morali, soprattutto se si tratta di questioni particolari di costume e di problemi che di per sé permettono un certo pluralismo. Chi vuol controllare tutto in questo campo, perderà tutto il controllo e per di più la credibilità.



Esempi di etica dell'obbedienza degenerata

La mafia e gruppi consimili da una parte rifiutano la loro responsabilità ed anche la loro obbedienza allo Stato, alle autorità legittime, ma dall’altra sotto sanzioni severissime impongono ai loro seguaci un conformismo fino alla cooperazione più criminale.

Marcel Lefèbvre e i suoi seguaci sono sempre stati protagonisti di una chiesa autoritaria e di una morale di controllo, di un'etica di stretta ubbidienza verso le autorità ecclesiastiche. Ma essi in nome della tradizione rifiutano non solo l’obbedienza a un certo problema, ma vivono in piena ribellione verso la Chiesa universale richiedendo però per il loro gruppo la più stretta morale di obbedienza e un conformismo totale.

II comunismo reale che si dichiarò protagonista di liberazione finale era il regime più autoritario con una elaborata ideologia che imponeva un controllo totale all'ortodossia e alla disciplina. Con questo si preparò il crollo totale.

Anche nella chiesa di oggi si trovano gruppi e gruppetti che promuovono una ideologia di obbedienza assoluta, sono obbedienti e conformisti perfino nelle piccole cose e se acquistano potere diventano autoritari verso i sudditi e critici con quelli che non la pensano come loro.
Basta ricordare certi nomi che hanno criticato severamente Papa Giovanni Paolo II per il suo primo raduno di preghiera ad Assisi con i rappresentanti di altre religioni, gli stessi che credono di dover controllare tutto fin nei più piccoli punti. Ammiriamo quel gesto profetico del Papa. Abbiamo nella chiesa di oggi movimenti spirituali che promuovono una fede matura ed un'autentica etica di responsabilità, ma ci sono altri movimenti che suscitano il sospetto di coltivare all’interno uno stretto conformismo congiunto con intolleranza verso chi non pensa come loro. Un esempio triste di tale tendenza è un articolo apparso
ultimamente su 30Giorni contro Karl Rahner con una intolleranza che ricorda i tempi più tristi dell'Inquisizione.

La nostra amata chiesa cattolica ha fatto la sua scelta per una morale della responsabilità, ad esempio nella Costituzione Pastorale
Gaudium et Spes e con la dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa.
Oggi si tratta di coerenza nei conflitti tra il vecchio approccio e la visione del Concilio. Il mondo ci guarda con sospetto. Bisogna essere coerenti, se vogliamo essere
sal terrae. Ma ci vuole anche comprensione.

Non fa meraviglia che lo sviluppo della teologia morale stia un po’ al centro delle tensioni attuali. C'è anche un conflitto fra le generazioni che hanno ricevuto la loro formazione di base seguendo manuali di tipo legalista con tanti precetti e controlli, e la nuova generazione che vive il rinnovamento della morale nella direziono di un'etica di responsabilità e di discernimento.
C'è ancora una scuola che si considera “romana” che procede con mere argomentazioni deontologiche astratte con lo scopo di provare moltissimi divieti che permettono un controllo, ma mai una eccezione. Non sono contro un uso saggio di modelli deontologici del tutto ragionevoli, essi non rifiutano l'uso dei risultati delle scienze umane. Ma è uno scandalo quando certi moralisti ritengono ogni argomentazione teologica come un calcolo di utilità. Dobbiamo rispondere davanti a Dio sui risultati delle norme proposte da noi. La teologia morale scientifica sottomette certe norme morali tradizionali al discernimento. Criteri sono la conformità con il vangelo, la conformità con le esigenze generali e attuali della giustizia, della carità, della pace, la migliore promozione di rapporti umani sani e sananti. Il criterio teleologico non può non esaminare come certe norme abbiano delle conseguenze buone, desiderabili, oppure conseguenze funeste.

Voglio fare un esempio: anni fa l'ormai famoso psicologo Drewermann propose il diritto di ciascuno a mettere fine alla sua vita quando lo considerava giusto. Nella controversia io lo dovevo avvertire di aver completamente trascurato la dimensione teleologica nella sua proposta. Quand'anche la chiesa approvasse tale norma, o se fosse accettata nella società, si può ben prevedere che tanti anziani, malati bisognosi di cure, si sentirebbero ben presto interrogati: “Quando finalmente deciderai di lasciare il teatro di questo mondo?”.

I rigoristi considerano tutte le norme della morale sessuale contenute nei manuali dei secoli scorsi come assolute ed universali senza porsi la domanda delle conseguenze della perdita di credibilità in un'epoca di generazioni critiche, con conseguenze anche funeste per un minimo di inculturazione della morale cristiana in culture diverse da quelle in cui le norme tradizionali sono state elaborate.

Questi problemi non si lasciano risolvere con giuramenti di fedeltà e lealtà, ma solo con un dialogo paziente e con buoni argomenti, sia deontologici che teologici, con uno sforzo continuo di conoscere l'uomo nel suo contesto culturale. È un grande progresso che tutte le scuole teologiche abbiano eliminato i giuramenti e le promessa di lealtà verso la scuola.
Più che una morale di controlli giovano il dialogo aperto e rispettoso con uno sforzo generoso di comprendere meglio chi pensa differentemente, con l'ascolto reciproco, la tolleranza e l'apprezzamento di un pluralismo che corrisponda ai differenti orizzonti di esperienza e di comprensione.
Insinuazioni ingiuste e supposizioni gratuite contro rappresentanti di altre scuole e tendenze vanno smascherate come gravi ingiustizie non solo contro le persone, ma anche contro tutta la chiesa. Chi permette o favorisce tali insinuazioni gratuite ha perso la sua credibilità e dovrebbe essere aiutato a comprendere la necessità di una profonda conversione e di riparazione del danno.

Oltre alla necessità di ascolto con uno spirito aperto sono centrali la virtù di discernimento (virtù della critica secondo il senso biblico
krinein), la vigilanza in vista della lettura dei segni dei tempi. Tutti insieme vogliamo essere una scuola intorno a Cristo, unico Maestro, noi tutti siamo condiscepoli. Certo, questo non esclude la necessità di un magistero nella chiesa, ma ne indica la natura ed i criteri: radunare tutti intorno a Cristo, all'ascolto della sua parola, alla sequela generosa, alla docilità verso lo Spirito che opera in tutti e per mezzo di tutti, soprattutto per mezzo dei più umili. Si vuole una più grande attenzione al magistero dei santi viventi fra di noi.

Oggi, in una società planetaria è indispensabile il dialogo con tutti gli uomini di tutte le culture, in prima linea il dialogo ecumenico fra i cristiani, anche e soprattutto nelle questioni morali e poi con le altre religioni, secondo le direttive del Concilio Vaticano II sull'ecumenismo e sul rapporto con le religioni non cristiane.
Nel mio studio di testi delle grandi religioni dell'Oriente sono rimasto sorpreso per quanto loro ci dicono sulla non violenza. Dopo aver scoperto questo, ho letto la nostra Sacra Scrittura a questo riguardo con un cuore più attento.
Il testo classico sulla reciprocità delle coscienze e la corresponsabilità universale si trova nella Costituzione Pastorale
Gaudium et Spes al n.16: «Nella fedeltà della coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale».
Un tale sforzo non è una mera concessione agli altri, ma un modo indispensabile di onorare Dio, Padre di tutti, lo Spirito Santo e la grazia di Cristo che è morto per tutti e vive per tutti.

La teologia rimane viva per mezzo di un dialogo franco, ma anche rispettoso ed amichevole.
Un tale dialogo richiede da tutti un apprendimento continuo, l'acquisto della lunghezza d'onda e della competenza nelle scienze umane e divine. In particolare una negligenza dello studio delle scienze umane, come la sociologia dei costumi, della sessualità, della famiglia, della religione e soprattutto della sociologia del sapere, può avere gravi conseguenze.
Nessuno e nessun gruppo ha il monopolio della verità morale. Possiamo rendere un contributo utile in quanto siamo discepoli di Cristo e condiscepoli in piena solidarietà e corresponsabilità. Il conferimento di un ufficio, sia pastorale o scientifico, non ci rende automaticamente più competenti nella sapienza e nel discernimento, tanto necessari in questioni di morale. Ancor peggio se l'attività pastorale o scientifica ci impedisce di continuare l'apprendimento.

L'ufficio nel campo della morale richiede anche una grande sensibilità per tutte le verità morali, il rispetto delle coscienze e un controllo continuo sulla rettitudine e purezza delle nostre intenzioni. Rimane sempre la prominenza della conversione di fede che significa una conversione continua, una crescita continua nella fede riconoscente e gioiosa. Soprattutto l'etica di responsabilità ha una grande affinità con la fede viva.


BERNHARD HÄRING (testo scritto e pronunciato dall’autore)


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