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5. Giuseppe Barbaglio 6.05.1993

Bibbia > 1° Corso laico ed interdisciplinare di cultura biblica: Introduzione (1993)



trascrizione integrale

Gesù di Nazareth
Che cosa ha detto di sé? Che cosa hanno detto di lui?




1. II problema

I due interrogativi del titolo, il primo “Gesù di Nazareth, che cosa ha detto di sé?”, ossia come si è presentato, ed il secondo “che cosa (i credenti del 1° secolo) hanno detto di lui?”, accostati suggeriscono che non c'è una perfetta omogeneità tra ciò che Gesù ha detto di sé e quello che hanno detto di lui.

Il problema, nato nel 1800, è il passaggio dal Gesù della storia, cioè Gesù di Nazareth, al Cristo della fede della prima comunità cristiana. In mezzo a questi due poli ci sta:
- la morte violenta, tragica di Gesù;
- la caduta conseguente della fede prepasquale dei discepoli che lo avevano seguito perché avevano in lui una certa fede, lo avevano ritenuto un profeta, forse anche un messia;
- la nascita di una nuova fede, la fede postpasquale legata alla credenza nella resurrezione.

Dal Gesù della storia al Cristo della fede c'è un passaggio epocale, Gesù era l'evangelista, cioè il portatore di un lieto annuncio ed è diventato l'evangelizzato, cioè il contenuto di quell'annuncio.
Questo passaggio è il punto nevralgico di tutti gli scritti della Bibbia cristiana e suscita alcuni interrogativi: come è potuto avvenire questo passaggio dalla caduta della fede prepasquale alla nascita in breve tempo della fede postpasquale? Quale novità ha determinato?
Non c'è infatti una perfetta corrispondenza tra il Gesù della storia ed il Cristo della fede. Che rapporto c'è? Se dovessimo concludere su un piano storico che non c'è nessun rapporto, il problema sarebbe allora drammatico perché l'oggetto della fede sarebbe puramente fittizio, cioè creato all'interno di un processo di fede soggettivo al di fuori del quale non c'è niente. Sarebbe una realtà creata dal soggetto e nulla più, un mito. Si noti come sono drammatici questi interrogativi, è molto serio quindi il tentativo di dare qualche indicazione di risposta.



2. Fonte di documentazione

Quali sono i documenti, da dove prendiamo le notizie sul Gesù della storia e il Cristo della fede?
Praticamente noi abbiamo solo gli scritti cristiani. Al di fuori dell'ambiente cristiano ci sono pochissime notizie e per di più molto generiche. C'è una testimonianza di Giuseppe Flavio, il famoso documento flaviano di cui peraltro si discute molto la storicità essendovi glosse successive. Ci sono poi piccoli riferimenti degli storici romani quando parlano della persecuzione sotto Nerone. In realtà l'unica fonte è costituita da scritti di parte, quelli cristiani. Non abbiamo testimoni neutrali, ma solo testimoni impegnati, credenti al centro dei quali sta il Cristo della fede.
Tra gli scritti cristiani, quelli che si riferiscono al Gesù della storia sono praticamente solo i vangeli e tra di essi, tranne poche notizie di Giovanni, i primi tre vangeli di Marco, Matteo e Luca in ordine di tempo. Quelli che si riferiscono al Cristo della fede sono i tre vangeli precedenti, gli scritti di Paolo, il vangelo di Giovanni e pochi altri.

Il problema dibattuto negli ultimi due secoli è il valore di questa documentazione, soprattutto dei vangeli sinottici. Fino all'inizio di questo secolo lo studio critico, storico, letterario era limitato al testo scritto. I vangeli venivano studiati in se stessi e nelle fonti scritte. Da tali studi è emerso che la fonte, anche se non esclusiva, dei vangeli di Matteo e di Luca è il vangelo di Marco. Un'altra fonte di Matteo e Luca è la fonte Q, la fonte dei detti di Gesù, mai arrivata a noi, ma che viene postulata perché solo così si può spiegare come Matteo e Luca abbiano in comune materiale molto simile che non c'è in Marco, ad es. il discorso della montagna o il Padre Nostro. Poi naturalmente si è avuta un’ampia discussione sul valore dei testi in sé.

Un passaggio molto importante della critica è quello di andare oltre lo scritto, non solo oltre i vangeli, ma anche oltre le fonti scritte dei vangeli, cogliendo lo stadio orale.
I vangeli sono abbastanza tardivi. Il più antico, quello di Marco, risale ad una generazione dopo la morte di Gesù, verso il 70 d.C., mentre i vangeli di Matteo e Luca vengono cinquanta anni dopo la morte di Gesù. Se la fonte Q si può collocare verso gli anni 60, ci sono sempre 30 anni di vuoto documentativo tra Gesù e le fonti scritte. Da qui la necessità di risalire all'indietro per coprire questi 30 anni in cui le prime comunità cristiane hanno elaborato in forme ancora orali il materiale che poi confluirà nelle fonti scritte e quindi nei vangeli.
Questa ricerca dei 30 anni di attività orale delle prime comunità si chiama in termini tecnici
Formgeschichte, storia delle forme preletterarie e orali che ha assunto il materiale evangelico riguardante Gesù. Studia come si è costituita la forma del racconto miracoloso, la forma del racconto di guarigione, la forma della passione di Gesù, etc.

Si diceva che queste forme erano state ideate dalla comunità cristiana primitiva dal nulla ritenendo che Gesù fosse praticamente perduto. Si pensava che la comunità cristiana primitiva avesse costruito l'oggetto della sua fede, e quindi anche il materiale evangelico, sulla base delle sue esigenze spirituali. La comunità primitiva non sarebbe stata certo capace di creare una grande letteratura, ma una piccola letteratura sì, ossia piccole forme narrative o di detti che messi insieme hanno costituito la grande letteratura evangelica. I vangeli sarebbero quindi, in sostanza, l'espressione scritta dell'attività creatrice delle prime comunità cristiane e il Gesù storico sarebbe andato perduto. Questo risale agli studi degli anni 20 del nostro secolo di Bultmann, Schmidt, Alberts, Pibelius.

Negli anni 40 e 50, subito dopo la guerra, studi ulteriori hanno mostrato che nei nostri vangeli non ci sono soltanto le forme orali che si riteneva fossero state create dalla comunità cristiana primitiva, ma anche la mano degli autori letterati (Matteo, Marco e Luca sono nomi un po’ artificiali, non rappresentano gli autori effettivi) che hanno lasciato una larga traccia.
Se infatti si analizza il testo si nota una composizione letteraria molto compatta, come ad es. il primo vangelo. Matteo ha preso il materiale di Marco, praticamente quasi tutto, poi il materiale della fonte Q e quello di altre tradizioni ed ha dato ad essi una forma molto compatta, creando delle grandi unità. Basti pensare alle cinque grandi unità discorsive di Gesù, i cosiddetti discorsi della montagna (capp. 5-7), del discepolato (cap. 18), della missione (cap. 10), quelli parabolici (cap. 13) ed escatologici (capp. 24-25). In essi l'autore ha composto, secondo criteri tematici, grandi unità servendosi del materiale a disposizione.

Marco ha dato al suo vangelo, per mezzo della scelta e composizione del materiale a disposizione, un orientamento teologico basato sul segreto messianico. Vuole mostrare che Gesù è un messia, un figlio di Dio del tutto originale, paradossale, controcorrente, presenta dunque Gesù che si mostra nella storia, ma nessuno lo capisce. Lo intendono come un messia politico, un figlio potente di Dio, etc., in realtà il momento della verità avviene nella morte, sulla croce. Sulla croce, dice Marco, si vede in che senso Gesù è figlio di Dio.
Il mondo allora era inflazionato di figli di Dio ed il problema era precisare in che senso Gesù lo fosse. Marco ha allora costruito il suo vangelo sulla base del segreto messianico, Gesù prima parla a quelli che sono presenti e poi raccomanda loro di non dire niente a nessuno. È questo un espediente letterario per dire che non è ancora il momento della rivelazione di Gesù come figlio di Dio.
Fare la storia redazionale dell'autore che ha dato forma al materiale a disposizione secondo suoi schemi molto personali e teologici viene chiamato
Redaktionsgeschichte.

Il terzo momento di questa ricerca stratigrafica è avvenuto tra la fine degli anni 50 e gli anni 60. Iniziatore è stato E. Kasemann, grande discepolo di Bultmann. Il risultato di questa ricerca è che nei vangeli non ci sono soltanto la mano e l'impronta della comunità cristiana primitiva che aveva creato le forme del dire e del narrare e la mano abbastanza specifica degli evangelisti, ma c'è anche un fondo più antico che risale oltre, a Gesù di Nazareth.
È nata allora la branca della ricerca della
Traditionsgeschichte che fa la storia dei testi andando indietro, passando attraverso il lavoro dell'evangelista, della comunità cristiana primitiva ed arrivando alla radice del movimento. Il criterio è guardare nel materiale evangelico quello che vi è di assolutamente originale rispetto al mondo giudaico in cui Gesù è vissuto e rispetto alla comunità cristiana primitiva, ciò che non rientra né nell'uno né nell'altro si suppone che sia di Gesù.



3. Come Gesù di Nazareth si è presentato sulla scena palestinese al tempo di Tiberio (circa l'anno 30)?

Posso fare solo un elenco delle immagini che Gesù ha dato di sé, dato il poco tempo a disposizione.
Si noti che le immagini che Gesù ha dato di sé si spiegano all'interno della cultura ebraica del tempo, praticamente Gesù non è uscito dall'ambito culturale della tradizione vetero-testamentaria, cioè della Bibbia ebraica. Quindi quando Gesù si è offerto sulla scena ed ha presentato sé stesso, ha dato di sé immagini collegate culturalmente con il mondo giudaico.

Una
prima immagine, nemmeno molto originale, è quella del taumaturgo. Vi erano a quel tempo molti altri taumaturghi o terapeuti o guaritori (a proposito di guarigioni ci sarebbe un lunghissimo discorso da fare su come si è andato strutturando il racconto miracoloso, ma non c'è tempo). Nei vangeli sono narrati una trentina di guarigioni che Gesù ha operato come uno dei taumaturghi del suo tempo. I cosiddetti suoi miracoli sono stati in realtà delle guarigioni. Ci sono per la verità anche due o tre resurrezioni che sono piuttosto frutto di una evoluzione che ha ingrandito il fatto, di un malato molto grave si narra che è morto, la guarigione diventa così una resurrezione. La resurrezione di Lazzaro nel vangelo di Giovanni rientra invece in un quadro teologico preciso di confessione che Gesù è la resurrezione e la vita, su cui adesso non possiamo soffermarci.

Una
seconda immagine, molto vicina alla precedente, è quella dell'esorcista. A quel tempo vi erano molti esorcisti, tant'è vero che Gesù, quando viene attaccato dai suoi avversari, si paragona agli altri esorcisti che stavano in mezzo a loro e si chiede perché solo lui viene attaccato. Un esorcista era allora un guaritore di indemoniati, noi diremmo un terapeuta di malati psichici. Nella cultura del tempo infatti le malattie più sorprendenti e strane venivano attribuite al demonio.

Una
terza immagine, questa abbastanza abituale nel mondo giudaico del tempo, è quella di un sapiente, di un maestro di vita. Nel cap. 14 di Luca, Gesù sta osservando ad un grande pranzo gli invitati che arrivano e cercano di occupare i primi posti. Arriva poi il padrone e fa tornare indietro alcuni che avevano occupato i primi posti e fa venire avanti altri invitati molto importanti che occupavano gli ultimi posti. Gesù in tal caso si comporta come un maestro di vita ed infatti dice alla fine: quando sei invitato occupa gli ultimi posti in modo che quando verrà il padrone che ti ha invitato e ti dirà di salire più avanti tu avrai il plauso da parte di tutti. Se invece occupi i primi posti e sei invitato ad occupare gli ultimi verrai svergognato. Come dire: comportati bene nella società. Ecco l'insegnamento tipico di un maestro di vita.
Di questi motivi che facevano parte della sapienza popolare ce ne sono molti nei vangeli. Per es. Gesù che parla dei beni che il ricco accumula (i ricchi a quel tempo erano i latifondisti). Il ricco costruisce grandi granai ed alla fine esclama: “ora, anima mia, riposati perché non dovrai più preoccuparti vita natural durante”. Gesù, da maestro di vita, di sapienza, dice: “stolto (tipico epiteto della letteratura sapienziale), questa notte tu morirai e quello che hai accumulato sarà lasciato ai tuoi eredi”.

Una
quarta immagine che Gesù ha dato di sé, e qui cominciano ad entrare alcuni elementi originali, è quella di un rabbi, ossia di un maestro. Ma non un rabbi accademico (per diventare rabbi a quel tempo uno doveva studiare tutta la legge, le tradizioni, andare alla scuola di un grande maestro, imparare a memoria tante cose). Gesù non è stato un maestro uscito dalle scuole, ma certamente si è comportato come un rabbi.
In che senso? Innanzitutto Gesù è intervenuto sulla legge mosaica, sulle sue prescrizioni. Ad es. nel discorso della montagna Matteo ha raccolto moltissimo materiale per evidenziare questo aspetto particolare di Gesù, un rabbi interprete della legge mosaica con un tocco di originalità.
Nelle antitesi del cap. 5 abbiamo la formula ricorrente:
«è stato detto, ma io vi dico». Anche se c'è lo zampino di Matteo, soprattutto nello schema rigido della contrapposizione, il materiale risale certamente in gran parte a Gesù e dimostra la sua attività rabbinica.

Un secondo aspetto rabbinico di Gesù è che si è circondato di discepoli. I discepoli facevano vita in comune con i rabbi, seguivano il loro esempio ed imparavano tutto ciò che questi sapevano. Anche Gesù si è attorniato di un gruppo di discepoli molto stretti che costituivano il cerchio più vicino. Essi avevano lasciato casa, lavoro e famiglia per fare vita comune con lui, una vita randagia e dovevano anche essere mantenuti perché non lavoravano più. Altri che costituivano un cerchio più vasto, aderivano a lui ed al suo messaggio, ma continuavano la loro vita di prima. Infine il terzo cerchio era formato da una folla un po’ indistinta.
La differenza e l'originalità del discepolato di Gesù era il fatto che, a differenza delle scuole rabbiniche che avevano al centro la legge, il punto unificante dei discepoli di Gesù era seguire lui (
akolouthein), venire dietro a lui (opiso), due espressioni plastiche per indicare il discepolato. Quindi essenziale era il legame con la persona di Gesù, questo è l'elemento originale in un quadro tradizionale.

Una
quinta immagine che Gesù ha dato di sé è quella del parabolista. Nella Bibbia ebraica e nel giudaismo del tempo ci sono attestate poche parabole, pochi si erano cimentati in questa forma del dire. Gesù è stato invece un grande maestro del racconto parabolico. Abbiamo venti, trenta sue parabole. Nel vangelo di Giovanni, scritto 20-30 anni dopo gli altri vangeli, non ce ne sono più. Giovanni ha perduto completamente il genere parabolico di Gesù (Giovanni l'evangelista non è certamente Giovanni il discepolo di Gesù). In Giovanni ci sono delle allegorie, come quella del pastore e delle pecore, ma non le parabole. I sinottici invece sono riusciti a conservarle, anche se ne hanno dato una interpretazione moralistica. Gesù con le parabole apriva orizzonti molto ampi, collegati con il lieto annuncio che era venuto a portare.

L’
ultima immagine, la più importante che Gesù ha dato di sé, è quella dell’evangelista della regalità di Dio (dico regalità invece di regno perché quest’ultimo vocabolo può essere soggetto a delle connotazioni svianti), ossia evangelista di Dio re, simbolo religioso di giustizia, di una giustizia partigiana, ossia a favore di quelli che giustizia non riuscivano ad avere.
Il tema della regalità di Dio (in ebraico si usa la parola femminile
malkut, in aramaico malkuta ed in greco basileia), ossia Dio che si fa re, si trova nella Bibbia ebraica, ad es. nel Deutero lsaia cap. 53, nel senso che libera e rende giustizia al popolo in esilio: «Come sono belli i piedi dell'evangelizzatore che viene a Gerusalemme (era ridotta a un cumulo di rovine), ad annunciar la lieta notizia che Dio diventa re».

Questo motivo, o simbolo religioso, era dunque presente nella tradizione giudaica, ma non aveva un grandissimo rilievo. Al tempo di Gesù il motivo si poneva soprattutto a livello escatologico, ossia proiettato nella lontana fine della storia.
Gesù ha afferrato questo motivo della tradizione e vi si è impegnato con diverse iniziative.
La prima è che egli ha proclamato il lieto annuncio che la regalità di Dio si è fatta prossima dal lontano futuro ultimo, si è avvicinata alla storia e resta vicino ad essa (
Mc 1,15; Mt 4,17). La sottolineatura è abbastanza particolare: il simbolo religioso confinato in un lontano futuro viene usato da Gesù facendolo avvicinare alla storia.

La seconda caratteristica è riportata nella prima beatitudine testimoniata da
Mt 5,3 e da Lc 6,20: «Beati i poveri». In Matteo c'è «Beati i poveri di spirito», ma “di spirito” è chiaramente un'aggiunta redazionale dell'evangelista. I poveri erano quelli che non avevano peso politico e sociale per far valere la loro giusta causa, erano quindi i destinatari della giustizia del re, mentre i forti ricorrevano al tribunale e riuscivano ad avere una giustizia che non di rado sanciva le loro prepotenze. Allora il senso è: “lo mi congratulo (nel senso di essere affettivamente partecipe) con voi poveri, perché vostra è la regalità di Dio", ossia perché la regalità di Dio sta per realizzarsi a vostro favore.
Nella beatitudine la regalità di Dio non è una realtà dell'aldilà o della fine della storia, è una realtà che viene promessa ai poveri, non perché sono i più buoni, ma perché ne sono i beneficiari.

Terza caratteristica di Gesù come evangelista del regno è che non solo ha annunciato la regalità di Dio che ormai batte alle porte della storia, non solo si è congratulato, cioè ha solidarizzato affettivamente con i beneficiari di tale regalità, ma ha ne ha compiuto anche alcuni segni concreti.
La sua attività di esorcista, ossia di guaritore di indemoniati, di malati psichici, è stata da lui intesa all'interno di questo simbolo religioso. Dio diventa re quando Gesù guarisce i malati fisici e psichici, oltre quelli spirituali (quest'ultimo aspetto che riguarda la solidarietà di Gesù con i peccatori pubblici richiede una trattazione più esauriente). Quando Gesù compiva questi segni, i suoi avversari gli dicevano che era un uomo di Satana. Gesù rispondeva innanzitutto che altri esorcisti lo facevano in nome di Dio e non si spiegava perché solo lui dovesse farlo in nome di Satana, ed in secondo luogo che, se la loro tesi fosse stata veritiera, avrebbe significato che combatteva Satana in nome dello stesso Satana e ciò era impossibile. Il fatto che egli compie quelle guarigioni con il dito di Dio (Matteo sostituisce il “dito di Dio” con “lo spirito, la potenza di Dio”, Luca invece, che è più fedele alla tradizione, scrive “con il dito di Dio”, ossia con la forza di Dio), vuol dire che la regalità di Dio è venuta.
La regalità di Dio non solo si è avvicinata alla storia, ma almeno in modo germinale, in modo esemplificativo, è entrata nella storia attraverso la mediazione storica di Gesù di Nazareth, una mediazione da terapeuta. In questo si vede l'originalità di Gesù che inserisce la sua azione, quindi la sua persona, dentro questo grande quadro del simbolo religioso della regalità di Dio, della giustizia di Dio resa a quelli che non riescono ad averla. Basta leggere
Lc 11,20 e Mt 12,28.

Infine Gesù ha coniugato il motivo della regalità di Dio anche al futuro.
Nel Padre Nostro la prima invocazione è: “venga presto (l'avverbio presto dà forza al testo) la tua regalità”. Gesù vuol significare: “certo la regalità di Dio si è manifestata, però solo in alcuni e quindi in modo del tutto parziale, mentre io desidero che essa venga a trasformare la storia ed a rendere giustizia completa a tutti”. Gesù ha sognato una regalità di Dio completa, perfetta, contenuta nei grandi sogni della tradizione escatologica ed apocalittica, ha sognato la realizzazione totale a breve scadenza di questa regalità di Dio, re della storia. Ma l'elemento originale è la sua mediazione storica. Gesù è un evangelista che non solo annuncia, ma anticipa parzialmente nella storia la regalità di Dio ed insegna ai suoi a pregare per tale realizzazione.


In conclusione, Gesù non ha applicato a sé, né ha accettato i titoli gloriosi di messia, figlio di Dio etc, quando questi si trovano nei vangeli sono dovuti a sviluppi successivi, non risalgono al Gesù di Nazareth. Gesù non ha annunciato sé stesso, è stato un ebreo a tutti gli effetti, nella linea dei profeti dell’AT si è messo a servizio della causa del Dio di grazia, del Dio di liberazione e di puro amore.

L'identità di Gesù è un'identità profetico-giudaica. Si è presentato nella figura di un profeta giudaico secondo la Bibbia ebraica, con tratti originali, con una certa soggettività creativa. È stato infatti un interprete autorevole della legge mosaica, è intervenuto per abrogare le prescrizioni della Bibbia ebraica sul puro e l’impuro contenute nel Levitico, come lavarsi le mani, non toccare i cadaveri, la donna in stato mestruale, etc. Con il simbolo del puro e dell'impuro si riteneva che le forze della vita e della morte fossero incarnate in cose molto concrete, le prescrizioni sul puro e sull'impuro erano alla base dei sacrifici di purificazione del tempio, buona parte del culto gerosolomitano era costruito sul loro significato. Le persone abbandonavano l'area delle forze della morte ed andavano al tempio, nell'area della presenza di Dio, quindi delle forze della vita ed uscivano protette contro le forze della morte.
Gesù con una parola sola elimina tutto questo settore della legge ebraica (
Mc 7,15): non ciò che entra dalla bocca dell'uomo che va poi nel suo ventre ed alla fine nella latrina getta l'uomo nelle braccia della morte. Non le realtà esterne, i tabù, etc., ma ciò che esce dall'uomo, che nella tradizione cristiana è poi diventato ciò che esce dal cuore dell'uomo, contamina l'uomo. Le forze della vita e della morte non sono esterne a noi, ma hanno la radice dentro di noi. Tale detto, oltre ad essere molto bello e straordinario, indica anche l'originalità di Gesù.

Circa il tempio, che era una istituzione sacra, c'è un'espressione di Gesù straordinaria:
«lo sono più grande del tempio» (Mt 12,6). Gesù ha avuto momenti di grande autoaffermazione.
Un altro detto originale è ciò che dice ad un candidato al discepolato:
«Lascia che i morti seppelliscano i morti, tu vieni e seguimi».
Peso decisivo ha il confessarlo o negarlo nella storia:
«Chi avrà confessato me nella storia, il Figlio dell'Uomo (diverso da lui) lo confesserà alla fine, e chi avrà rinnegato me nella storia, il giudice finale lo rinnegherà». Questo detto si trova in Mc 10,32 ed in Lc 12,8 ed anche i critici più radicali riconoscono che appartiene a Gesù. Egli si colloca al centro del destino degli uomini perché le scelte storiche di accettazione o rifiuto nei suoi confronti hanno un peso di vita o di morte .
Un'altra sfaccettatura infine della sua identità profetica è aver vissuto Dio come Padre,
Abbà (Mc 14,36).
Questo quindi è Gesù: un giudeo del suo tempo, un profeta con qualche tratto di originalità.



4. Che cosa hanno detto di lui i primi credenti?

La morte di Gesù segna la fine della fede prepasquale. Nel cap. 24,15 di Luca i discepoli di Emmaus si trovano accanto uno strano pellegrino sulla strada di ritorno a Gerusalemme e parlando coniugano il verbo della speranza al passato: noi speravamo che fosse lui, ma ormai è finito in croce. È il crollo della fede prepasquale, la morte drammatica in croce aveva spazzato via ogni illusione.
Avviene però in poco tempo la nascita della fede postpasquale in quelle stesse persone che avevano abbandonato la fede prepasquale e che erano ritornati in Galilea nelle loro terre. Nell'arco di alcuni mesi circa, da una delusione così spaventosa nasce una nuova credenza. Tutto ciò è presente nei testi.

Ma come è avvenuta la nascita di questa nuova credenza in Gesù?
È nata dalle apparizioni pasquali. Ma i racconti evangelici delle apparizioni da noi conosciuti in realtà sono un elemento secondario, cioè vengono successivamente. Gli scritti di Paolo, e precisamente le sue sette lettere datate 50-55 d.C., sono i primi scritti cristiani antecedenti alla fonte Q e al vangelo di Marco; la prima lettera ai Tessalonicesi è la più antica e risale al 50 d.C. Negli scritti di Paolo c'è solo la menzione del fatto delle apparizioni. In
1 Cor 5,3-5 è riportato questo credo della comunità cristiana degli anni 40: «Noi crediamo che Gesù è morto per i nostri peccati secondo le scritture (primo articolo), che fu sepolto (secondo articolo), che è stato resuscitato da Dio il terzo giorno (terzo articolo) e che è apparso a Cefa ed ai dodici»

La credenza nella resurrezione di Gesù è maturata in quei mesi interiormente nei discepoli, disillusi da tutto, alla luce dei ricordi del Nazareno. I discepoli hanno sentito nascere dentro di loro una nuova fede, fiducia. C'è stato un guardare indietro a Gesù, riconoscerlo e vederlo in una nuova luce e soprattutto sperimentarlo presente nella loro vita al punto che lasciano di nuovo la Galilea, si riuniscono, vengono a Gerusalemme. Se noi siamo cambiati, dicono, vuoi dire che lui è ancora vivo, vivo più di prima quando non ci aveva convinti completamente.
Questa loro esperienza viene espressa con la categoria teologica interpretativa della resurrezione: lui è stato resuscitato!

La resurrezione non equivale alla vivificazione del cadavere, non è legata alla tomba vuota e non è legata nemmeno ai racconti delle apparizioni. La resurrezione è una credenza che fa riferimento a Cristo morto ed entrato nella gloria di Dio, vuol dire che sono così cominciati i tempi ultimi della salvezza definitiva.
La resurrezione è una fede suscitata negli stessi discepoli dai ricordi dalla loro esistenza con il Nazareno e della loro nuova esperienza che ha visto rinascere dentro di loro una speranza, una nuova fede. Allora dicono: egli è presente, non è finito con la morte, è stato assunto da Dio nella sua gloria. La prima confessione di fede è questa:
Dio lo ha resuscitato e lo ha fatto sedere alla sua destra, cioè lo ha intronizzato. L'intronizzazione è una categoria politica e si riferisce al grande re che intronizza il figlio come successore e lo fa sedere alla sua destra.
La resurrezione è una categoria teologica perché è interpretativa di un processo profondo. Dire che Gesù è risorto non vuoi dire soltanto che è vivo, ma che è vivo come Colui che è il principio della vita. Nasce da qui la convinzione che egli è il Salvatore.
C'era già questa attesa della resurrezione tra i giudei del tempo, ma in Gesù i discepoli riconoscono che la salvezza si introduce nella storia perché lui per primo è stato liberato dalla morte e posto nella gloria di Dio, fatto partecipe della sua regalità e della sua capacità salvifica. Quindi in lui ci sono possibilità nuove di salvezza per tutti gli uomini.

I vari racconti nati successivamente sulla base della nuova credenza in Gesù Cristo fanno parte di alcuni generi particolari. La scoperta della tomba vuota, i racconti dell'apparizione del risorto, il risorto che appare con i chiodi, che mangia, che si fa toccare, rappresentano un'escalation apologetico a difesa della propria credenza.
La resurrezione è oggetto della fede, non è un criterio per poter credere a qualcosa, è ciò che si crede. Questa fede estrema è nata dalla disillusione, dai ricordi e dal rifiorire della speranza nelle nuove possibilità di salvezza.

Questa fede postpasquale, o convinzione profonda, assume poi determinate espressioni con appropriati schemi teologici di comprensione dell'identità di Gesù resuscitato.
Egli è il messia atteso dal mondo giudaico, è il Figlio dell'Uomo, è il giudice finale dell'apocalittica giudaica. Mentre per Gesù il Figlio dell'Uomo è un altro che giudicherà se uno lo ha confessato o lo ha negato, adesso Gesù viene identificato con il Figlio dell'Uomo. Gesù non appartiene solo al passato, solo al presente come resuscitato che sta alla destra di Dio, partecipe del suo potere salvifico, ma occupa il futuro, la fine, è il giudice secondo lo schema accennato. Non solo, Gesù è anche il servo sofferente dei canti di Isaia, innocente ucciso dai malfattori e perciò glorificato da Dio.

Sono tutti schemi teologici che assumono motivi della tradizione religiosa ebraica e li conglobano su di lui. Gesù è il profeta rifiutato dagli uomini, ma giustificato da Dio, ossia Dio gli ha reso giustizia, secondo
1 Tim 3,6, un inno primitivo della comunità. La regalità di Dio da lui annunciata è esercitata su di lui. Innocente è stato messo in croce, ma Dio lo ha resuscitato. Dio ha detto che lui ha ragione e che i suoi giustizieri hanno torto, quindi le sue parole sono approvate da Dio e la sua vita è un paradigma che esprime esattamente il volto di Dio. Altri gli hanno dato torto, ma Dio gli ha dato ragione.

Quanto sopra appartiene alla tradizione giudaica, ma quando l'annuncio cristiano si diffonde nel mondo greco si preferisce attribuire a Gesù il titolo di figlio di Dio. Anche questo titolo si trovava nella tradizione giudaica, per es. il re era ritenuto figlio di Dio, ma ora i credenti confessano che lui è il figlio di Dio in senso esclusivo, tant'è vero che nel vangelo di Giovanni ciò viene espresso con due parole greche, egli è il figlio (
yiòs) mentre noi siamo i figli (tekna, un altro vocabolo) a significare che la sua è una figliolanza divina diversa dalla nostra.
Comincia così il processo di glorificazione e di divinizzazione del risorto. Lui è il figlio di Dio mandato dal Padre in terra e qui il punto di partenza è segnato dalle confessioni di Pietro e del centurione.
In
Gal 4,4 Paolo, facendosi portavoce della tradizione della comunità cristiana primitiva, confessa: «Quando vennero i tempi ultimi Dio mandò il suo figlio nato da una donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge». Dio manda sulla terra per l'opera di salvezza il suo figlio unico.

Per Giovanni è il Logos eterno. In principio c'era
ho logos ossia “la parola” (non una parola di Dio) e la parola di Dio era rivolta a Dio e la parola era di dimensione divina. Dio resta l'unico, Gesù è il Logos di questo Dio unico, il Logos eterno che si incarna nella storia.
Si noti come Gesù di Nazareth, la cui esistenza storica è stata ristretta nello spazio di pochi anni, sfonda il futuro, ma anche il passato ed arriva all'eternità di Dio.

Lui è il Signore, dice Paolo:
Kyrios, titolo che nella Bibbia ebraica era attribuito a JHWH. Il mondo greco era pieno di Kyrioi, che erano divinità come Serapide (di cui c'è un tempietto a Villa Borghese a Roma), un dio guaritore che in molti testi del tempo viene chiamato il Kyrios Serapide. Oppure Isis, divinità di origine egiziana che ha invaso prima Roma e poi Corinto e tutto il mondo occidentale con i relativi misteri, che era chiamata la Kyria, ossia la Signora.
Anche Gesù fu chiamato
Kyrios dalla Chiesa, Paolo usa moltissimo questo titolo divino.

Avviene così il processo di glorificazione e di divinizzazione di Gesù morto e risorto, un manto divino viene gettato sulle sue spalle. Questo processo nella Bibbia cristiana resta sostanzialmente contenuto, solo in Giovanni ci sono alcuni eccessi, come la confessione del discepolo incredulo
«Tu sei mio Signore e mio Dio» e nei testi più tardivi dove Gesù è chiamato soter (il salvatore), come Adriano era soter tou kosmou (il salvatore del mondo). Il processo tuttavia è ancora contenuto perché la percezione del Cristo risorto è ancora parecchio collegata all'identità di Gesù di Nazareth, non si sono perduti i contatti con il Gesù di Nazareth.

Nei secoli successivi si arriverà invece alla confessione di Gesù come “vero Dio da Dio vero”. Nel credo del Concilio costantinopolitano, Cristo è posto come seconda persona della Trinità divina, consustanziale al Padre. Questa glorificazione progressiva ed amplificativa ha portato all'allontanamento, se non alla perdita dello spessore umano e storico di Gesù, rendendo difficoltosa, per non dire impossibile, l’identificazione con il Gesù di Nazareth che confessava di non sapere l'ora della fine del mondo.
Questo processo è avvenuto per influsso del mondo culturale greco, pieno di dei. In questo quadro culturale l'originalità di Gesù si concentrava sul fatto che egli era il crocefisso, e ciò scombussolava enormemente le menti, tant'è vero che in un graffito che risale a quel periodo, scoperto nel Palatino, c'è un crocifisso con una testa d'asino ed una iscrizione in greco sotto che recita così: “Alessameno adora Dio”. AIessameno viene preso in giro in quanto adora un Dio crocefisso, rappresentato con una testa d'asino.
I titoli gloriosi c'erano tutti, c'era però anche questo riferimento al crocefisso che manteneva l'ancoraggio al Gesù di Nazareth.

Tale processo, fondamentalmente dovuto ai pagano-cristiani ai quali anche noi apparteniamo, si è sviluppato progressivamente. Essi andavano avanti con la loro fede mentre gli ebioniti, giudei-tradizionalisti, un'ala minoritaria di cristiani attaccati all'idea del Dio unico e di Gesù suo servo, non riuscivano ad accettare un Cristo così glorioso e furono man mano emarginati ed alla fine esclusi dalla grande Chiesa.
Rimane dunque il cammino trionfante fatto fare alla cristologia che si esprime sempre più con toni gloriosi. Il prezzo è aver messo un po’ tra parentesi la storicità e la terrestrità di Gesù di Nazareth e aver eliminato dalla Chiesa gli ebioniti, l'ala tradizionalista che si riferiva a forme teologiche molto semplici legate al Gesù di Nazareth. Egli è il servo di Dio che i malvagi hanno messo in croce e a cui Dio invece ha dato ragione resuscitandolo ed accogliendolo presso di Sé e che verrà alla fine come Figlio dell'Uomo sulle nubi del cielo. Vi è stato quindi un grande passaggio avvenuto in un quadro molto complesso e molto drammatico e che suscita tanti interrogativi.



DIBATTITO



1. Messori ha scritto vari libri su Gesù tra cui “Ipotesi su Gesù”. Se lei lo ha letto, c'è qualcosa che sul piano interpretativo non accetta, oppure accetta tutto anche se Messori non è teologo ma giornalista? Quello che Messori ha scritto rientra tuttavia nella ortodossia cattolica. Può fare lei una distinzione tra quello che è giusto o sbagliato in Messori?

I libri di Messori dal punto di vista metodologico sono fuori tempo perché sono un approccio apologetico al problema, tesi alla ricerca dei motivi che dimostrano la nostra fede in Gesù, posti a difesa della nostra fede di fronte agli increduli. Questo approccio di tipo apologetico è stato condotto dai cattolici anche nelle università pontificie fino agli anni 50 e poi abbandonato per sempre. Anche nell'ultimo libro scritto sulla morte di Gesù, Messori va in cerca di prove per dire che la fede cristiana è fondata storicamente.
Ma come si può fondare storicamente la fede nel risorto? La fede cristiana nasce il mattino di Pasqua con la credenza nella resurrezione: Dio ha resuscitato il crocifisso. Prima non c'era la fede cristiana. Gesù non è stato un cristiano, ma un profeta ebraico. La fede non si prova, si testimonia. Dato che dietro il risorto c'è il Gesù di Nazareth, l'oggetto della nostra fede che è Cristo risorto è identico a Gesù di Nazareth, è la stessa persona sia pure trasfigurata. Ma non è una prova della fede.
C'è un fatto nuovo tra Gesù di Nazareth ed il credente ed è la resurrezione del primo. Avendo creduto alla resurrezione i discepoli hanno amplificato il ruolo ed innalzato l'identità di Gesù, ma è lo stesso Gesù tant'è vero che Paolo non ha mai negato che Gesù di Nazareth fosse andato sulla croce, come invece hanno poi fatto gli gnostici. No, il Figlio di Dio è il crocifisso e non per niente nei racconti molto belli delle apparizioni appare con i segni dei chiodi. Ossia non ha gettato alle spalle la morte, si porta dietro la sua storia.
In breve i libri di Messori, dal punto di vista teologico, sono a mio avviso espressione di un ritardo culturale.


2. Lei ci parla di categoria teologica e non fenomenologica. Ciò va benissimo dopo la Pentecoste considerandola non come una cronaca, ma probabilmente come una grande esperienza collettiva. La Pentecoste quindi scatena un modo nuovo di interpretare i ricordi.
Mi pongo però un problema collegato anche a ciò che ho letto di Hans Küng. Tra il mattino di Pasqua e quello della Pentecoste è possibile che ci siano state solo delle esperienze interiori od anche soggettive. L'uomo è fatto di corpo, ma anche di fantasia e possono essere state colpite la psiche ed i sensi, indipendentemente dalla oggettività o meno dei fenomeni. Hans Küng interpreta tali fenomeni in maniera soggettiva, ma li pone come un qualcosa di particolare. Mi sembra difficile sostenere una fede sulla resurrezione basata solo sui ricordi.


Non vi sono solo i ricordi. Lei ha accennato ad un elemento che anch’io avrei dovuto dire, cioè le esperienze carismatiche, ma bisognerebbe dire ancora di più che c'è stata una vita nuova tra i discepoli. Questi erano dei poveracci, degli uomini finiti e se ne erano tornati alle loro case ed ai loro mestieri, ma ad un certo punto si riapre dentro di loro la speranza, cominciano a riunirsi insieme e ad interrogarsi sul perché essi stessi stanno cambiando, sul perché riescono a capire le parole di Gesù che prima erano oscure. Cominciano così ad intravvedere che la morte provocatoria di Gesù era la morte del giusto di Dio di cui c'erano stati tanti esempi.
Tutto questo lavorio, e soprattutto le manifestazioni carismatiche dello Spirito che erano ritenute il segno dei tempi ultimi, hanno fatto nascere in loro la convinzione che Gesù fosse presente ed operante, che non era finito con la sua morte. Allora hanno interpretato questa presenza vivificante di Gesù dentro di loro con la categoria teologica della resurrezione: Egli è il risorto, con lui sono arrivati i tempi nuovi, i tempi della salvezza.

Ed il problema del cadavere di Gesù?

La resurrezione di Gesù non si riduce alla vivificazione del cadavere. Se si accetta la storicità del miracolo della resurrezione di Lazzaro, bisogna dire che il cadavere di Lazzaro è stato vivificato, ma poi Lazzaro è morto definitivamente.
La resurrezione non significa che Gesù ha ripreso la stessa vita di prima, significa che è entrato nel mondo di Dio, nel mondo dei tempi ultimi, dei tempi escatologici. Proprio perché ha assunto una vita nuova è entrato nel mondo dello Spirito. La resurrezione, che era l'evento specificativo dei tempi ultimi, si è realizzata in lui e si realizzerà in noi. È un processo interpretativo, non pensiamo che la resurrezione di Gesù significhi che sia stato visto uscire dal sepolcro o sia stato visto in qualche altro posto. Questi sono racconti apologetici di difesa della propria intuizione.
All’origine della credenza della resurrezione sta un'esperienza nuova interpretata come effetto della presenza di Gesù di Nazareth. La parola che i discepoli risentono dentro di loro ha una connotazione così nuova che dicono: ecco Cristo la pronuncia di nuovo a noi oggi e la pronuncia in modo nuovo, quindi egli è vivo.


3. Ho sentito qui delle cose nuove. La parte del vangelo che riguarda il giudizio finale e le altre cose dette sono un'ideazione degli evangelisti o parole autentiche di Gesù? Per me è difficile conciliare la fede nel Signore con queste immagini violente.

II motivo della gheenna di fuoco è di origine gesuana. Non c'è dubbio che Gesù lo condividesse con il suo tempo, con i cristiani che sono venuti dopo di lui. Il tema è stato già trattato la volta precedente. È uno schema culturale in cui l'immagine di Dio è stata interpretata alla luce di un giudice sanzionatore funzionale al buon andamento della convivenza umana, utile a tenere a bada i malvagi ed i violenti. Poi ci sono altre immagini di Dio in cui appaiono altri schemi, ma di questo si è parlato l'altra volta.

C'è una perenne contraddizione in tutti i credenti in quanto la violenza oggi non la vogliamo più. È inaccettabile la violenza per una persona che crede in Cristo. Si pone un problema teologico perché la fede non è legata ad un processo fenomenologico, ma ad aspetti teologici. Si crede per fede, ma poi bisogna analizzare i contenuti della fede, come ha fatto Messori che è andato a ricercare tutti i papiri ed ha scritto libri su libri perfino su Ponzio Pilato ed alla fine ha aderito ai vangeli. Egli ha trovato uno strato umano di Gesù. Ed il divino com'è venuto fuori?

Gesù non è il Figlio di Dio nonostante sia questo uomo, egli è il Figlio di Dio proprio perché è questo uomo, morto e resuscitato. La prima confessione di fede: “Tu sei il Figlio di Dio” vuoi dire: “Tu sei quest’uomo che sta dentro il cammino della salvezza degli uomini”.
Quanto alla violenza, essa è uno schema culturale di cui anche Gesù, essendo uomo del suo tempo, era debitore. Non è che si voglia smitizzare, il problema è di fare una lettura critica dei testi e soprattutto di tener conto che i simboli religiosi sono culturalmente situati.


4. Lei ha detto che Gesù non si è dato dei titoli, non ha annunciato se stesso, etc. Ci sono però alcuni detti in cui Gesù sorpassa questa dimensione quando dice: “lo ed il Padre siamo una cosa sola”, “Chi vede me, vede il Padre”. E poi, il problema del sabato e quello di rimettere i peccati?

II perdono dei peccati è un elemento che risale a Gesù e lei ha fatto bene a ricordarlo. “lo ed il Padre siamo una cosa sola” è Giovanni che lo dice. Ho già detto che il vangelo di Giovanni è una grande riflessione teologica. Bisogna fare attenzione alla stratificazione del materiale contenuto nei testi: quello che è di Gesù, quello che è della comunità cristiana primitiva e quello che è dell'evangelista.

Ma viene riportato di lui non solo la figura di guaritore e taumaturgo, ma anche di uomo che si fa Dio quando dice “lo ed il Padre siamo una cosa sola”.

Ma no, è stato Giovanni a metterglielo in bocca e non è stato Gesù a dirlo. Metodologicamente i vangeli si leggono in modo stratigrafico, non bisogna confondere gli strati altrimenti non si capisce più niente. È il Gesù di Giovanni non quello della storia che fa quell'autoproclamazione.


6. Lei ha detto che Gesù è un profeta giudaico con qualche tratto di originalità. Ho un po’ di perplessità non tanto rifacendomi alle parole di Gesù, ma pensando agli aspetti che sono stati messi in luce dal libro della Prof.ssa Ida Magli, presente qui questa sera, che aprono un orizzonte sul fare di Gesù straordinariamente originale.

Ho letto molto attentamente, anni fa, il libro di Ida Magli e mi è anche piaciuto. L'obiezione che farei è che il Gesù di questo libro è troppo originale, mentre io vedo un inserimento culturale di Gesù molto più profondo ed un suo debito più pesante al tempo ed alla cultura dell'epoca. Il libro di Ida Magli evidenzia le originalità di Gesù con qualche unilateralismo. lo ne ho indicato prima quattro o cinque, alcune delle quali sono anche straordinarie, come ad es. quando esprime la sua identità di profeta: “lo sono più grande del tempio”, nessun giudeo lo aveva mai detto prima. Oppure quando spazza via tutte le leggi sul puro e sull'impuro.

E sul problema del sabato?

Sul sabato è stato un po’ meno originale, anche se ha mostrato una certa libertà. In generale si può dire che mentre i rabbini dicevano: “questa legge di Mosè va interpretata così perché c'è quest'altra tradizione, l'altro rabbino ha detto ancora un'altra cosa etc.”, Gesù non stava a riferirsi alla tradizione: “è stato detto, ma io vi dico”, cioè metteva sul piatto della bilancia la sua autorità.

lo ho indicato quattro o cinque immagini di Gesù molto significative, però voglio riaffermare che egli si inquadra nel suo ambiente. Studi più recenti mostrano che al tempo di Gesù anche nell'ambiente giudaico si permettevano interpretazioni abbastanza libere della legge mosaica, quindi la libertà di Gesù avrebbe qualche imitatore od anche qualche predecessore. In ogni modo Gesù è sostanzialmente un profeta giudaico dal punto di vista culturale, ma a questa definizione si deve aggiungere che ha mostrato qualche originalità stupefacente. Ida Magli ha messo in rilievo l'atteggiamento molto originale di Gesù nei confronti delle donne, dei perduti, dei peccatori, etc. Ci sono senz'altro delle originalità stupefacenti, però molte di queste trovano già un avvio nell'ambiente giudaico.

C'è stato poi il processo di divinizzazione e di glorificazione, ma non manca di punti di aggancio con quel Gesù che ha detto: “lo sono più grande del tempio”, “I miei discepoli debbono lasciare ai morti di seppellire i morti e venire da me”. Ci sono certo delle continuità, però anche delle fratture, delle diversità perché i titoli gloriosi, per es. quello del Logos eterno, non sono stati certo richiesti o annunciati da Gesù. Gesù pensava che accanto a Dio eterno c'era la Sapienza di Dio, voleva anche essere un maestro di questa Sapienza, ma non ha mai pensato di essere la Sapienza di Dio, il Logos eterno di Dio, etc.
Devo dire che il processo di glorificazione successivo è solo in parte motivato dalla coscienza abbastanza singolare che Gesù ha avuto in alcuni momenti e dal fatto nuovo della resurrezione che Gesù non aveva ancora sperimentato. Dopo Gesù i discepoli sono giunti alla credenza nella resurrezione e su tale credenza si è fondato il processo successivo.


7. Gesù era un ebreo e così i suoi discepoli. Storicamente come si spiega che sia avvenuta una intuizione così forte da parte di Gesù che riuscì a dare in quel momento il tipo di risposta all'angoscia di morte che tutti gli uomini prima e dopo hanno?
E come si spiega che gli evangelisti per giustificare questa intuizione hanno dovuto portare a supporto la tomba vuota, la Maddalena che lo tocca con le sue mani, etc.?

Sul primo problema debbo dire che vive erano le attese del mondo di allora dove le religioni classiche erano in grande crisi, soppiantate dalla religione misterica che offriva risposte soddisfacenti promettendo l’immortalità dell'anima. In tale mondo il cristianesimo ha trovato un ambiente favorevole.
E poi va considerata la grande operazione teologica che ha fatto Paolo, il primo teologo capace di presentare Gesù di Nazareth, ebreo, in un ambiente greco-romano di diversa cultura e di viverlo lì a partire dalla fede originaria che aveva. La teologia di Paolo è riuscita ad inglobare le categorie culturali del mondo greco-romano e a dare un’immagine di Gesù Cristo risorto, di cui scandalizzava certamente la croce, ma che andava incontro ai grandi bisogni della società del tempo. Il Cristo glorioso, salvatore, dava la speranza.
Questi due motivi sono fondamentali per spiegare il processo avvenuto.

Quanto al secondo punto, i primi credenti esprimevano la loro credenza nella resurrezione con l'annuncio: “Lui è risorto”, questa era la loro testimonianza di parola e di vita. L'annuncio fu molto contestato nell'ambiente giudaico ed allora seguì l'apologetica che ha trionfato per secoli e secoli anche all'interno del NT.
Per poter mostrare che questa loro credenza non era campata in aria, ma era reale, di una realtà del mondo di Dio e dello Spirito e non di quella storica, fenomenologica, hanno elaborato i racconti, che si trovano solo in Luca e in Giovanni e non prima, in cui Gesù risorto viene toccato, mangia, etc. Tutto ciò per dire che la resurrezione è un evento reale. I racconti non vogliono dire che il risorto mangia, lo si vede, lo si tocca, etc. Il racconto dei discepoli di Emmaus in Luca è chiarissimo: sulla strada per Emmaus si accompagna a loro uno strano pellegrino che essi non riconoscono. Se Gesù si fosse presentato con le sembianze storiche, i discepoli lo avrebbero riconosciuto e così la Maddalena. Lo riconoscono nello spezzare il pane, cioè sotto il segno della cena del Signore, sotto il segno di un'esperienza sacramentale di amore fra di loro, lo riconoscono presente come colui che suscita l'amore.
Anche nei racconti più plateali si avverte che c'è una presenza ed assenza di Gesù. Egli è presente sotto la forma dello Spirito ed è assente sotto la forma del Gesù di Nazareth. Questa dialettica tra presenza ed assenza dice che la realtà della resurrezione, come evento che ha colto lui ed interessa noi, è un evento della sfera escatologica e della sfera transtorica, ossia della sfera di Dio.
La resurrezione non è un fatto storico. La credenza nella resurrezione dei primi discepoli è un fatto storico, tant'è vero che noi la percepiamo negli scritti, mentre non percepiamo la resurrezione. Resurrezione vuol dire che lo Spirito ha trasformato Gesù e che trasformerà anche noi. Anche la nostra resurrezione futura non è un fatto storico, è una speranza. Noi stranamente vogliamo identificare il reale con il palpabile. No, c'è un mondo enorme della realtà che non è palpabile, il mondo della fede, dei simboli, di Dio, dello Spirito. Cristo è entrato nel mondo di Dio ed in quello dello Spirito.



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