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5. Giuseppe Barbaglio 2.02.1995

Bibbia > 3° Corso di cultura biblica: Gesù di Nazareth, ebreo di nascita cristiano di adozione (1994-1995)



trascrizione integrale

La religione di Gesù e la fede nel Cristo

2) II conflitto con le Istituzioni




SOMMARIO

I. Presenza attiva ma non pacifica di Gesù, personaggio pubblico nella società giudaico-palestinese del suo tempo.

II. Conflitto con chi? Due erano le istituzioni della Giudea: il prefetto romano e il Sinedrio di Gerusalemme. Il conflitto di Gesù con le istituzioni concerne dunque questi due centri di poteri.

III. È certo che Gesù fu processato e condannato a morte dal prefetto romano Ponzio Pilato che lo fece crocifiggere. Testimonianze cristiane e non-cristiane.

IV. Ma tutto fu solo opera dei romani, del prefetto romano Ponzio Pilato? Quale conflitto ha portato Gesù a questa fine?
1) Al tempo di Gesù c'erano in Palestina vari movimenti di ribellione.
2) Le testimonianze evangeliche concordano nel far intervenire anche l’istituzione giudaica del Sinedrio, in particolare i sommi sacerdoti
(archiereis: sommi sacerdoti, quello in carica, quelli decaduti, i membri delle loro famiglie).

I punti salienti dei racconti:
- ultima cena con i discepoli, grande significato
- arresto di Gesù, tradito dal discepolo Giuda Iscariota
- processo davanti al Sinedrio
- processo davanti a Pilato
- la causa della condanna
- II motivo della denuncia da parte dei sommi sacerdoti a Pilato:
l° ipotesi: trasgressore della legge?
2° ipotesi: professione della sua trascendenza?
3° ipotesi: nemico del tempio: ragione meritevole di condanna.

V.
Conclusione
Conflitto con le autorità sacerdotali di Gerusalemme, non con l'istituzione politica dei romani
Vittima delle une e dell'altra.




I. C'è stata una presenza attiva di Gesù, personaggio pubblico, nella società giudaico-palestinese del suo tempo, come dimostra la sua predicazione e azione taumaturgica, il seguito di un certo numero di discepoli, l'inserimento nel flusso della speranza giudaica di quel periodo tesa alla venuta prossima del Regno di Dio che avrebbe creato in terra, in Palestina, un nuovo ordine di cose.
La sua presenza però
non è stata pacifica, non è stata priva di conflitti.



II. Conflitto con chi?
Il titolo di questo incontro deve essere allargato, almeno in fase ipotetica, ad altre realtà della società giudaica del tempo.

Allora le istituzioni della Giudea erano due.
La prima era impersonata dal prefetto romano (
Pontius Pilatus Praefectus ludeae: iscrizione di Cesarea Marittima, metà anni '20 - metà anni '30), rappresentante dell'autorità politica dominatrice straniera.
Risiedeva normalmente a Cesarea, ma spesso veniva a Gerusalemme ed abitava nel pretorio, che con tutta probabilità non è la torre Antonia, ma il palazzo di Erode il Grande, sulla collina occidentale di Gerusalemme. La sua presenza a Gerusalemme era legata al controllo dell'ordine pubblico in occasione delle grandi festività giudaiche, della Pasqua, della Pentecoste, dell'anno nuovo.

La seconda autorità, con cui alla fine della sua vita Gesù è entrato in collisione, era il Sinedrio di Gerusalemme, un’assemblea senatoriale chiamata
Gherusia, Fripuoia in greco, o Consiglio, dotato di poteri religiosi, amministrativi e giudiziari.

È noto che i romani lasciavano largo potere gestionale alle popolazioni sottomesse. Si discute se il Sinedrio, tra i suoi poteri, avesse anche quello dello
ius gladii, il potere di condannare a morte una persona e far eseguire la relativa sentenza. In Giovanni 18,31 tale potere viene negato. I giudei dicono a Pilato che non ne hanno il diritto, quindi lo debbono consegnare a lui perché venga condannato. Di certo il Sinedrio doveva rendere conto ai Romani per le cause di maggiore importanza.

Il Sinedrio era presieduto dal Sommo Sacerdote in carica e composto da membri scelti tra l'aristocrazia sacerdotale e laica e dagli scribi. Non è certo che il numero fosse di 71 membri, come riportato dalle fonti giudaiche successive. Aveva anche un suo corpo di polizia del tempio per arrestare i malfattori e si riuniva in ambienti dentro od attigui all'area templare.
La sua giurisdizione era limitata alla Giudea, però poteva influire in campo religioso oltre tali confini, non esclusa la diaspora. I piccoli centri avevano anche dei sinedri locali.

In Galilea c'era l'etnarca Erode Antipa, uno dei figli di Erode il Grande, un principe che non aveva il titolo di re e che governava con il benestare di Roma.

Il conflitto di Gesù con le istituzioni concerne, almeno come possibilità, questi due centri di potere, quello romano e quello senatoriale di Gerusalemme, perché il Sinedrio non aveva solo compiti religiosi, ma anche quello di amministrare la giustizia.



III. Esaminando il rapporto di Gesù con il potere politico romano, è certo che Gesù fu processato e condannato a morte dal prefetto Ponzio Pilato che lo fece crocifiggere.
A questo proposito abbiamo non solo le testimonianze cristiane (Vangeli, Atti, ed anche la 1° lettera di Paolo a Timoteo che riferisce la bella confessione resa da Gesù davanti a Ponzio Pilato), fonti concordi senza alcuna smagliatura, a differenza di ciò che diremo più avanti sulla storia della passione, ma abbiamo anche tre testimonianze di non cristiani, un fatto singolare, eccezionale.

La prima è quella di Tacito, un pagano, un gentile che negli
Annali 15,44,2-5, a proposito dell'incendio della città di Roma sotto Nerone che incolpò i cristiani, dice: «essi (i cristiani) prendevano nome da Cristo che era stato suppliziato ad opera del Procuratore Ponzio Pilato sotto l'impero di Tiberio (auctor nominis eius Christus, Tiberio imperitante, per Procuratorem Pontium Pilatum, supplitio adfectus erat)».
Tacito non dice che Cristo fu crocifisso bensì torturato, però il supplizio per eccellenza, il
supplitium teterrimum, come dice Cicerone, era la croce.

La seconda testimonianza non cristiana è quella di Giuseppe Flavio, un ebreo che nell'opera
Antiquitates Judaicae 18,64, (il famoso testimonium flavianum, molto discusso perché si ritiene che in esso siano state introdotte delle importanti glosse di mano cristiana) così scrive: «e dopo che Pilato, dietro accusa dei maggiori responsabili del nostro popolo [l'espressione greca originaria in cui la frase si esprime non è proprio quella confacente alle autorità giudaiche del tempo, il che avvalorerebbe l'ipotesi di glosse di mano cristiana], lo condannò alla croce».
In una versione araba più succinta del X° secolo, l'elemento della responsabilità dei capi del popolo giudaico è tralasciato del tutto, così come altre glosse, anch'esse di manifesta mano cristiana, come quella che Gesù era un grande profeta e magari qualcosa di più di un uomo (una confessione della divinità di Gesù), o l'altra che Gesù risuscitò e fu visto dai discepoli.
In questa versione araba si dice, a differenza della precedente, che Pilato lo condannò ad essere crocifisso ed a morire.

La terza testimonianza è il famoso graffito del Palatino che rappresenta un uomo crocifisso con la testa d'asino e la sottoscritta con un greco approssimativo
Alexamenos sebete (sta per sebetai) theòn (Alessameno adora il suo Dio), un motteggio chiaramente anticristiano, probabilmente del II° secolo.

Il genere di morte, la crocefissione, rivela che i responsabili giuridici della condanna sono stati senz'altro i romani.
La crocefissione, di origine forse persiana, era praticata dai romani come pena terribile contro gli schiavi, chiamata appunto
servile supplitium (tortura riservata agli schiavi), e soprattutto contro i ribelli delle provincie, al fine di terrorizzare le popolazioni sottomesse.
Giuseppe Flavio nella sua
Guerra 2,301ss parla del Procuratore Gessio Floro che nel 64-66, circa trent'anni dopo la morte di Gesù, fece crocifiggere a Gerusalemme, dopo averli condannati, anche uomini dell'ordine equestre.

Per concludere, sul punto della responsabilità giuridica dei romani credo che non ci siano discussioni o dubbi.



IV. Ma tutto fu solo opera dei romani, del prefetto Ponzio Pilato?
Quale conflitto ha portato Gesù a questa fine?
Credo che sia importante fare alcuni rilievi sul contesto in cui è avvenuta questa tragedia.


1) Al tempo, in Palestina vi erano vari movimenti di ribellione più o meno aperta, armata e non, al dominio romano, contro cui le autorità romane intervenivano duramente.

Giuseppe Flavio descrive tali movimenti, ne cito alcuni.

Innanzitutto Giuda il Galileo, che in Giuseppe Flavio viene chiamato
sophistés, ossia persona preparata intellettualmente, il quale oltre che un ribelle politico era anche un uomo di cultura.
Giuda il Galileo nel 6 d.C., in occasione del censimento romano sotto Quirinio, alzò la bandiera dell'obiezione di coscienza passando anche a vie di fatto: non si deve pagare alcun tributo ai Romani, Dio è l'unico re (ecco l'ideologia), il popolo di Dio non ha altro sovrano.
Giuda il Galileo, con la sua famiglia ed i suoi figli, fu un combattente per la libertà, un valore affermato a tal punto che nel 66, all'inizio della guerra contro Roma quando le truppe giudaiche ebbero il sopravvento, i Giudei cominciarono a battere moneta propria con la scritta inneggiante alla libertà.
Trovò simpatie ed adesioni, però gli adepti, da assimilare ai partigiani del tempo, non scendevano direttamente in campo, consapevoli della disparità delle forze, ma si limitavano a colpi di mano contro soldati romani isolati e contro giudei collaborazionisti.
Questi partigiani erano chiamati sicari, da
sica, una corta spada che nascondevano sotto il mantello. La loro storia si concluse più tardi quando nell'insurrezione armata del 66 confluirono nel movimento degli zeloti, movimento molto più vasto che coinvolse un po' tutto il popolo ebraico.
Gli ultimi sicari, i resistenti, si suicidarono nel 73, tre anni dopo la presa di Gerusalemme, nella fortezza di Masada, piuttosto che consegnarsi ai conquistatori.

Anche il movimento degli zeloti si ispirò a Giuda il Galileo. Tale movimento comparve sulla scena nel 66 e scatenò la guerra contro i romani con l'esito tragico che sappiamo.

Accanto al movimento partigiano dei zeloti, in quel tempo ce n’erano altri di tipo messianico-politico.
Uno di essi fu guidato da un certo Teuda, sotto il procuratore Cuspio Fado nel 44-45, circa dieci anni dopo la morte di Gesù. Egli raccolse centinaia di persone presso il fiume Giordano, promettendo un intervento divino che avrebbe ripetuto il passaggio del Mar Rosso o quello delle tribù israelitiche sotto Giosuè.
I romani intervennero pesantemente, uccisero gli aderenti e a Teuda fu mozzata la testa.

Un altro capopopolo, senza un nome preciso, fu l'Egiziano, chiamato così in quanto veniva dall'Egitto.
Sotto il procuratore romano Antonio Felice, negli anni 53-55 d.C., si proclamò profeta e riunì molti aderenti sul monte degli Ulivi, ad est di Gerusalemme, promettendo loro la caduta delle mura di Gerusalemme, un po' come la caduta di Gerico con le truppe di Giosuè.
I romani intervennero militarmente a disperderli, però l'Egiziano riuscì a fuggire.

Il confronto con Gesù mostra una grande differenza.
Gesù non è stato un partigiano come Giuda il Galileo. Non ha detto che bisogna rifiutarsi di pagare il tributo a Cesare (
Mc 12,14ss e paralleli sinottici: «Date a Cesare quello che è di Cesare ma a Dio quello che spetta a Dio»). Non si è posto a capo di centinaia di persone come Teuda o come l'Egiziano per abbattere il potere romano fidando nell'intervento miracoloso di Dio. Non ha sfidato in campo aperto i romani sostenuto da numerosi adepti. La controprova è che Gesù è stato ucciso dai romani, ma non i suoi seguaci o discepoli.
Dunque una diversa dinamica del conflitto ha condotto alla sua fine. Per cercare di capirla dobbiamo affidarci alle testimonianze evangeliche.


2) Le testimonianze evangeliche, o cristiane in genere, concordano nel far intervenire anche l'istituzione giudaica del Sinedrio, in particolare i sommi sacerdoti chiamati archiereis.
Gli
archiereis comprendevano: il sommo sacerdote in carica (la tradizione voleva che il sommo sacerdote rimanesse in carica per tutta la vita, ma nel corso del tempo, anche prima dell'avvento dei romani, il sacerdote venne più volte contestato e sostituito), i sommi sacerdoti decaduti, i membri delle loro famiglie, le grandi famiglie sacerdotali di Gerusalemme, diremmo l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme dalla quale di regola veniva scelto il Sommo Sacerdote.

I sommi sacerdoti sono in primo piano nei racconti evangelici degli ultimi giorni dell'esistenza di Gesù. Spesso sono abbinati agli anziani, i rappresentanti dell'aristocrazia laica. A volte, ma sporadicamente, sono uniti agli scribi, i maestri dell'interpretazione della legge, di osservanza soprattutto farisaica. Scompaiono di scena i farisei, che erano stati gli interlocutori privilegiati di Gesù in Galilea, non senza qualche attrito dialettico.

La base di queste notizie è il racconto della passione di Marco (capp. 14 e 15). È datato intorno al 70 d.C., ma riproduce un antico racconto protocristiano della passione, e quindi si avvicina sensibilmente ai giorni dei fatti.

Matteo (capp. 26 e 27) segue Marco in tutto, aggiungendo che il Sommo Sacerdote in carica era Caifa, nome attestato anche dal racconto evangelico di Giovanni.
Narra la fine tragica di Giuda (cap. 27) che non c'è in nessuno degli altri tre evangelisti, troviamo solo un racconto, in parte analogo ed in parte diverso, negli Atti degli Apostoli.
Infine sottolinea notevolmente l'innocenza di Gesù, attraverso il sogno della moglie di Pilato ed il gesto di Pilato di lavarsi le mani.

Luca (capp. 22 e 23) mostra di avere altro materiale tradizionale e presenta un racconto abbastanza originale, come vedremo successivamente.

Giovanni (capp. 18 e 19) è ancora più originale, in quanto offre una propria versione degli avvenimenti molto interessante.


Dunque abbiamo versioni assai diverse, che testimoniano una documentazione approssimativa.
I punti salienti dei racconti evangelici sono i seguenti:

a) Innanzitutto l'ultima cena con i discepoli, presentata nei sinottici (in Giovanni c'è solo la lavanda dei piedi).
L'ultima cena aveva un grande significato per Gesù. La parola sul vino «non mangerò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio» testimonia anche in tale circostanza la sua tensione verso il Regno.
Gesù rischiava molto in quei giorni, si andava nascondendo, e tuttavia era teso verso l'instaurazione prossima del Regno di Dio, ha dato appuntamento ai suoi nel Regno.


b) L'arresto di Gesù tradito dal discepolo Giuda Iscariota.
Anche questo dato risulta originario perché non è possibile che la comunità cristiana primitiva abbia inventato l'episodio di un discepolo traditore di Gesù. La storicità di Giuda Iscariota, come traditore di Gesù, è fuori discussione.
I vangeli non ci dicono però perché l'abbia fatto. Secondo le testimonianze che abbiamo il suo compito è stato quello di indicare il luogo dove Gesù si nascondeva e di identificarlo tra i suoi. Per questo fu accompagnato da una squadra mandata dai Sommi Sacerdoti.


c) Il terzo punto, il più problematico dal punto di vista storico, è costituito dal processo davanti al Sinedrio.
Per Marco e Matteo c'è stato un processo durante la notte di fronte al Sinedrio, subito dopo l'arresto.
Luca non conosce alcun processo notturno, ma parla di una riunione del Sinedrio avvenuta il mattino dopo.
Per Giovanni non c'è stato alcun processo davanti al Sinedrio, ma soltanto un'audizione di Gesù da parte di Anna (suocero di Caifa, persona altamente influente) che lo interroga sui discepoli. Gesù risponde di aver fatto tutto pubblicamente. Anna manda poi Gesù da Caifa, il Sommo Sacerdote in carica, che aveva detto in precedenza ai giudei che era meglio che morisse uno a vantaggio del popolo, cioè per impedire una repressione da parte dei Romani, motivo che ha alta probabilità di essere storico.

Secondo Marco e Matteo c'è il dibattimento presso il Sinedrio, dove si verificano dei fatti un po' curiosi: primo, l'intervento di testimoni che affermano di aver sentito dire da Gesù «io distruggerò questo tempio ed in tre giorni ne riedificherò un altro».
Ci sono varianti tra i due evangelisti, la versione di Marco riporta: «distruggerò un tempio fatto da mano d'uomo e ricostruirò un tempio non fatto da mano d'uomo», un tempio quindi che è dono di Dio. Da notare che Marco e Matteo sottolineano in modo troppo scoperto che si trattava di falsi testimoni.
Il detto di Gesù: «io distruggerò il tempio e lo riedificherò in breve tempo» (che sta per “tre giorni”) è attestato in Giovanni 2,19 collegato con la scena della purificazione del tempio, il colpo di mano di Gesù nell'atrio contro i cambiavalute e i rivenditori di animali.
Giovanni nel suo racconto amplifica i toni mettendo in mano a Gesù un flagello per colpire e cacciare gli intrusi, mentre gli altri due evangelisti, Matteo e Marco, parlano solo di un po' di violenza di Gesù nel rovesciare i tavoli e le sedie. Luca è il più parco e riferisce solo che Gesù butta fuori i rivenditori dall'area del tempio.
In Giovanni c'è anche la protesta dei presenti e dei capi del tempio: «Quale autorità tu hai di fare questo?». Gesù risponde: «Distruggerò questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Giovanni a questo punto, scoprendo un altro aspetto dell'interpretazione della chiesa primitiva che riteneva grave attribuire tale episodio a Gesù, dice che i discepoli quando Gesù risorge comprendono che le sue parole non si riferivano al tempio materiale, ma a quello del suo corpo distrutto nella morte che lui riedifica nella resurrezione. Questa interpretazione è chiaramente di parte. Resta però il detto di Gesù e, secondo la testimonianza di Giovanni, l'abbinamento del detto con l'azione di Gesù, su cui torneremo più tardi.
È strano che Marco e Matteo da un lato presentino la testimonianza contro Gesù nemico del tempio e dall'altro si affrettino a dire che è una falsa testimonianza.

Subito dopo eliminano tale elemento dal loro quadro e passano ad un secondo momento, quando il sommo sacerdote chiede: «sei tu allora il Cristo, il Figlio di Dio?» e Gesù risponde secondo Marco: «si, lo sono», secondo Matteo: «tu l'hai detto», una risposta interlocutoria. Anche in Luca Gesù tergiversa e di fronte all'insistenza risponde: «lo dite voi che lo sono». Giovanni infine, non dice niente.
Quindi l'elemento della confessione di Gesù di essere il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio, è tutt'altro che presunta od affermata nell'ambito prima esaminato.

I tre evangelisti sinottici concordano sulla reticenza di Gesù nel rispondere alla domanda: «sei tu il Messia, sei tu il Figlio di Dio?» . Egli invece è stato molto chiaro nel dire: «io sono il Figlio dell'uomo che verrà sulle nubi del cielo».
Il Figlio dell'uomo è una figura misteriosa nella tradizione ebraica. All'inizio rappresentava una pluralità, i figli dell'Altissimo che ereditano il Regno di Dio, poi si è individualizzato nei libri apocrifi, per il NT solo nei vangeli ha una parte importante mentre scompare in Paolo.

È stata quindi messa in bocca a Gesù questa confessione cristologica come se avesse affermato una trascendenza, un'origine divina, celeste.
In seguito a tali affermazioni, il sommo sacerdote secondo Marco e Matteo si straccia le vesti: rivendicare una natura divina è una bestemmia e tutti i componenti del Sinedrio affermano che Gesù è reo di morte. Secondo Luca invece il sommo sacerdote afferma che il Sinedrio non ha bisogno di altre testimonianze, il che vuol dire che anche in Luca c'era l'elemento dei testimoni sulla distruzione del Tempio. Come ho già detto, in Giovanni non c'è nulla.

Questo processo davanti al Sinedrio, di notte o di mattina, che tra l'altro è quella della Pasqua (Gesù la sera prima, secondo i sinottici, aveva consumato la cena pasquale, anche se i tempi non corrispondono a quelli di Giovanni), è altamente improbabile dal punto di vista storico.
Non è attestato in Giovanni. La sentenza di condanna è stata emessa da Pilato, per cui non si vede perché sarebbe stato necessario duplicarla. Infine il Sinedrio, probabilmente, non aveva il diritto di condannare a morte. Quindi a che scopo questo processo?
Lo scopo è chiaramente polemico perché il racconto, soprattutto in Matteo ma anche in Marco, manifesta la volontà di incolpare il Sinedrio, ossia le autorità giudaiche, della morte di Gesù.


d) Il quarto punto saliente è rappresentato dal processo davanti a Pilato, che è un fatto storicamente accertato.
Tutti e quattro gli evangelisti attestano che Gesù viene portato da Pilato, nel pretorio precisa Giovanni. Secondo Luca tutti i sinedriti testimoniano contro con le seguenti accuse: seduce il nostro popolo, impedisce di pagare il tributo a Cesare (accusa strana perché si ha un detto molto preciso in proposito: «date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio»), dice di essere il Messia Re, elemento questo di tipo polemico che doveva fare presa sul prefetto Romano. Dopo la morte di Erode il Grande, un pecoraio di grande forza, Atronge, disse: “io sono il re”, radunò degli adepti per far valere la sua sovranità sul popolo e fu presto spazzato via.

Pilato allora, sempre secondo Luca, chiede: «sei tu il re dei Giudei?» e Gesù, ancora reticente, risponde: «tu lo dici», poi tace.
Secondo Marco e Matteo, diversamente da Luca, questa domanda viene direttamente da Pilato senza l'influenza dei sinedriti che non erano presenti all'interrogatorio, ma si suppone che indirettamente lo abbiano istigato. Anche qui la risposta di Gesù è: «tu lo dici».
In Giovanni l'accusa è la stessa, quindi si ha un elemento comune nei quattro evangelisti sull'accusa contro Gesù come re, messia, unto; è pertanto un’accusa di tipo politico.
Giovanni, che va per conto suo, traccia quel mirabile dialogo tra Pilato e Gesù sul regno: «sei tu re?» «sì io lo sono, però il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo i miei servitori avrebbero combattuto perché io non fossi consegnato ai giudei. lo sono re in quanto vengo a testimoniare la verità nel mondo» ed a questo punto Pilato chiede: «che cos'è la verità?» ed il dialogo si tronca. È un dialogo adeguato all’alta qualità teologica del vangelo di Giovanni, ma con un punto in comune con gli altri evangelisti: la pretesa presunta o reale di Gesù di essere re, di avere una signoria nel Regno di Dio che annunciava.

La situazione diventa difficile perché Pilato si rifiuta di giustiziare Gesù per tale accusa.
Si hanno allora due espedienti per uscire da tale difficoltà. Luca, il più geniale, dice: Pilato si accorge che Gesù era un Galileo che apparteneva alla giurisdizione di Erode Antipa e lo manda da Erode che in quei giorni si trovava a Gerusalemme per le festività. Erode lo tratta male, si prende gioco di lui, Gesù ritorna da Pilato, ma la difficoltà iniziale continua a sussistere.
Tutti e quattro gli evangelisti risolvono questa difficoltà con l'episodio di Barabba. C'è la consuetudine di liberare un prigioniero per la Pasqua e al popolo viene chiesto di scegliere tra Gesù e Barabba, un partigiano arrestato per omicidio. Sobillato dai sommi sacerdoti, il popolo urla di volere Barabba libero e Gesù in croce. Pilato alla fine decide che fosse eseguita la richiesta di liberare Barabba e di crocifiggere Gesù.

Nel processo davanti a Pilato gli elementi certi della tradizione sono: l'accusa di ribellione politica per essersi proclamato re dei Giudei, il sostegno dell'accusa da parte dei sommi sacerdoti, la condanna capitale e l'esecuzione.

C'è invece una manifesta tendenziosità della tradizione protocristiana, testimoniata nei quattro vangeli, che si evidenzia in questi aspetti:
- Addossare quanta più colpa possibile alle autorità giudaiche.
- Mettere in bella luce Pilato, restio a condannare Gesù, al punto che, secondo Matteo, si lava le mani in una bacinella d'acqua dicendo di non volersi addossare la responsabilità della sua innocenza. La moglie inoltre ha un sogno a seguito del quale manda a dire al marito che non deve aver nulla a che fare con Gesù, uomo giusto.
- Colpevolizzare anche il popolo: «Tutto il popolo urla: Il suo sangue [cioè la responsabilità della sua condanna a morte] ricada su di noi e sui nostri figli», parole che esprimono il vertice della polemica di Matteo nei confronti del giudaismo del suo tempo.
- Evidenziare l'innocenza di Gesù con il comportamento di Pilato e di sua moglie ed attestare che era falsa la dichiarazione di Gesù sulla distruzione e riedificazione del tempio, quando invece dal testo di Giovanni appare chiarissimo che Gesù lo aveva detto.
- Fare di Gesù un confessore della propria divinità, mettendogli in bocca l'affermazione che essi vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo, identificandolo quindi con un essere divino.

La causa giuridica della condanna è semplice: la proclamazione di Gesù di essere re dei Giudei, che poi fu scolpita sul palo della croce. Quindi un motivo politico: è stato condannato quale ribelle al potere romano. Questo elemento è indubbio.

Riflettendo sulla denuncia a Pilato da parte dei sommi sacerdoti, tre sono le ipotesi del contenuto delle loro accuse:
- La prima ipotesi è la trasgressione della legge mosaica, ragion per cui doveva essere eliminato. Quando i sommi sacerdoti sono andati dal Prefetto romano hanno cambiato l'atto di accusa in quello di ribellione politica, che sarebbe stato molto più efficace presso i Romani.
Questa ipotesi non sembra però molto probabile, perché è vero che Gesù ha polemizzato con gli scribi ed i farisei per l'interpretazione della legge, in particolare a proposito del sabato, del puro e dell'impuro, della legge contro il divorzio [cap. 10 di Marco e passi paralleli in Matteo e Luca: il marito che divorzia dalla moglie (a quel tempo solo il marito eventualmente poteva lasciare la moglie) commette adulterio o, in un'altra versione, la fa diventare adultera, perché una donna non può restare sola, sposerà un altro e questo secondo matrimonio, essendo valido il primo, costituisce un adulterio], ma Gesù manifestava una libertà che era nell'ambiente e lo faceva per esigenze di ordine superiore. Né la legge era poi così rigida ed intoccabile, le interpretazioni potevano essere varie.
Gesù ad uno che voleva tornare a casa per seppellire suo padre morto, rispose: «tu seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (
Mt 8,22). Quindi andava contro tutta la pietà filiale della tradizione e perfino contro il comandamento del rispetto del padre e della madre. Però non voleva rompere la legge per il gusto di rompere, ma faceva valere un’esigenza di ordine superiore a quella della legge mosaica del tempo: la sua sequela con la prospettiva escatologica, di cui si è già parlato la volta precedente.

Il conflitto di Gesù con i farisei, se di conflitto si può parlare, è dialettico e nulla a questo proposito è detto durante il processo da parte dei sommi sacerdoti. D'altra parte la comunità cristiana primitiva di Gerusalemme era ligia alla legge, e Giacomo, il fratello del Signore, era un campione dell'osservanza della legge. Gli stessi farisei scompaiono di scena nel momento cruciale del processo e della condanna. Gesù non è stato quindi condannato, o meglio denunciato, in quanto trasgressore della legge. In realtà non si può parlare di vera e propria trasgressione, anche se egli si è mosso con una certa libertà all'interno della legge.

- La seconda ipotesi, abbracciata dai tre evangelisti sinottici, riguarda la professione di Gesù della sua trascendenza divina: sono il Messia, sono il Figlio di Dio, sono il Figlio dell'uomo.
Ma proclamarsi Messia, ammesso che Gesù lo abbia fatto, ed è anzi probabile che tali professioni appartengano storicamente a momenti successivi, non era un reato. Peraltro solo in Marco c'è una risposta positiva: «sì, lo sono». Il titolo di “Figlio di Dio” era un motivo abbastanza diffuso perché proclamarsi tale potesse essere oggetto di condanna capitale. Infine il titolo di “Figlio dell'uomo” diventa preciso all'inizio della formazione della comunità cristiana primitiva. Non sappiamo bene come Gesù l'abbia usato, se l'abbia usato, se si sia distinto dal Figlio dell'uomo, il giudice finale di cui si aspettava la venuta. Molti dubbi esistono, ma su questa professione si manifesta l'interesse dei tre evangelisti che mettono in bocca a Gesù la professione della loro fede cristologica: II Figlio dell'uomo è quindi il Cristo della fede.

- La terza ipotesi del motivo della condanna riguarda Gesù in quanto nemico nel tempio.
La presenza di questa accusa nel processo attestato da Marco e Matteo, che peraltro mostrano una sospetta tendenza ad invalidare la testimonianza, era grave.
Il Tempio era una grande istituzione, non solo per i sacerdoti che vivevano delle attività che vi si svolgevano, ma anche per tutto il popolo. Era la casa di Dio, il luogo del culto, dell'incontro con JHWH, dell'espiazione, dei sacrifici.
Era cosa gravissima attaccare il tempio dicendo: «distruggerò questo tempio e ne riedificherò in breve un altro», testimoniato in
Gv 2, esattamente quello che dicono i testimoni a carico e di cui Marco e Matteo si affrettano a mettere in rilievo la falsità. Il detto di Gesù, autentico e non una falsa testimonianza, è abbinato alla sua azione contro il tempio. Esso è posto dai sinottici (Mc 11,15-17 e paralleli) alla fine dei loro vangeli, pochi giorni prima del processo e della condanna, collocazione da preferire a quella di Giovanni che la pone invece all'inizio del suo vangelo (Gv 2,14-22).

Ma qual è il significato di queste azioni di Gesù contro il tempio?
Un'interpretazione ancora oggi molto forte si riferisce al significato di purificazione del tempio dai traffici, dal commercio. Sembra però un'interpretazione protocristiana, avvalorata da una citazione di Geremia: «Voi avete fatto della mia casa di preghiera una spelonca di ladri» e si presenta come un tentativo di sminuire il significato eversivo dell'azione di Gesù.
La vita cultuale era una prassi necessaria. Gesù non poteva proibire il commercio degli animali (buoi, vitelli, colombe, ecc.) che servivano per i sacrifici nel tempio, né i cambiavalute che cambiavano i soldi per pagare le tasse (mezzo siclo d'argento) al tempio, servizio utile per i giudei che venivano anche dalla diaspora. O Gesù era contro il culto o altrimenti non si capisce perché avesse fatto queste azioni contro i mercanti e contro i cambiavalute.
Questa interpretazione sembra quindi un tentativo della comunità cristiana primitiva di evitare un elemento che dava fastidio.

Se vediamo invece l'azione di Gesù sia nel suo detto: «lo distruggerò questo tempio e lo riedificherò in tre giorni», sia nel suo contesto, quello della speranza messianica ed escatologica che prevede l'instaurazione del Regno e del nuovo tempio, allora riusciamo a capire che questa azione non era moralistica, ma profetica. Gesù voleva dire che quel tipo di tempio andava distrutto perché iniziava un nuovo ordine per il popolo d'Israele. L'elemento distruttivo era abbinato all'elemento positivo di riedificazione, era quindi un gesto di rottura. L'azione di Gesù ha un significato dirompente e non moralistico, ricostruttivo di un nuovo ordine di cose.
Mettendo insieme questi elementi, sembra che quest'ultima interpretazione sia la migliore, tanto più che il detto e l'azione sono combinati (
Gv 2).

Il detto e l'azione di Gesù erano una ragione meritevole di condanna capitale, come dimostrano le esperienze precedenti.
Geremia (cap. 27) aveva fatto un discorso contro il tempio: «andate al tempio di Silo nel regno del Nord e vedete come è stato distrutto; e se non vi convertite, anche quello di Gerusalemme sarà una rovina». Il popolo ed i sacerdoti insorgono contro di lui, che si salva a malapena perché aveva qualche protezione in alto loco.
Ancor più simile è il caso di Stefano che aveva parlato contro il tempio, oltre che contro la legge (
At 7). Stefano viene lapidato, linciato.
Infine si veda l'episodio testimoniato da Giuseppe Flavio: un certo Gesù, figlio di Anania, «rozzo contadino, a Gerusalemme, durante la festa dei Tabernacoli, quattro anni prima che scoppiasse la rivolta, cominciò a gridare nel tempio: “una voce da oriente, una voce da occidente, una voce dai quattro venti, una voce contro Gerusalemme ed il tempio, una voce contro spose e sposi, una voce contro il popolo intero”. Per giorni e notti Gesù si aggirava in tutti vicoli gridando queste parole ed alla fine alcuni capi della cittadinanza, tediati da tale malaugurio, lo fecero prendere e gli infissero molte battiture. Ma quegli andava avanti ed allora lo trascinarono dal governatore romano che lo fece flaggellare e quegli impassibile continuava con il tono più forte e ad ogni battitura rispondeva: “povera Gerusalemme!”. Il procuratore romano, di fronte a ciò, lo definì pazzo, maniaco ed alla fine lo rilasciò. Gesù continuò fino all'assedio di Gerusalemme con il suo malaugurio gridato proprio sotto le mura e dopo aver aggiunto: “povero Gesù, figlio di Anania”, fu colpito da un masso lanciato dagli assedianti che lo uccise». Gesù, figlio di Anania, non fu condannato a morte solo perché preso per pazzo, ma in quanto nemico del tempio era stato portato davanti al tribunale del procuratore romano.

Non vi è dubbio quindi che il detto e l'azione di Gesù contro il tempio costituirono una messa in discussione del centro del giudaismo, in particolare del potere e della ragione d'essere dei sommi sacerdoti. Inoltre intorno al tempio gravitavano interessi economici rilevanti, un motivo più che plausibile per metter a tacere con violenza il profeta di Nazareth.



V. Conclusioni

1. Gesù è entrato con tutta probabilità in reale conflitto con le autorità sacerdotali di Gerusalemme e non con le istituzioni politiche dei romani in quanto tali.

2. II conflitto virtuale e presunto con i Romani è quello che lo ha condotto di fatto alla morte violenta.

3. Gesù è quindi vittima delle due istituzioni di potere, quella religiosa giudaica e quella politica romana.

4. Parlare di deicidio non ha alcun senso reale, neppure per i rappresentanti dell'aristocrazia sacerdotale e laica di Gerusalemme di quel tempo. Anche se possono essere indicati come responsabili morali della tragica fine di Gesù, secondo la ricostruzione che ho presentato, essi non lo hanno accusato per essersi autoconfessato “Figlio di Dio”, ma perché nemico del tempio e profeta che ha messo in discussione uno dei capisaldi del giudaismo.



DIBATTITO



1. Ringrazio innanzitutto il relatore per le interessantissime analisi sulla tragica fine di Gesù. Vorrei però alcune delucidazioni. Il relatore ha messo in rilievo che durante il processo scompaiono i farisei, che erano stati le controparti polemiche durante la predicazione di Gesù e in primo piano agisce l'ambiente sacerdotale, ossia i sadducei.
Tutto questo mi sembra molto importante dal punto di vista dell'evoluzione del pensiero giudaico, mi fa infatti capire un problema che mi ha arrovellato per anni. Noi sappiamo dalla testimonianza di Giuseppe Flavio, ripresa anche da Dante Alighieri, che secondo i sadducei l'anima sarebbe morta con il corpo, a differenza dei farisei per i quali l'anima era immortale. Nella Bibbia ebraica non si parla di immortalità dell'anima ed ogni volta che troviamo riferimenti di tipo escatologico, il testo presenta delle incertezze, dei tentennamenti, cerca di evitare un tema così scottante. Mi sono allora sempre chiesto: se la Bibbia ebraica, il testo masoretico che conosciamo, proviene dall'ambiente rabbinico-farisaico, perché questa preoccupazione di nascondere l'immortalità dell'anima?
Lei questa sera mi ha dato la risposta: perché la Bibbia che abbiamo proviene da un ambiente sacerdotale sadduceo, quindi la revisione finale, quella successiva al concilio di Iamnia, ha una mano non più farisaica, ma sadducea.
Tutta la sua presentazione assume notevole significato se ci riferiamo sia a quello che accadde subito dopo il momento terribile e cruciale del 70, la distruzione del tempio da parte dei Romani, sia al rapporto tra tale evento e la redazione dei vangeli. Tutte le accuse contro il tempio e la sua distruzione acquistavno una pregnanza talmente forte da scuotere le coscienze dei giudei da un lato e dei cristiani dall'altro. Ciò produsse un cambiamento nell'atteggiamento cristiano, dalla posizione iniziale antifarisaica si passò a quella antisadducea, proprio nel momento in cui si stava concretizzando la formazione del NT e contemporaneamente alla formazione del canone biblico rabbinico.

Non è mia competenza rispondere sull'AT.
Per quanto riguarda l'ultima parte della domanda, è vero che la distruzione del tempio del 70 è apparsa come un castigo, ma è attestato come tale solo da Matteo, nella parabola degli invitati alle nozze. Il padrone, un re che aveva diramato gli inviti al pranzo di nozze del figlio (per Luca solo un personaggio che fa un pranzo), reagisce violentemente al diniego degli invitati inviando un esercito a distruggerli ed ad incendiare le loro città, azioni che probabilmente si riferiscono alla distruzione di Gerusalemme ed all'incendio del tempio.
Ma la redazione del processo a Gesù da parte della comunità cristiana primitiva è di molto anteriore alla distruzione del tempio e nel racconto attestato da Marco, che ha influenzato decisamente Matteo ed ha contaminato anche Luca, si tenta invece di sminuire di molto l'accusa a Gesù di essere nemico del tempio. La comunità cristiana primitiva, i cui racconti hanno dato origine ai vangeli, era ancora legatissima al tempio, come dimostrano gli Atti i suoi membri tutti i giorni andavano al tempio, e dava loro fastidio che Gesù fosse stato denunciato come nemico del tempio. Solo in un secondo tempo la distruzione del tempio è apparso ai cristiani come un castigo. Nei racconti della passione, chiaramente anteriori come fonte, c'è il tentativo manifesto di mettere tra parentesi, e soprattutto di squalificare, le testimonianze contro Gesù che aveva detto: «lo distruggerò il tempio ed in tre giorni lo riedificherò».
Giovanni, che tra l'altro mette insieme il detto e l'azione, sminuisce ancora di più le testimonianze contro Gesù, affermando che il tempio si riferiva al suo corpo e non al tempio reale del culto di Gerusalemme e aggiungendo che questa comprensione è apparsa chiara ai discepoli nel suo effettivo significato solo dopo la Resurrezione. L'espediente serve a Giovanni anche per dare dei significati molto particolari alle parole di Gesù.


2. I primi cristiani non avevano capito bene il discorso di Gesù contro il tempio, ma anche ai nostri giorni, come allora, c'è un forte attaccamento al tempio. Alla morte di Gesù il velo del tempio si è squarciato per rappresentare l'ingresso in una nuova era. Il tempio rappresentava il sacerdozio, il sommo sacerdote, ma Cristo non era sacerdote, era un laico. Pertanto il sacerdote, il sacerdozio legato al tempio, sono finiti.

Le posizioni dei primi cristiani nei confronti del tempio erano diversificate.
La comunità palestinese di Gerusalemme, che parlava aramaico, era molto legata al tempio, era guidata da Giacomo, il fratello di Gesù, che era molto osservante. Abbiamo notizie su Stefano che apparteneva ad un'altra comunità di Gerusalemme, di lingua greca, che era contraria a determinati riti. La comunità greca di Gerusalemme era più libera nei confronti delle prescrizioni della legge e degli obblighi verso il tempio. La prima persecuzione di Erode Agrippa del 41 d.C. è stata scatenata a Gerusalemme non contro la comunità di lingua aramaica, ma contro la comunità di lingua greca, e Stefano è stato la prima vittima.
Con il passare del tempo, dopo la distruzione del tempio e di Gerusalemme, il cristianesimo occidentale greco si è sganciato dal tempio dando vita a comunità cristiane completamente slegate da ogni sacerdozio, da ogni culto templare.
Paolo usa la terminologia sacerdotale non applicata al campo rituale, ma all'annuncio del vangelo: “io sono il sacerdote del Vangelo in quanto lo proclamo nel mondo, sono al servizio del vangelo”. Nel NT c'è la Lettera agli ebrei che sembra un ritorno al culto, ai riti, ma solo in apparenza. René Girard ha preso un abbaglio dicendo che essa è una ritualizzazione, viene infatti usata una terminologia cultuale applicata ad una realtà non cultuale, all'esistenza di Gesù come fratello in mezzo ai fratelli.
Il sacrificio nuovo è la morte di Gesù che non fu certo una morte rituale o sacrificale. Fu la morte orrenda del maledetto da Dio, secondo un testo del Deteuronomio applicato a Gesù dagli avversari, egli è un maledetto da Dio in quanto crocifisso.
Dopo la morte di Gesù gli atteggiamenti della comunità primitiva rispetto al tempio sono diversi. Solo molto più tardi la comunità cristiana occidentale si è completamente liberata dal tempio o dal luogo ufficiale del culto. A Roma per secoli, fino al tempo di Costantino, non esisteva una chiesa, un luogo di culto giuridicamente tale. I cristiani si riunivano nelle case di privati, i
tituli romani, come per es. Santa Prassede od altri, erano le case di matrone o patrones che accoglievano i cristiani. Essi non avevano nemmeno il diritto di proprietà di luoghi di culto, non essendo riconosciuti. Successivamente c'è stato uno sviluppo diverso.


3. Come mai nessuno dei discepoli che avevano seguito Gesù lo difese o si ribellò all'arresto ed alla condanna a morte? Forse perché il tutto fu gestito come una congiura di palazzo? O forse perché la predicazione di Gesù non comprendeva elementi politico-nazionalistici, ma un messaggio molto più profondo, che tra l'altro fu capito completamente solo dopo la Resurrezione?

Le testimonianze dicono che quando Gesù fu arrestato, i suoi discepoli fuggirono. I vangeli parlano di Giovanni che va nella casa del sacerdote, di Pietro che in un primo momento tenta di andar dietro a Gesù e che poi lo tradisce, ma tutti questi sono racconti successivi, e nel caso di Pietro è chiarissimo che diventa la figura emblematica del discepolo che tradisce e che poi si converte, piange amaramente e viene perdonato. Quello che è certo è che Gesù non conduceva i suoi allo scontro, a differenza di Teuda e dell'Egiziano, che confidavano nell'intervento miracoloso di Dio durante lo scontro. Gesù, con assoluta certezza, era al di fuori di tale logica, altrimenti non ci spieghiamo come solo lui sia stato preso e non i suoi discepoli.


4. Ci sono elementi per poter, almeno approssimativamente, ricostruire le motivazioni per cui Giuda avrebbe cambiato opinione e denunciato Gesù?

Su Giuda sono stati scritti fiumi di parole. C'è una lacuna in effetti, non si dice perché Giuda abbia denunciato Gesù. I vangeli parlano dei trenta denari che avrebbe preso. Nel Vangelo di Matteo Giuda getta i trenta denari ritornando sui suoi passi, pentendosi per aver tradito il giusto ed impiccandosi, ma questo pentimento si può interpretare come un altro elemento apologetico a difesa dell'innocenza di Gesù.
Negli Atti degli Apostoli Giuda viene demonizzato, tutte le sue viscere sono per terra, c'è il racconto della morte dell'empio. Non parliamo poi dell'astio dell'evangelista Giovanni nei confronti di Giuda, che viene detto ladro, nel senso che teneva la borsa approfittandosene.
Su questa figura le ipotesi fatte sono tante, o per demolirlo come avversario, o per demonizzarlo per motivi politici utilizzando l'elemento della corruzione dei trenta danari. Ma è difficile dire cose precise perché c'è il silenzio delle nostre fonti, e sul silenzio si costruiscono solo delle supposizioni.
Il motivo venale dei trenta danari non sembra probabile, mentre lo è più quello della polemica politica. I motivi del tradimento non vengono detti perché non se ne aveva grande interesse.
Anche le informazioni su tutti gli altri avvenimenti, sull'arresto e sul processo a Gesù, sono abbastanza frammentarie. Le fonti riportano diverse motivazioni in funzione degli interessi della comunità. Questa sera abbiamo tentato di mostrare un filo storico probabilissimo, ma anche questo non è certo.


5. La ringrazio per tutto quello che ha detto questa sera. Sono d'accordo su tutto. Mi ha sollecitato il terzo intervento perché è stato sollevato un problema che viene dibattuto negli ambienti pacifisti della non violenza.
In effetti nei vangeli vi sono tracce di intenzioni o tentativi di resistenza armata che Gesù, o i suoi discepoli, avrebbero voluto organizzare ritirandosi anche nel deserto. Nel vangelo di Luca (cap. 22) c'è l'episodio delle due spade: «Chi non ha una spada venda il mantello e ne compri una» che termina con le parole di chiusura da parte di Gesù: «lasciate, basta così!», mentre nei tre sinottici è riportato il tentativo di resistenza armata di Pietro contro coloro che erano andati ad individuare ed arrestare Gesù, tentativo che lo porta a mozzare un orecchio al servo del sommo sacerdote.
Non escludo che Gesù sia stato tentato per un momento di ricorrere alla violenza, ma il modo come supera i tentativi di resistenza nei due episodi citati («basta così!» significa sconfessare l'atteggiamento dei discepoli), e soprattutto il suo atteggiamento non violento durante la passione e la croce, mostrano chiaramente la sua scelta non violenta.
lo credo che questo tema debba essere approfondito così come lo dovrebbe essere quello di Giuda. Non è da escludere che Giuda pensasse che il regno di Dio doveva essere imposto anche con la violenza e quando vide che Gesù faceva delle scelte non violente si sentì in qualche modo tradito, pensò che Gesù fosse più nocivo che utile alla causa e perciò lo tradì. Desidererei un approfondimento su ciò che ho esposto.

Per quanto riguarda Giuda purtroppo ci dobbiamo affidare a delle congetture perché, come ho detto prima, non ci sono elementi di prova.
Per quanto riguarda invece gli altri due episodi, quello delle due spade di Luca è un testo nel quale con probabilità Gesù voleva dire metaforicamente ai discepoli di essere pronti nel momento cruciale ed i suoi non lo hanno capito bene, ed infatti Gesù alla fine dice: “va bene, basta così, tronchiamo l'argomento”. Nel complesso però l'episodio è abbastanza oscuro e su di esso non si possono allora fondare ulteriori elaborazioni.
Il secondo episodio, quello di Pietro che stacca l'orecchio al servitore del sommo sacerdote e Gesù lo riattacca, mi sembra un chiaro episodio edificante, tipico della produzione religiosa.
Una cosa interessante invece è il collocamento di Gesù e del suo movimento rispetto agli zeloti, ai sicari. Certo è che Gesù non costituì un gruppo di scontro non solo con le armi, ma neanche di tipo politico o nazionalistico, come fecero l'Egiziano o Teuda.


6. (Prof.ssa Lea Sestieri) Ringrazio Barbaglio per l'analisi puntuale di tutto l'iter del processo e della condanna di Gesù. Ha chiarito veramente molte cose e soprattutto con obiettività, cercando di togliere un po' tutto quello che c'è stato trasmesso per millenni.
Per quanto riguarda Giuda, io sono d'accordo con chi mi ha preceduto, ossia che fosse uno zelota deluso dal comportamento di Gesù.
Voglio invece dire qualcosa in relazione alle questioni della Bibbia ebraica, da chi sarebbe stata raccolta, scritta e trasmessa cosi come noi l'abbiamo avuta. Mi pare troppo poco ridurre il problema dei sadducei, come precedentemente è stato detto, a quello dell’immortalità dell'anima. Che ne facciamo allora dei profeti? I profeti non parlano dell’immortalità dell'anima e non sono sadducei. Molti di loro non hanno nulla a che vedere con il sacerdozio, solo pochissimi sono stati sacerdoti. Inoltre la tradizione, la codificazione del testo biblico, risale al ritorno, non proprio all'epoca di Esdra, alla metà del secolo V, ma sicuramente a tutto il periodo del secondo tempio e quindi all'epoca degli scribi che sono i più interessati. Arriviamo così al II° secolo con il canone e l'ultimo libro accettato, il Cantico dei Cantici. Siamo a questo punto in ambiente completamente farisaico. Non voglio dire che sia stato completamente farisaico, i sacerdoti ci sono entrati di mezzo, ma nemmeno è stato esclusivamente sadduceo.

Tornando a Giuda, è anche possibile che fosse uno zelota, anzi è probabile, ma purtroppo non abbiamo nessun elemento in proposito.


7. Lei ha portato il discorso sulle responsabilità di Gesù circa la contestazione del tempio minimizzando invece l'autoaffermazione della sua divinità.

Ho fatto una distinzione tra il Gesù storico ed il Cristo della fede, ma non una contrapposizione. La distinzione però c'è ed infatti nei vangeli si hanno tre strati, quello di Gesù, quello della comunità cristiana primitiva ed infine quello degli evangelisti.
Quanto poi alla divinità di Gesù, ricordo di aver presentato in una precedente conferenza, Gesù che chiamava Dio
Abbà, il suo papà, un modo molto familiare, testimoniato in Marco. Si discute se Gesù avesse attinto tale dizione dalla comunità giudaica del tempo, o se sia stata una sua originalità. È certamente una caratteristica che si sia conservata questa parola aramaica tra le poche sopravvissute. Abbà ha un senso di immediatezza, di familiarità, esprime un sentimento molto profondo della religione di Gesù.
Da questo a dire che Gesù autoaffermava la sua divinità il salto è molto forte. Figli di Dio erano i re e Gesù stesso nelle diatribe, che portano la mano delle successive redazioni, dice: «cosa volete contestarmi? tutti sarete figli di Dio, c'è scritto nella Bibbia». Questo titolo era abbastanza generico.
Quello che sembra vero è che Gesù non ha mai detto di essere il Figlio di Dio, il Messia. Ma ciò non si oppone al fatto che si rivolgesse a Dio chiamandolo
Abbà. Gli ebrei lo chiamavano Abi "padre mio", Abinu "padre nostro". C'era in Gesù un tono di familiarità in più, se c'era. Gesù aveva un forte senso della paternità di Dio, ma dire che egli si ritenesse Figlio di Dio, come poi diranno i cristiani, presuppone un grande salto. Dai documenti in nostro possesso si può escludere che Gesù abbia mai detto: “io sono il Figlio di Dio”, “io sono il Messia”, “io sono il Signore”, come invece dice Paolo.
Gesù certamente aveva una coscienza di sé abbastanza caratteristica in quanto annunciava il Regno di Dio e vi riservava un posto rilevane per se stesso. Tutto questo rientra però nella prospettiva di uomo, di profeta con una missione molto particolare da parte di Dio, ma non si può dire che ritenesse di essere Dio, come poi diranno i cristiani.
Sul passaggio dal Gesù della storia al Cristo della fede ritorneremo la prossima volta.


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