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4. Giuseppe Barbaglio 22.04.1993

Bibbia > 1° Corso laico ed interdisciplinare di cultura biblica: Introduzione (1993)



trascrizione integrale


Violento il Dio della Bibbia?



Premesse di metodo

Introduco l'argomento di questa sera a partire da una sensibilità molto diffusa oggi, cioè da una sensibilità particolare contro il carattere distruttivo della violenza umana, intendendo per violenza la forza, l'azione distruttiva, di morte. Basti pensare ai movimenti pacifisti di vario genere, ma la sensibilità è anche più diffusa.
Un altro segno dei tempi è che la concezione tradizionale cattolica della guerra giusta è in fase di superamento.

D'altra parte l'attenzione alla violenza si è anche concentrata su un campo dove la violenza per varie ragioni ha attecchito, cioè l'ambito delle religioni. Un tema molto interessante è lo studio non solo storico ma anche della natura, del rapporto tra religione e violenza. Il problema è analizzare i simboli religiosi del cristianesimo, del buddismo, dell'islamismo, dell'ebraismo e per noi quelli biblici e di vedere quale connessione esiste tra tali simboli religiosi, cioè tra le immagini di Dio che gli uomini della Bibbia hanno elaborato e vissuto e la realtà della violenza.
Più semplicemente il problema è scoprire le radici ultime della colpa storica della religione cristiana quanto alla violenza, come tali radici stanno esattamente nelle immagini di Dio vissuto come un Dio variamente violento. Interessarsi alle immagini di Dio in cui Dio è pensato e vissuto come violento vuol dire anche interessarsi alla ricaduta sociale, politica, esistenziale di queste immagini, che diventerà poi causa di codici di comportamento. Ad una immagine di Dio violento corrisponde una immagine di un fedele, di un credente violento. Il credente costruisce una immagine di sé in qualche modo omogenea all'immagine di Dio che egli si è fatta. L'influsso causale è duplice, cioè l'immagine di un Dio violento produce immagini di persone violente e persone violente immaginano, pensano e vivono un Dio naturalmente violento.

Il problema teologico della violenza, cioè quanta e quale violenza c'è nelle immagini di Dio create dal cristianesimo, dall'ebraismo, dall'islamismo, che hanno la loro origine nella cultura del tempo, è capace di suscitare interesse non immediato (quello immediato è la violenza umana). Se vogliamo però scoprire le radici della violenza umana almeno nei movimenti religiosi, nelle persone e nei gruppi credenti o anche solo intrisi di cultura religiosa, dobbiamo cercare il tasso di violenza che c'è nei simboli religiosi vissuti da tali persone. D'altra parte i simboli religiosi non influiscono solo sui credenti, ma anche sui non credenti perché fanno parte di una determinata cultura largamente diffusa.

Una espressione dell'interesse moderno, anzi attuale, per il problema della violenza anche nei suoi risvolti religiosi o sacrali è data dall'opera di René Girard, antropologo di lingua francese, i cui volumi sono stati tradotti in Italia da Adelphi. René Girard non ha solo elaborato uno studio della violenza presente nelle società primitive, ma moltissime sue pagine riguardano l'analisi dei testi biblici che egli mette nella grande categoria dei testi di persecuzione, cioè dei testi dove degli innocenti perseguitati, invece di accettare lo schema vittimale del capro espiatorio, protestano l'innocenza del loro capo, l'innocenza propria e quindi denunciano la violenza dei persecutori, invece di sacralizzarla.
Devo dire che io stesso sono stato molto influenzato dagli studi di René Girard che si occupa di studiare attraverso le pagine della Bibbia la violenza nel suo zoccolo duro, cioè sul versante di Dio.

A me sembra che nella Bibbia, complesso disomogeneo di molti libri, ci sono almeno due filoni, ben distinti e direi contrastanti. Un primo filone molto evidente e maggioritario, circa il 95%, riguarda l'immagine di un Dio bifronte, cioè di un Dio della salvezza e della violenza. È tanto salvatore quanto violento, ed usa la violenza per la salvezza. Un secondo filone, minoritario. molto contrastato, alcune volte contraddittorio, ma che pian piano si afferma a partire dalle prime pagine della Bibbia ebraica fino alle ultime della Bibbia cristiana, presenta una immagine di Dio unifronte, di puro amore.



1. Primo filone biblico. Maggioritario (95 %) ed evidentissimo

Dio è immaginato e vissuto come un Dio che fa sua la violenza (naturalmente non stiamo trattando direttamente di Dio, che in questa sede non avrebbe alcun senso. Stiamo invece trattando di uomini che hanno immaginato, pensato e vissuto determinate immagini di Dio) e vi ricorre per perseguire fini nobili.
Nella Bibbia cioè, la violenza di Dio non si presenta incontrollabile o incontrollata, salvo tre o quattro volte come nell'episodio dell'israelita Uzza che, preso non si sa da quale impulso, andò a toccare l'arca santa e rimase secco (
2 Sam 6,3-8) immediatamente ("santo" in ebraico vuole dire il separato, l'intoccabile); quindi abbiamo qui la reazione di un Dio pensato come un demone malvagio, piuttosto che un Dio che reagisce razionalmente.
La norma è invece che Dio usa la violenza per motivi nobili, razionali. È quindi un Dio che riconosce la violenza come un mezzo utile, necessario per conseguire fini lodevoli.

In sintesi, si può riassumere la violenza immaginata, pensata e vissuta in Dio secondo alcune linee precise.
Anzitutto gli uomini della Bibbia ebraica e cristiana attribuiscono variamente al loro Dio una violenza liberatrice e salvatrice del popolo e immaginano Dio salvatore violento.
Abbiamo già parlato del libro dell'Esodo la cui caratteristica è di dire che Dio solo agisce, la violenza è solo in Dio. Vedremo dopo un'altra sfaccettatura di questo Dio in cui la violenza è di tutti e due, la violenza di Dio e quella del popolo, ossia la violenza bellica. In questo caso è invece Dio solo che agisce per liberare il popolo oppresso, causa nobile, ed a tale scopo colpisce gli Egiziani oppressori con le famose piaghe ed annienta gli inseguitori nel Mar Rosso.
Abbiamo quindi un Dio pensato come liberatore, salvatore, ma nello stesso tempo come violento. È un Dio pensato dentro uno schema culturale che possiamo enunciare con la frase latina
mors tua, vita mea. La vita del popolo degli oppressi a prezzo della morte violenta degli oppressori. Non è solo: agli uni la vita, agli altri la morte, ma agli uni la vita attraverso, per mezzo della morte degli altri. La violenza, in quanto annientatrice, è intesa come strumento per creare vita da parte di Dio, pensato dentro e funzionale a questo schema. Questi simboli religiosi nascono da esperienze antropologiche, umane e Dio è pensato dentro questa cultura: dunque un Dio funzionale ad una evidenza culturale che potremmo considerare come propria dell'uomo armato di clava. Non la vita di tutti e due, ma la vita di uno a prezzo della morte dell'altro.

Una seconda linea, o sfaccettatura dell'immagine di un Dio che ricorre alla violenza come mezzo utile, parla di violenza a servizio di un diritto da lui stesso stabilito.
Ad es. nel libro di Giosuè si narra la conquista a mano annata della terra promessa. Dio ha promesso ad Israele la terra di Canaan abitata dai Cananei, comanda pertanto a Giosuè, capo dell'esercito israelita, di annientare i Cananei ed egli stesso interviene come guerriero.
La violenza di Dio in questo caso è coniugata strettamente con quella degli uomini, del suo popolo. Lo schema culturale evidente è quello della guerra santa (sui giornali leggiamo spesso della guerra santa degli sciiti). In realtà più che di guerra santa bisognerebbe parlare di guerra di Dio, condotta da lui, di guerra di
Jahvè.
Questo schema ideologico che pensa Dio come un guerriero che combatte a favore del suo popolo è presente in tutta l'area culturale. Alle guerre di Jahvè corrispondono quelle di Marduk, quelle di Ishtar; in breve gli dei combattono per i loro protetti.

Un altro schema ideologico sta dietro il libro di Giosuè elaborato dai circoli deuteronomistici che rappresentarono un rilevante filone teologico in Israele.
La conquista storica della terra promessa in realtà è stata poco violenta. Fu infatti un fenomeno essenzialmente di infiltrazione pacifica dei nuovi venuti dal deserto verso la terra coltivata abitata dai Cananei. Ma a noi non interessa tanto quello che è successo, quanto i simboli religiosi, ossia come i circoli deuteronomistici, che si sono espressi nel libro di Giosuè con un racconto epico, hanno pensato, immaginato e vissuto il dono della terra.
Essi hanno coniugato l'ideologia della guerra del Dio dell'area culturale a cui appartenevano con una ideologia di tipo giuridico: Dio fin dall'eternità ha stabilito che la terra di Canaan è di Israele. Allora la guerra per espellere i Cananei dalla terra è legittima, si basa cioè su un diritto divino di fronte al quale il diritto di usucapione dei Cananei che da secoli possedevano ed abitavano quella terra viene meno. La guerra di Dio è una guerra legittima perché Dio stesso fa valere il diritto divino del suo popolo contro un diritto umano di un altro popolo.

Sappiamo che intorno al dono della terra promessa c'è stata tutta una elaborazione teologica, in realtà il dono della terra promessa è una terra strappata ai legittimi possessori e data al popolo per il quale vale il diritto di Dio, un diritto insindacabile.
Questo popolo non ha una sua terra di origine, si è formato al di fuori di una propria terra. Era un raggruppamento di alcune tribù israelitiche che si trovavano in Egitto da cui sono uscite. E poiché la terra loro promessa era occupata da altri, questi ultimi vanno espulsi anche con la violenza.

Una terza linea, o sfaccettatura dell'immagine del Dio violento per cause nobili, gli ha attribuito una violenza rivendicativa di diritti personali lesi, nel senso latino di
vindicta juris. Ciò richiama il grande tema della vendetta, come risulta in diversi Salmi, anche se ritoccati durante la riforma liturgica. Non c'è in essi solo l'invocazione a Dio di un oppresso perché lo liberi, richiesta del tutto nobile, c'è anche l'invocazione a Dio perché intervenga con violenza contro l'oppressore e gli schianti la mascelle.
Per es., il Salmo 7,7 invoca:
«Sorgi Signore, nell'ira tua scagliati contro la rabbia dei miei nemici». Dio è pensato e vissuto come difensore dei giusti e vendicatore, nel senso letterale del termine, degli innocenti e degli oppressi e usa a tale scopo la violenza. Non si immagina un altro modo per ottenere la propria giustizia. La violenza di Dio invocata è legittimata dalla bontà della causa che è quella di rendere giustizia.

Una quarta sfaccettatura dell'immagine di Dio che ricorre alla violenza è quella della violenza punitrice della colpa del popolo, dei popoli, delle persone. È questa una sfaccettatura importantissima e diffusissima. Lo schema culturale entro cui Dio è immaginato è quello dello stretto legame tra colpa e pena. Là dove c'è la colpa deve corrispondere una pena. Abbiamo qui uno schema ideologico di carattere giudiziario.
È lo schema a cui ricorrono le società organizzate per contrastare le espressioni di violenza, ossia irrogare pene esemplari ai colpevoli affinché la voglia di trasgressione della legge sociale o morale non si traduca in atto.
Dio è immaginato come un giudice, un giudice soprattutto sanzionatore della colpa, che punisce. A differenza dei giudici umani che non sempre giudicano in modo imparziale, questo Dio è assolutamente imparziale, è un Dio giusto. Tema importante della Bibbia è
il giusto giudizio di Dio. Là dove c'è la colpa, là c'è una pena esemplare che Dio stesso si incarica di irrogare.

L'esempio classico è il diluvio raccontato nei capp. 6,7 e 8 della Genesi in cui c'è la manifestazione di un caos che entra nel mondo appena creato, nell'umanità all'alba.
Secondo la tradizione Jahvistica il male caotico, che ha corroso il mondo e la storia, è il peccato in senso generale. Ma secondo la tradizione sacerdotale, una tradizione pacifista al massimo in quanto abolisce la violenza tra gli uomini e la esporta in Dio, il caos è entrato nel mondo per la violenza, la violenza degli uomini contro gli uomini o contro gli animali, oppure degli animali contro gli animali o contro gli uomini, ossia tra i viventi. Infatti in
Gn 6,11 e 13 c'è la motivazione del diluvio: «La terra era piena di violenza», ossia di hamas (oggi in Palestina vi è un movimento che si chiama hamas, parte del movimento palestinese che usa volentieri la violenza per fini politici, per l'indipendenza della Palestina).
A questa violenza che è intervenuta nel mondo e che lo rende inabitabile, risponde Dio come giudice che colpisce il male, la colpa, la violenza con la violenza ed opera l'annientamento dell'umanità salvando solo la famiglia di Noè da cui trae fuori un nuovo mondo ed una nuova umanità. Noè è il nuovo Adamo. Ma si noti la concezione che ci vuole un atto di violenza per purificare il mondo e l'umanità dalla violenza.

Un altro esempio classico è la distruzione di Sodoma e Gomorra. Dio giudice giusto ed imparziale sarebbe pronto a risparmiare la città se nella città ci fossero solo cinque giusti, cinque innocenti. È quindi un giudice che non fa di ogni erba un fascio, non distrugge una città dove ci sono dei giusti. Nella preghiera di Abramo che vuole risparmiare le due città vi è una continua diminuzione del numero di giusti, da 50 a 40 fino a che non ce n'è nemmeno uno ed allora arriva il fuoco distruttore sulle due città.

Il tema di Dio giudice, punitore dei colpevoli, è l'elemento più diffuso nella Bibbia ebraica ed in quella cristiana. Rientrano in tale filone il giudizio storico, cioè realizzato nella storia, e il giudizio finale, quando un atto di estrema violenza da parte di Dio è pensato come capace di restaurare un mondo di pace che è il mondo finale, il Paradiso se vogliamo.
Da questo punto di vista Gesù stesso è stato vittima di questo schema religioso, che era allora una evidenza culturale, ma che dura ancora oggi, essendo noi ancora intrisi di tale schema, cioè della stretta connessione tra colpa e pena, ed una pena adeguata alla colpa. Gesù stesso si richiama spesso al fuoco della
gheenna, come nel testo così straordinario di Mt 25 dove quelli che aiutano i fratelli più piccoli di Gesù, ossia quelli che danno loro da mangiare, da bere, etc. entreranno nel Regno, mentre gli altri saranno mandati al fuoco eterno.
Paolo ha, tra l'altro, elaborato una teologia tutta incentrata su Dio che viene non a condannare, ma a salvare l'umanità colpevole. Alla colpa non segue la pena, ma la grazia. Paolo vuole convincere non solo i pagani, ma anche i giudei, che sono tutti colpevoli, inescusabili:
«non c'è uno che non faccia il male», dice. Ma la reazione è che Dio fa grazia a questa umanità colpevole. Però Paolo aggiunge che, se gli uomini non accettano l'annuncio di grazia attraverso la fede. vi sarà l'ira finale di Dio da intendere come forza distruttiva, ossia come violenza.

A conclusione di questo filone maggioritario possiamo dire che abbiamo un Dio bifronte, fonte di vita per gli uni e di morte per gli altri, anzi di vita per gli uni attraverso la morte agli altri; che salva gli uni condannando gli altri; che soccorre l'oppresso abbattendo l'oppressore; che premia i buoni e castiga i cattivi; che accoglie nel suo Regno di luce gli osservanti della sua legge morale e rinserra nell'inferno i trasgressori. Potente della potenza costruttiva ed altrettanto di quella distruttiva, questa è l'evidenza culturale della onnipotenza divina.
In altre parole abbiamo un Dio immaginato e vissuto come
mysterium fascinans et mysterium tremendum. Così il filosofo della religione Rudolf Otto nel suo libro II sacro, tradotto in italiano da Buonaiuti negli anni 30, afferma che in tutte le nostre religioni occidentali la divinità è intesa come bifronte, ossia come mysterium fascinans, cioè affascinante perché è una realtà di amore, di pietà, di accoglienza, ma anche come un mysterium tremendum, cioè dotata di una forza tremenda, distruttiva. Una divinità che per un certo verso attrae ma che per un altro verso respinge.



2. Secondo filone biblico. Minoritario, ma presente

Abbiamo però nella Bibbia anche un altro filone nettamente minoritario, ma originale che faticosamente si fa strada, sostenuto da alcune grandi personalità religiose che, anche se con contraddizioni, puntano verso un traguardo preciso: immaginare, pensare, vivere un Dio senza violenza, cioè un Dio con una sola faccia, che è solo mysterium fascinans, mentre il mysterium tremendum viene assegnato all'umanità, all'uomo, al mondo.
L'esperienza religiosa di queste persone ha colto l'alterità di Dio in quanto
mysterium fascinans. La loro originalità è di contrastare quel meccanismo per cui noi esportiamo al di fuori la violenza che è in noi. Essendo la violenza una forza così spaventosa, così distruttiva, c'è la tendenza ad esportarla, a metterla al di fuori di noi, a metterla in Dio.
La violenza è solo degli uomini. I violenti, sia pure a fini nobili, abitano non il cielo ma la terra. La violenza è di casa tra gli uomini e non è esportabile in Dio che, anche in questo, anzi soprattutto in questo, è altro dall'uomo. Dio è vissuto come fonte della vita, incapace di violenza e di dare morte a chicchessia. Dio è compreso come lottatore a difesa dei giusti e del vero, ma senza le armi della violenza.

Una prima linea caratteristica di questa immagine di Dio è la tutela della vita, anche dell'omicida. Si esce dallo schema rigido della colpa e della pena.
Caino aveva commesso una colpa gravissima, era un fratricida. In
Gn 4 ben 16 volte in un breve racconto ricorre il vocabolo “fratello per significare l'enormità della colpa. Secondo la percezione religiosa del tempo, a Caino doveva essere comminata una pena di morte ed in Gn 9 è riportato il diritto stabilito da Dio, quindi inviolabile: «chi sparge il sangue dell'altro, il suo sangue sarà sparso», frase molto arcaica di diritto sacrale il cui significato è: chi violenta mortalmente l'altro, subirà la pena di morte. Quest'ultima era lo strumento per poter arginare tendenze omicide.
Nel racconto di Caino ed Abele la cosa più evidente è che Caino doveva essere condannato a morte, ma invece Dio non lo condanna a morte. Caino è condannato ed esiliato in una regione deserta perché la terra coltivata non può sopportare il fratricidio. Caino al di fuori della protezione del suo clan si sente perduto perché c'è l'obbligo da parte dei parenti dell'ucciso di eseguire la vendetta. Allora Dio dice:
«Io porrò su di te un segno perché chiunque ti incontri non ti uccida». Tutto questo è straordinario perché Dio è pensato al di fuori dello schema rigido colpa-pena. Dio tutela la vita dell'omicida.

Una seconda linea, o sfaccettatura di questa immagine unifronte di Dio, è a tutela della vita dei popoli nemici. Nel libro di Giona ed in particolare nell'ultimo dialogo tra il profeta e Dio, Giona si lamenta perché anche la pianticella, che gli recava un po’ di sollievo dalla calura estiva, si è essiccata. Egli dice a Dio di voler morire perché stufo di vivere. Dio gli risponde:
«tu ti preoccupi per la vita di una pianticella ed io non dovrei preoccuparmi della vita di centinaia di migliaia di persone e di animali che sono a Ninive?». Ninive era il simbolo del nemico più acerrimo di Israele e Dio ha a cuore la sua vita.
Lo schema abituale di pensiero era quello di Dio a difesa della vita del suo popolo, ma contro la vita del nemico d'Israele. Invece qui si ha un Dio che, al di là del bene e del male, difende la vita dei niniviti e dei loro animali.

Una terza sfaccettatura dell'immagine unifronte di Dio è quella del perdono. Col perdono da parte di Dio si esce dallo schema rigido della colpa e della pena, cioè alla colpa non succede la pena, ma il perdono. Il perdono non è da intendere come un colpo di spugna su quello che è stato fatto, ma una reazione di Dio verso i colpevoli che dona loro nuove possibilità per il futuro.

Nell'incontro di Gesù con l'adultera,
Gv 8, Gesù dice: «Nemmeno io ti condanno, va e non peccare più». Ossia davanti a te c'è una possibilità, un futuro diverso ed io ti apro questa possibilità, questo futuro. In tal senso è da intendere il perdono.
Il perdono viene dato da Dio ai colpevoli solo qualche volta; in Geremia Dio dice:
«Io non voglio più perdonare questo mio popolo».
La situazione si chiarisce meglio se consideriamo la differenza tra Giovanni Battista e Gesù. Giovanni Battista era convinto che l'umanità era colpevole, non solo i pagani, ma anche i giudei e che mancava ancora poco alla fine della storia. Per questo diceva:
in questa ora ultima l'unica possibilità per tutti gli uomini è di convertirsi e battezzava in segno di penitenza.
Le due immagini del vaglio sull'aia per la separazione del grano dalla pula e dell'accetta che è ormai alla radice dell'albero, oltre ad essere molto impressionanti, vogliono significare che manca poco all'ultima ora e ad un intervento terribile e distruttivo che si può evitare solo pentendosi.

Gesù che per un po’ di tempo era stato a scuola dal Battista condivideva due convinzioni di quest'ultimo: che l'umanità, tanto i gentili che i giudei, fosse colpevole e che la fine della storia fosse abbastanza vicina. Ma secondo lui l'ora ultima non è occupata dall'esigenza di convertirsi e far penitenza per entrare nella vita, ma da una iniziativa di grazia e quindi di perdono di Dio per l'umanità. Il suo lieto annuncio del vangelo consiste proprio in questo:
è venuta l'ultima ora ed è la grande, decisiva ed ultima opportunità che Dio vi offre, cioè la possibilità del perdono.
Mentre per il Battista c'è il dovere della penitenza e Dio accoglie il penitente, per Gesù non è la penitenza la condizione del perdono, ma quest'ultimo viene dato in modo aprioristico come possibilità di cambiamento. Quindi alla colpa non succede la pena, ma una possibilità di riscatto, una possibilità nuova, creativa, che poi è il tema della grazia o del dono di Dio.

La quarta sfaccettatura del filone del Dio unifronte è offerta da Gesù che vive ed immagina Dio come amore indiscriminato. Gesù era di cultura contadina, viveva nella campagna ed osservava gli uccelli nel cielo ed i fiorellini del campo, etc. Aveva molto presente nella sua anima l'immagine di un Dio che fa sorgere il sole e fa piovere (il sole, il calore, l'acqua, in una regione che per di più ne era scarsa, sono le fonti della vita per l'umanità) sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti (i giusti sono quelli che accettano la volontà di Dio a differenza degli ingiusti). Dunque abbiamo l'immagine di un Dio che ha un amore benefico, fonte degli elementi della vita per l'umanità. Ed è fonte di vita indiscriminata per i buoni ed i cattivi, per chi lo accetta e chi non
lo accetta.

È un Dio che non entra nel meccanismo mimetico che per René Girard è la fonte della violenza, cioè tu mi rifiuti ed io ti rifiuto, tu mi accetti ed io ti accetto, ossia il meccanismo di far seguire all'azione dell'altro una azione eguale e contraria. È un Dio antimimetico, un Dio asimmetrico, ci sono i buoni ed è evidente che ad essi dà il suo sole e la pioggia, ma per Gesù è altrettanto evidente che anche a chi lo rifiuta dà parimenti il sole e l'acqua, ossia la vita.

C'è dunque il superamento di un altro schema molto presente nell'esperienza religiosa, quello della contrapposizione tra l'amico ed il nemico, tra chi ci accetta e chi ci rifiuta. Lo schema operativo è: amico degli amici e nemico dei nemici. Gesù enuncia il comandamento dell'amore dei nemici
(Mt 5,45-48), un amore fattivo, non un sentimento benevolo nei confronti dei nemici. Il comandamento dice di reagire ai nemici come si reagisce agli amici e porta come motivazione la suddetta immagine di Dio. Ciò fa capire come il simbolo religioso si traduce in un codice o regola di comportamento. Dio di fronte al destino ultimo dell'uomo che è vita e morte, non è colui che egualmente dà la vita o la morte secondo la logica del buono e del cattivo, ma dà solo la vita, mentre la morte viene dall'uomo.

Questa è la soluzione che si trova nel vangelo e nelle lettere di Giovanni. Mentre in Paolo il tema della
orghé (ira), della potenza distruttiva di Dio, è ancora forte, nel vangelo di Giovanni (non nell'Apocalisse che non è di Giovanni) il tema della orghé è trattato solo una volta.
Giovanni ha riflettuto molto sul fatto che Dio si è espresso al massimo nel donare suo figlio e precisa che lo ha mandato nel mondo non per condannare il mondo, ma perché chiunque creda abbia la vita (cap. 3). Attraverso una meditazione molto approfondita i gruppi giovannei, che come già accennato erano molto settari, hanno pensato che questo Dio che ha avuto il coraggio di donare l'unico suo figlio al mondo non può essere un Dio animato da un meccanismo di condanna, neppure verso il violento, l'empio, il malvagio. È un Dio che si esprime tutto nel dono. Non è quindi Dio che condanna. La condanna è solo una autocondanna:
chi ama la tenebra, resterà nella tenebra, chi ama la morte, la morte avrà.

Quindi nello schema del
mysterium fascinans et mysterium tremendum, le comunità giovannee hanno afferrato il primo aspetto dello schema, il mysterium fascinans, mentre quello tremendum, violento, mortifero, distruttivo, è stato messo nell'uomo che se ne assume tutta la responsabilità. Così i meccanismi della violenza, della morte non sono stati proiettati dall'uomo in Dio. Dio è scevro da questi meccanismi.

L'ultima sfaccettatura del filone del Dio unifronte riguarda l'era dei martiri scoccata nel 2° secolo prima di Cristo quando l'impero dei Seleucidi, costituito a seguito della spartizione dell'eredità di Alessandro Magno, dominava in Palestina e impose agli ebrei l'ellenismo non solo come fatto culturale, ma anche religioso, per cui gli ebrei non si potevano più circoncidere, non potevano seguire la loro legge del Sinai, etc.
Si formò allora un movimento di reazione capitanato dai Maccabei che portò ad una stagione di martiri (era la prima volta che accadeva). La comunità ebraica non pensa allora ad un Dio liberatore dal nemico, schema che presiedeva tutta la tradizione dell'Esodo. Il proprio Dio resta salvatore, ma nel senso che crea una vita nuova per i martiri. Egli non può sopportare che siano nella morte quelli che hanno dato la vita per lui. C'è un processo per cui la salvezza non è più quella storica, non è più quella dell'abbattimento dei nemici, ma è una salvezza sulla linea della resurrezione dei poveri, dei crocefìssi, dei martiri. Quelli che hanno amato la vita fino al punto da donare la propria, questi avranno la vita da Dio.
In conclusione abbiamo questa seconda immagine di Dio, pensato come non violento, privo della potenza violenta e capace solo di potenza di vita, unifronte. Dio esclusivamente
mysterium fascinans, un Dio di puro amore, come l'eretico Marcione voleva che fosse.



3. Valutazone delle due rilevazioni

Circa la valutazione delle due immagini, da una parte abbiamo un archetipo culturale con tutti gli aspetti ideologici intervenuti nella produzione dell'immagine di Dio bifronte e dall'altra abbiamo una originalità assai creativa, cioè l'immagine di un Dio che non assomma tutto il reale e quindi anche la violenza ed i meccanismi di morte, ma di un Dio parziale. Non è un Dio onniavvolgente, un Dio
summa della realtà, ma un Dio che è solo mysterium fascinans, mentre l'aspetto tremendo interessa la storia ed abita sulla terra, tra gli uomini.

Queste due immagini sono contraddittorie, un Dio bifronte ed uno unifronte. Il primo copre più del 90% della Bibbia ed il secondo solo un 10%. Questo è il punto di vista storico.
Se volessimo fare una valutazione teologica dovremmo dire che di fronte all’archetipo culturale stanno delle percezioni profetiche che hanno intuito qualcosa di reale di questo mistero divino, per cui sono sensibili come voci della rivelazione divina di cui si è parlato nella seconda lezione. Ma questa è un'estrapolazione, un'incursione in un campo, quello teologico, che non è nella linea di questo corso.
Lo voglio qui precisare per non ingenerare equivoci. La valutazione storica e non confessionale è che la Bibbia ebraica e quella cristiana testimoniano, a proposito delle immagini di Dio, due schemi contrapposti, l'uno frutto di stereotipi religiosi, generali, l'altro frutto della creatività di persone capaci di liberarsi dal peso di archetipi antropologici e di credenze culturali molto forti. La struttura è stata vinta dalla personalità e libertà di uomini straordinari.





DIBATTITO



1.
La famosa frase molti sono i chiamati e pochi gli eletti a quale filone appartiene?

Manifestamente al primo perché dove c'è l'esclusione c'è l'elemento della violenza, è una esclusione violenta. Naturalmente
molti sono i chiamati e pochi gli eletti alla vita vuoi dire che molli vanno alla morte e non alla vita.
I meccanismi sono tanti, però come ho cercato di dimostrare c'è un disegno abbastanza unitario sotto l'immagine di Dio bifronte. Anche Gesù ha pagato un prezzo del 20-30% al Dio bifronte nella credenza del giudizio che è lo zoccolo duro della violenza immessa in Dio. Gesù non è riuscito completamente a liberarsene ed in lui coesistono stranamente i due schemi, anche se in dosi assai diverse.
Paolo ad es. aveva, a mio avviso, tutti i presupposti teologici per riuscire nella soluzione ed invece il peso culturale è stato così condizionante che anche uno spirito avvertito come il suo, un sottile uomo di riflessione quale egli era, non è riuscito fino in fondo.
I gruppi giovannei invece, venuti un po’ più tardi,
sono riusciti a superare lo zoccolo duro della violenza in Dio, cioè di immaginare, pensare, vivere un Dio come un Dio giudice, sanzionatore del bene e del male. Notare che un Dio siffatto fa molto comodo ad una società civile e anche alla comunità religiosa perché sanzionare il bene ed il male vuol dire favorire le adesioni al bene e quindi la tranquillità e la pace sociale.


2. La confessione, la remissione dei peccati ossia della colpa e quindi la sanzione per mezzo delle preghiere da recitare, vorrei sapere come tutto ciò si inserisce in quello che lei ha detto.

La confessione è un rito e va distinto dalla penitenza. Infatti gli scolastici medievali distinguevano tra penitenza come
virtus e confessione come sacramento, ossia come segno.
La penitenza è quell'atteggiamento autoriflessivo della persona che riconosce il suo sbaglio, il suo errore, la sua devianza. Noi abbiamo nella tradizione cattolica, molto moralistica, poco paolina, la penitenza come una virtù che siamo chiamati a realizzare. Se invece si leggono i testi evangelici, soprattutto Luca, troviamo che il lieto annuncio riguarda il perdono dei peccati, cioè il perdono dei peccati è una possibilità di grazia, una possibilità donata. Per Gesù, per Luca, per Paolo l'uomo si è così intestardito nei suoi meccanismi di morte che ha perduto ogni possibilità di uscirne.
Come diceva Geremia, l'uomo ha perduto la direzione dei suoi passi, l'uomo che cammina nella vita sbaglia continuamente strada e non ha più il potere sui suoi passi. II perdono è una possibilità nuova donata da Dio, è la possibilità di grazia, del riscatto del ricrearsi, del rifarsi una vita nuova. È questo l’aspetto cristiano, ma anche l’aspetto della Bibbia ebraica, la possibilità nuova che dà Dio fonte di vita. L’uomo è un giocatore che ha perduto tutte le carte da giocare, è quindi finito, ma Dio gli dà nuove carte da giocare, questo è il perdono di Dio. Dio non dice:
gioco io al posto tuo, no. Rimette in gioco continuamente il giocatore fallito. Questa è la tradizione biblica. La confessione è un rito, un segno sociale che ha tutto il valore di un segno sociale e che deve guidare nella sua autenticità all'accoglimento del dono dell'autoriscatto.


3. L'immagine di Dio nel NT mi sembra in contrapposizione quasi totale con quella dell’AT, non capisco perché la chiesa cristiana accetti in maniera globale l'AT.

Nel II secolo il problema è stato posto in modo drammatico da Marcione. Questi era alla ricerca di un Dio di puro amore. Egli leggeva nella Bibbia ebraica cose orrende, piene di violenze e concluse che il Dio della Bibbia ebraica era il Dio creatore cattivo. Poi è venuto Gesù a rivelarci il Dio redentore di puro amore, l'unico che siamo chiamati a confessare.
Secondo Marcione dovremmo buttare a mare non solo l'AT, ma addirittura parti del NT, quelle legate alla tradizione giudaica perché espressioni del Dio cattivo. Marcione ebbe un successo strepitoso nel secondo secolo, i suoi preferiti erano Paolo e Luca, ma depurava anche questi dalle parti non rientranti nel suo schema.
La reazione della chiesa fu di scomunicare Marcione, una scelta assolutamente positiva e di mantenere come parte della propria Bibbia anche la Bibbia ebraica.

II problema non è: nell'AT c'è un Dio violento mentre nel NT un Dio d'amore. Non è vero. Lo zoccolo duro dell'immagine violenta di Dio è la credenza del giudizio ed è altrettanto presente nella Bibbia ebraica che in quella cristiana. Da questo punto di vista si è talvolta data una soluzione apologetica: l'AT non è stato eliminato, ma la Bibbia ebraica è stata intesa in antitesi al vangelo.
È ciò che dice anche Bultmann. Peraltro tutta la teologia di Bultmann è costruita sulla dialettica tra la religione della legge e quella del vangelo (non è il caso qui di esaminare anche gli aspetti antisemitici presenti nella teoria di Bultmann). Ma è ingiusto e scorretto attribuire il Dio violento solo alla tradizione ebraica. Lo zoccolo duro dell’immagine violenta di Dio, cioè il Dio giudice, sanzionatore è presente tanto nell'AT che nel NT, soprattutto se pensiamo che anche Gesù è stato creditore di questo zoccolo duro, anche se altri aspetti dell'immagine di Dio in Gesù sono di amore indiscriminato.

L'esperienza dei gruppi giovannei ha avuto il merito del superamento di tale zoccolo. Quindi la soluzione del problema non sta nella distinzione tra l'AT ed il NT dicendo che nella Bibbia ebraica c'è violenza ed in quella cristiana no. Neppure la soluzione evoluzionistica mi sembra valida, cioè che la violenza è maggiore nella Bibbia ebraica e diminuisce in quella cristiana solo perché questa è venuta dopo in ordine di tempo.
È una soluzione facile solo dal punto di vista apologetico, ma non è una buona soluzione.
La soluzione più vicina ai dati di lettura della Bibbia ebraica e di quella cristiana è
la distinzione tra l'archetipo culturale del primo schema e l’originalità del secondo schema in cui alcune voci faticosamente e anche contraddittoriamente attestano un Dio unifronte.


4. A me pare che una lettura un po’ univoca dell'AT secondo lo schema della violenza sia parziale perché anche nell'AT ci sono decine e decine di immagini di un Dio tenerissimo che tiene l'anima sulle ginocchia, che anche se una madre si scordasse di suo figlio Dio non lo scorderà, etc. Quando lei dice sanzionatore si può anche dire giusto remuneratore ed il giudizio non è solo di sanzione, ma anche di premio. C'è una sopraffazione continua dell'AT con una lettura di violenza, di assolutismo, di paternalismo un po’ eccessivo.

Nel mio libro ho di fatto contrastato tutte le posizioni apologeticamente facili per i cristiani, ma che ritengo ingiuste e scorrette. Il problema è proprio lì, ci sono i due aspetti. Gli uomini della Bibbia ebraica come quelli della Bibbia cristiana hanno elaborato i due schemi, le due immagini che sono, a mio giudizio, sostanzialmente in parità nelle due Bibbie.

Ninive non è stata distrutta perché ha fatto penitenza, si era messa la cenere sul capo.

Nel libro di Giona non ci si può fermare al cap. 3 che è solo un momento intermedio. Siamo ancora nella teologia del deuteronomista secondo la quale Israele era in esilio, castigata da Dio per il suo peccato e le possibilità del ritorno. ossia della vita, erano legate alla conversione. L'ultimo dialogo tra Dio e Giona invece prescinde dalla penitenza perché il confronto è tra la pianticella amata da Giona e le decine di migliaia di uomini ed animali di Ninive dove si ha un Dio
di parte a favore della vita degli uomini.


5. Debbo dire che i personaggi del Salterio che chiedono, nella loro debolezza verso il male, aiuto a Dio e manifestano anche una certa violenza, mi stanno più simpatici di una certa tradizione religiosa che ha predicato la mortificazione, il non ribellarsi, salvo poi applicare alle istituzioni una violenza molto tranquilla, però anche molto forte, come ad es. quella che fuori della chiesa non ci sia salvezza. Tutti gli altri vanno esclusi, chi non la pensa come l’istituzione sbaglia comunque.
Anche a livello psicologico ho la sensazione che c'è stata tutta una spiritualità cristiana che ha insegnato la religione come mortificazione, docilità, senza il recupero di quelle energie vitali, anche aggressive, che sono molto importanti.


I motivi sono diversi. Il problema dei salmisti che sta al centro della preoccupazione dell'uomo ebraico e dell'uomo cristiano, come appare nelle rispettive Bibbie, è il problema della giustizia. Anzi c'è l'esigenza di giustizia ancora prima di una immagine di Dio.
Prima la giustizia era attesa da Dio nella storia e poi quando ci si accorse che troppo spesso non si conseguiva si pensò alla escatologia, cioè alla fine della storia, ma la sete di giustizia c'è stata sempre. Non si può immaginare un uomo biblico senza la fiducia cieca nella giustizia. Sarebbe uno slancio di speranza irrazionale. La sete di giustizia era tanta che non si guardava molto per il sottile.

La cosa più importante per tutti, ed anche per noi, è togliere alla violenza la maschera, cioè riconoscere che la violenza non è una forza positiva. Se invece riconosciamo alla violenza una validità, allora possiamo immaginare un Dio violento. Il vero problema è quindi l'idealizzazione della violenza, della forza distruttiva ai fini di costruire. Che cos'è ad es. questo grande segno del giudizio ultimo, se non un estremo gesto di violenza di Dio dal quale nasce il nuovo mondo?
Il problema vero che serpeggia in tutta la Bibbia, problema anche per tutti noi, è esattamente questo: se noi diamo fiducia alla violenza per conseguire le più nobili idealità, oppure se noi la smascheriamo e la vediamo per quella che è, ossia forza distruttiva e basta. Su questo si gioca l’una o l'altra percezione di Dio. È interessante che nell'era dei martiri non si trovi la richiesta di un Dio guerriero, ma la speranza in Dio resuscitatore. Ciò non vuoi dire che nella storia i martiri non si battono. Il problema è, in altre parole, se riteniamo che la forza distruttiva sia in qualche modo positivamente concorrente a creare la vita, ossia che la morte sia produttiva, benefica, costruttiva.
Nella
1 Cor 15 Paolo scrive che la morte è l'ultimo nemico dell'uomo, l'ultimo nemico di Dio, l'ultimo nemico di Cristo. La signoria di Cristo sarà piena quando Cristo avrà vinto l'ultimo nemico anche in noi, non solo in se stesso come è stato nella resurrezione.
Il problema è se noi attribuiamo alla morte ed alle forze distruttive una validità per creare vita, oppure se noi abbiamo una visione smitizzata delle forze di morte, delle forze distruttive. Il problema si pone non solo per i salmisti ma per tutti gli uomini, credenti e non credenti.


6. Come mai c'è tanta differenza tra l'Apocalisse ed il vangelo di Giovanni che sono attribuiti alla stessa persona? C'è contraddizione all'interno della tradizione oppure è sbagliata l’attribuzione dell'Apocalisse?

Nell'Apocalisse quelli che chiedono vendetta non sono i salmisti, ma i beati in cielo. È un triste canto:
«Quando, o Dio, tu farai vendetta dei nostri nemici?». L'Apocalisse non è di Giovanni evangelista e rappresenta un altro filone, un altro mondo, infatti l'Apocalisse è piena di violenza con la quale Dio instaura un nuovo mondo.


7. Lei ha detto che Gesù parlando del giudizio in termini così radicali e michelangioleschi è stato condizionato culturalmente dalle categorie del suo tempo. Ma non potrebbe aver gettato un ponte su un qualcosa simboleggiato da questo giudizio?
Mi spiego: qualche anno fa stavo parlando dopo uno spettacolo teatrale e contestavo una persona la quale mi raccontava che nel dopoguerra intorno a Sartre, quindi in un ambiente non sospetto da un punto di vista confessionale, si era formata l'idea che alla fine della storia ci sarebbe stata una divisione in base a possibilità misteriose dell'uomo arrivando alle stesse conclusioni di Gesù in termini più laici. Tali conclusioni si riferivano alle possibilità dell'uomo sconosciute, ma che noi tutti abbiamo e che determinerebbero un giudizio dagli esiti sconvolgenti.


Quanto lei dice è molto interessante perché le forze nuove che Dio dona non vengono dal di fuori. Dio è la fonte dell'essere, delle possibilità naturali e non. Se ci si mette in una filosofia teistica, meglio nella fede, allora queste energie vitali sono riconosciute come dono di Dio e non frutto di noi stessi. Non capisco però qualche rapporto ci sia con la credenza di Gesù nella gheenna.

Cioè avverrebbe una specie di giudizio in cui ci sarebbe forse una umanità di serie A ed una di serie B, non tanto condannata ma non realizzata.

La visione biblica dell'esistenza umana è altamente drammatica. La possiamo riassumere secondo le parole di Mosè:
«Io oggi pongo davanti a te, o Israele, il bene ed il male, la vita e la morte, scegli la strada della vita perché tu abbia la vita». Questa è la percezione biblica: l'uomo nella sua vicenda temporale si gioca tutto.


8. Non c'è contraddizione tra il nuovo messaggio portato da Gesù, quello del perdono aprioristico, come lei ha detto, e la fine che ha fatto? Il Padre ha sacrificato il figlio e quindi la vita si ha attraverso la violenza, la morte.

II tema del sacrificio del figlio da parte del Padre sarà l'oggetto dell'ultimo incontro e quindi questa sera è stato tralasciato. Una delle categorie funzionali allo schema dell'attribuzione a Dio della violenza è quello vittimale del sacrificio. Il sacrificio è la sacralizzazione della violenza.

Sull'altro problema, se in Gesù stesso c'è questa contraddizione come in Paolo, dico che il secondo filone è maggioritario in lui, ma si afferma tra tante contraddizioni e tanta fatica. Il primo filone è invece espressione non solo di una cultura, ma anche di un arcaismo antropologico per cui non meraviglia che Gesù abbia pagato un certo prezzo a questo arcaismo.
Certo, il grosso dell'esperienza di Gesù è sull'altro versante, come anche la teologia di Paolo, anche se Paolo mantiene il retaggio culturale dell'ira di Dio e non si accorge della contraddizione. Se ne accorgono invece i circoli giovannei, i quali dicono che questo Dio che ha donato suo figlio per il mondo non può essere un Dio della condanna. Ed allora mettono la condanna nell'uomo.
È un'ottima soluzione, molto originale rispetto allo stereotipo del Dio bifronte che si serve della violenza, che si sottomette alla violenza. Nello schema del Dio bifronte il vero Dio è la violenza, la violenza entra in Dio e nel mondo. Ecco perché il problema primo è la smitizzazione della violenza, toglierle la maschera.

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