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3. Marco Ivaldo 6.02.1996

Bibbia > 4° Itinerario biblico: La sfida di Giobbe e le domande di oggi a Dio (1996)



trascrizone integrale


Giobbe e i filosofi



SOMMARIO

La mia esposizione prende in considerazione tre interpretazioni filosofiche di Giobbe
.
La prima è quella offerta da Kant nello scritto
Dell'insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea.
Giobbe è visto come rappresentante di quella che Kant chiama la “teodicea autentica”, contrapposta alla “teodicea dottrinale” degli amici di Giobbe, in quanto egli basa la sua fede sulla moralità (veracità dell'animo) e non la sua moralità sulla fede.

La seconda lettura di Giobbe è quella esposta da Karl Jaspers nell'opera
La fede filosofica di fronte alla rivelazione.
Qui l'interrogativo di Giobbe pone in questione Dio stesso, o meglio invoca “Dio contro Dio”, il Dio difensore contro il Dio che scuote la terra e sconvolge la via del suo servitore. Giobbe vuole che Dio e la verità cui egli incrollabilmente e con veracità crede non siano contrapposti, come a prima vista appare.
Nel confronto fra Giobbe e i teologi Jaspers vede lo scontro fra la libertà della fede che vuole la verità contro la speculazione dottrinale, ma vuota, dei teologi.

La terza lettura è quella di Paul Ricoeur nello scritto
Il male, una sfida alla filosofia e alla teologia.
Giobbe è il rappresentante della fede che crede
per nulla, ossia al di fuori del circolo della retribuzione e del supporto di una garanzia esteriore. In tal modo la fede di Giobbe risponde a un livello superiore alle discussioni senza fine della saggezza incarnata dagli amici teologi. La saggezza è, per Ricoeur, il secondo livello della speculazione sul male, dopo il livello del mito; ma la figura Giobbe appare come portatrice di un senso fondamentale anche e proprio dopo la dissoluzione delle teodicee moderne, in quanto è espressione di una saggezza che nasce dalla rielaborazione del sentimento di doglianza al di là della lamentazione. La conoscenza di Giobbe è conoscenza attraverso il dolore.




Il grido e l’interrogazione di Giobbe nei confronti di Dio hanno frequentemente attirato l'attenzione dei filosofi. Per orientarmi nella problematica ho ritenuto opportuno concentrarmi su tre letture filosofiche del libro di Giobbe: di Kant, di Jaspers e di Ricoeur. Gli ultimi due sono, ciascuno a suo modo, riprese originali del “kantismo perenne” nell’orizzonte contemporaneo della filosofia dell’esistenza e della filosofia dell’interpretazione. Da qui la mia scelta.

In sintesi:
Kant: Giobbe è espressione della teodicea autentica della veracità del cuore contro le teodicee dottrinali.
Jaspers: Giobbe è emblema della lotta per la verità e per Dio contro la “teologia”.
Ricoeur: Giobbe è testimone dell’amore a Dio
per nulla, oltre la logica della retribuzione e come autentica saggezza attinta attraverso il dolore.



1. Immanuel Kant: Sull’ insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea, 1791

Kant designa la teodicea come la difesa della somma saggezza dell’autore del mondo dalle accuse che la ragione formula contro di lui, muovendo da quanto di contrario a un fine accade nella creazione.

Tali accuse si volgono:
- contro la
santità di Dio in quanto creatore e legislatore per l’antitesi che il male morale rappresenta contro di essa;
- contro la
bontà di Dio in quanto governatore dell'universo, per il contrasto che gli innumerevoli mali e dolori degli esseri razionali presentano rispetto a tale bontà;
- contro la
giustizia di Dio in quanto giudice, per lo scandalo suscitato dalla sproporzione fra l'impunità dei malvagi e i loro misfatti.

Tutti i tentativi della teodicea per superare queste accuse, secondo Kant falliscono perché non si può risalire dal mondo dell’esperienza alla saggezza suprema, non si può risalire dall'interpretazione della natura all'intenzione finale del Creatore e comporre in un sapere unitario dottrinale la natura, dove vediamo male e dolore, e il disegno divino. Si apre, per Kant, soltanto uno spazio per una saggezza negativa
dei limiti del nostro conoscere.

Da qui la distinzione kantiana fra la teodicea dottrinale e una teodicea autentica, dischiusa da questa saggezza negativa.
Nella teodicea autentica si muove dalla ragione pratica come
voce di Dio, per conferire da qui un senso (etico) alla creazione; non si tratta allora di spiegazione dottrinale, ma di rinvenimento di un senso per l'esistenza di fronte alla realtà del male.

Gli amici di Giobbe rappresentano la teodicea dottrinale – per Kant fallace - fondata sulla logica della retribuzione (pena come punizione del delitto), a partire dalla quale essi ritengono di conoscere quale è la giustizia divina.
Giobbe
emblema, per Kant, della teodicea autentica – si dichiara invece a favore della incondizionatezza del decreto divino («se egli sceglie, chi lo farà cambiare?» Gb 23, 13), della assoluta libertà di Dio, rispetto alla quale riconosce il suo sapere di non sapere.
Allo stesso tempo egli protesta che la propria coscienza non gli muove rimprovero («la mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni»
Gb 27,6), anche se sa di non essere senza errori; a quest'ultimo proposito aggiunge però che Dio è certamente consapevole che egli è soltanto una fragile creatura («Perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia iniquità?» Gb 7, 21). Giobbe è in definitiva certo in retta coscienza di non avere distolto il suo orientamento fondamentale da Dio.

Kant sostiene: Giobbe parla come pensa, sua caratteristica è la veracità, la sincerità del cuore. Gli amici parlano come se Dio li ascoltasse e li approvasse: a
loro sta più a cuore entrare in grazia di Dio che la verità. Questo fa per Kant la differenza.
Egli conclude perciò:
«Soltanto la sincerità del cuore, dunque, e non la superiorità del conoscere, soltanto l'onestà di confessare apertamente i propri dubbi e la ripugnanza a fingere ipocritamente una convinzione non sentita e soprattutto a fingerla dinanzi a Dio (dove questa astuzia è senz'altro assurda): sono queste qualità che nel giudizio divino hanno deciso a favore dell'uomo onesto, nella persona di Giobbe, contro il pio adulatore. Ma la fede che nacque in lui da una così sorprendente dissoluzione dei suoi dubbi, e cioè semplicemente dal convincimento della propria ignoranza, poteva sorgere unicamente nell'anima di un uomo che, in mezzo ai dubbi più vivi, era capace di dire (XXVII, 5, 6,): Finché non giungerà la mia fine, non voglio recedere dalla mia pietà, e cosi via. Con questa intima convinzione egli infatti dimostrava che la sua moralità non si fondava sulla fede, bensì la fede sulla moralità: in questo caso la fede, per quanto fragile possa essere, è tuttavia di un genere schietto e puro, di quel genere, cioè, che fonda una religione non della richiesta di favori ma della buona condotta» (Sull'insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea, tr. it. in I. Kant, Questioni di confine. Saggi polemici 1786-1800, Marietti, Genova 1990, p. 34).




2. Karl Jaspers: La fede filosofica di fronte alla rivelazione, 1962 (tr. it. Longanesi, Milano 1970)

Punto fondamentale della lettura jobica di Jaspers è il seguente: egli mette in luce che nell'interrogare di Giobbe è
in questione Dio stesso.
Le parole di Giobbe mirano a Dio: Giobbe vuole che la giustizia divina sia verità. Giobbe non vuole un giudizio fra lui stesso e Dio («Come può un uomo aver ragione dinnanzi a Dio?»
Gb 9, 2), ma invoca Dio contro Dio, il Dio suo difensore («Ma ecco, fin d'ora il mio testimone è nei cieli, il mio mallevadore è lassù» Gb 16, 19; «Io lo so che il mio vendicatore è vivo» Gb 19, 25) contro il Dio che scuote la terra, che ha gettato le sue reti intorno a lui e che non offre risposta («A sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» Gb 23, 9).

«Questa è la situazione per Giobbe: Dio contro Dio. Dio che fa valere la verità, il difensore, il testimonio, colui che difende, contro il Dio despota di fronte al quale egli è preso da angoscia e da orrore. Giobbe vuole Dio e la verità. Il suo unico pensiero, la sua sola passione è trovare che Dio e verità non si contraddicono, ove pure sembrano tanto abbondantemente contraddirsi» (tr. it. cit. p. 456)

Nella teofania finale del libro Dio - annota Jaspers – riporta Giobbe nei suoi limiti (emerge il tema kantiano della saggezza negativa, sapere di non sapere) e lo perdona per la sua
veracità. «Giobbe ha voluto sapere ciò che nessun uomo può sapere, i teologi hanno preteso di sapere ciò che nessun uomo sa» (tr. it. cit. 461).

Questo fa la differenza. Dio vuole la veracità, non l'ubbidienza cieca, vuole libertà, non dedizione passiva.
La nuova felicità di Giobbe non è una ricompensa, ma una conseguenza del suo atteggiamento fondamentale retto di fronte a Dio.
Nel suo interrogare Dio Giobbe non vuole una dottrina, ma la verità. Egli incarna la ribellione della fede che vuole la verità. La ribellione di Giobbe consiste nel fatto che egli non si affida a una dottrina ma a Dio. Non esiste devozione senza commozione, a differenza di quanto fanno i “teologi”;
esiste dedizione a Dio senza domanda. La fede di Giobbe nasce in definitiva da una libertà che vuole la verità di Dio.



3. Paul Ricoeur:
II male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, 1986 (tr. it. Morcelliana, Brescia 1993)

Il rapporto fra il male fisico e il male morale, il male sofferto e il male commesso, è secondo Ricoeur una sfida perenne alla filosofia e alta teologia. Vi è una radice comune del male fisico e del male morale? un unico mistero di iniquità?

Ricoeur distingue nella storia della cultura diversi livelli di speculazione sul male alla ricerca di una risposta a questi interrogativi: il mito, la saggezza, la speculazione ontoteologica (Agostino), la teodicea moderna, la dialettica spezzata (Barth).

La figura di Giobbe emerge in due momenti fondamentali della trattazione ricoeuriana: l'atteggiamento jobico indica un superamento delle aporie della saggezza dottrinale ed è espressione di un modo di
sentire con cui è possibile fare fronte alla realtà del male dopo il fallimento dei tentativi della teodicea moderna.

La saggezza
è un livello di speculazione che va oltre la esplicazione del mito. Il mito cerca di rispondere narrativamente alla domanda: donde viene il male. La saggezza cerca di rispondere alla domanda: perché io soffro. Con questa domanda la lamentazione si fa doglianza.
La saggezza – caso emblematico gli amici di Giobbe - passa dal racconto mitico all'argomentazione: la teoria della retribuzione sostiene che la pena (il male fisico) è la punizione di un peccato (male morale), conosciuto o sconosciuto. Tuttavia la saggezza, proprio in quanto argomenta, doveva mutarsi in una immensa contestazione di se stessa (come il libro di Giobbe documenta). La risposta della retribuzione non poteva soddisfare, la ripartizione presente dei mali non poteva che apparire arbitraria, indiscriminata, sproporzionata.

Perché questo eccesso di sofferenza?
Il libro di Giobbe rimane senza una soluzione teorica. L'ultima parola di Giobbe è: «Perciò io mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere»
Gb 42, 6). Giobbe si pente della doglianza stessa. È in virtù di questo pentimento che egli può amare Dio per nulla, contrariamente alla scommessa di Satana all'inizio del libro: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?» (Gb 1, 9).
In Giobbe
avviene un mutamento dello sguardo che non offre una soluzione dottrinale alle dispute dalla saggezza, ma supera il punto di vista della saggezza dottrinale stessa. Questo è quello che fondamentalmente importa.

A questo proposito leggiamo in un'opera precedente di Ricoeur,
Finitudine e colpa:
«Tra l'agnosticismo e la visione penale della storia viene tracciato un cammino, quello della fede non verificabile [...]. La sofferenza non viene spiegata né eticamente né in altro modo, ma la contemplazione del tutto dà l'avvio ad un movimento che dev'essere completato praticamente con l'abbandono di ogni pretesa, cioè col sacrificio dell'esigenza che era all'origine della recriminazione, la pretesa di formare da sé soli un'isola di significato nell'universo, un impero nell'impero [...]. Forse per questo Giobbe l'innocente, Giobbe il Savio si pente. Di che pentirsi, se non della rivendicazione di una ricompensa che rendeva impura la sua contestazione? Non era forse ancora la legge di retribuzione che lo spingeva ad esigere una spiegazione a livello della sua esistenza, una spiegazione privata, finita? Come nella tragedia, la teofania finale non gli ha spiegato nulla, ma ha mutato il suo sguardo».
(
Finitudine e colpa, 1960, tr. it. iI Mulino, Bologna 1972, pp. 594-5)

Questo nuovo sguardo jobico ha valore - secondo Ricoeur - anche e proprio di fronte al persistere del pungolo del male come sfida alla filosofia e alla teologia dopo il fallimento delle moderne teodicee, che rappresentano un livello più sofisticato di speculazione sul male.
Si può per Ricoeur parlare di teodicea quando l'enunciazione del problema del male poggia su proposizioni univoche: Dio è onnipotente, Dio è infinitamente buono, il male esiste; quando lo scopo dell'argomentare è chiaramente apologetico: Dio non è responsabile del male; quando i mezzi impiegati vogliono soddisfare la logica della coerenza logica e della totalizzazione sistematica.

È in questa ottica che Leibniz sostiene che il male metafisico - il quale riassume in sé le diverse figure del male - è un aspetto inevitabile della finitezza dei mondo, che è per altro il migliore dei mondi possibili. L'alternativa all'inesistenza del male sarebbe che il mondo non esistesse affatto.
Ricoeur obietta a questa impostazione della questione che un intelletto finito non può che fallire in questa pretesa di stabilire un bilancio positivo dal confronto dei beni con i mali.
È ancora una volta Giobbe, la doglianza del giusto sofferente, a confutare una nozione compensativa del rapporto fra i mali e i beni.
Sul piano teorico fondamentale non si può poi ignorare la critica di Kant alla teodicea dottrinale.
Ricoeur osserva che il lamento del giusto sofferente permane irriducibile anche rispetto alla pretesa conciliazione dialettica di Hegel, il cui pensiero rappresenta in definitiva una ulteriore forma di teodicea.

Ricoeur sostiene conclusivamente che la sfida del male richiama - non per fornire una soluzione dottrinale ma come risposta esistenziale - una convergenza di pensiero e di azione morale e politica, e una trasformazione spirituale dei sentimenti.

Sul piano del pensiero il male è una sfida per la riflessione, che può continuamente arricchirsi e approfondirsi nel misurarsi con essa, come i diversi livelli attinti dalla speculazione sul male in fondo documentano. Pertanto nessuna dimissione dalla riflessione, come interrogare incessante e autoriconoscimento del limite del nostro sapere, è giustificata. Dalla lezione che proviene dai cammini della filosofia e della teologia può scaturire una autentica saggezza, diversa da quella dottrinale.

Sul piano dell'azione il male è anzitutto ciò che non deve essere, e che deve essere combattuto. Combattere contro la violenza (il male commesso) è anche - per quanto possibile - ridurre la sofferenza (il male subito).

Alla risposta pratica deve unirsi però una risposta emozionale (sentire), una trasformazione, dei sentimenti che generano lamentazione e doglianza, sotto gli effetti di una
saggezza arricchita dalla meditazione teologica e filosofica.
La saggezza autentica tende a un mutamento
qualitativo della lamentazione e della doglianza, in quanto è aiuto spirituale al lavoro del lutto (Freud), ovvero a quel distacco che ci rende liberi per nuovi investimenti affettivi. La saggezza autentica è comprensione spirituale che plasma il nostro sentire.

Vengono individuate da Ricoeur tre tappe della saggezza:
Alla tendenza della vittima ad autoaccusarsi si deve rispondere: “Dio non ha voluto punirci”, ovvero: la saggezza è a un primo livello una liberazione dalla dinamica accusatoria, e accompagna sul piano emozionale il riconoscimento dello scacco della teoria della retribuzione.
Un secondo stadio della spiritualizzazione della lamentazione consiste nel lasciarla profondere in doglianza: “Fino a quando Signore?”. L'accusa contro Dio - annota Ricoeur - è qui l'impazienza della speranza.
Una terza tappa è il momento del “credere senza garanzia”. Si tratta del riconoscimento che le ragioni del credere non hanno nulla in comune con il bisogno di spiegare l'origine della sofferenza. È in questa figura conclusiva della saggezza che riappare Giobbe, il quale
ama Dio per nulla. Ciò significa uscire completamente dal ciclo della retribuzione, di cui la lamentazione resta ancora prigioniera. La saggezza jobica è saggezza attraverso la sofferenza, che non attinge tanto una conoscenza superiore della necessità (Edipo), ma l'amore di Dio nel faccia a a faccia con il Tu divino («ora i miei occhi ti vedono» Gb 42, 5).

Ricoeur conclude significativamente la sua ricerca sul male con queste espressioni:
«Forse questo orizzonte della sofferenza, nell'Occidente giudeo-cristiano, coincide con quello della saggezza buddista in qualche punto che solo un dialogo prolungato tra giudeo-cristianesimo e buddismo potrebbe identificare. Non vorrei separare queste esperienze solitarie di saggezza dalla lotta etica e politica contro il male che può unire tutti gli uomini di buona volontà. In rapporto a questa lotta, queste esperienze sono, come le azioni di resistenza non violenta, delle anticipazioni in forma di parabola di una condizione umana in cui, essendo soppressa la violenza, l’enigma della vera sofferenza, dell’
irriducibile sofferenza, sarebbe messo a nudo» (Il male, tr. ti. cit. 55-56).



Mi sono stati chiesti alcuni suggerimenti. Posso suggerire una questione che mi è sovvenuta leggendo alcune pagine di Massimo Cacciari sul libro di Giobbe. Quello che dice Cacciari mi pare che vada oltre alcune posizioni che ho prima argomentato. Secondo Cacciari nel libro di Giobbe non solo sperimentiamo la fallacia della teodicea, ma anche la fallacia della teologia, ossia di una posizione secondo la quale parliamo di Dio. L'unico atteggiamento possibile è il parlare a Dio. È questo un atteggiamento ultrateologico, nel senso che sta al di là della teologia, quindi solo la fede come dialogo arrischiato sarebbe ciò che è omogeneo alla esperienza di Giobbe.

In qualche modo, come vedete, qualche cosa dice anche Ricoeur su una fede senza garanzie, però io ho voluto portare altre due posizioni che sono più caute su questo punto.
Lo scritto di Kant si potrebbe intitolare
Della impossibilità e della necessità della teodicea, ossia dalla vicenda della teodicea non possiamo semplicemente prendere congedo negandola. In questo interrogarsi della riflessione, ma questo lo dice anche Ricoeur, vi è un valore che non può semplicemente essere posto a lato.
Ed anche Jaspers su questo punto è molto più cauto: interrogo Dio perché voglio la verità, non fede cieca, la fede non è un salto irrazionale, ma nella fede ed attraverso la fede si dischiude una conoscenza, uno sguardo nuovo sul mondo.
La posizione di Cacciari secondo la quale ogni e qualsivoglia posizione teologica, ogni e qualsivoglia sforzo della riflessione verrebbe negato, riesce a tenere? Questa potrebbe essere una prima domanda.

Una seconda domanda, anche se non mi azzardo nella trattazione, potrebbe riguardare se nel libro di Giobbe si può trovare un fondamento della concezione, abbastanza diffusa nella teologia contemporanea, del Dio che si manifesta come Dio sofferente.
Ho visto che molti teologi sostengono questa posizione ed anche recentemente Bruno Forte, ma non credo che questa possa essere una posizione sostenuta dall'interno del libro di Giobbe. Per arrivare alla concezione del Dio sofferente occorrerebbe pensare che la domanda di Gesù sulla croce “Dio mio perché mi hai abbandonato” sia una ripresa della tematica di Giobbe.
Jaspers su questo punto è molto chiaro. Dice che non si può ritenere che, quando nel libro di Giobbe si parla del consolatore o del mallevadore che sta nei cieli, sia evocato Gesù.
Insomma dal libro di Giobbe mi sembra che emerga una visione di Dio come libertà incondizionata, possiamo dire come libertà arbitraria. Dio fa quello che vuole. Per arrivare ad una concezione di Dio come amore sofferente, bisogna andare oltre l'orizzonte del libro di Giobbe.



DIBATTITO


1. Mi sembra che l'assoluta libertà di Dio che emergerebbe dal libro di Giobbe sia un passo avanti rispetto al principio di retribuzione. Condivido tutto quello che è stato detto, ma il finale del libro di Giobbe, che è un finale di maniera, mi sembra che risottolinei di nuovo il principio della retribuzione in base al quale poi Dio restituisce tutto a Giobbe. Rispetto al concetto di un Dio che retribuisce con beni materiali la bontà e la rettitudine dell'uomo, il Dio assolutamente libero ed assolutamente imprevedibile mi sembra vada già un passo avanti.
Quello che però non mi convince molto è il discorso dell'assoluta libertà di Dio. Infatti l'uomo è libero in quanto può scegliere di fare il bene ed il male, ma ontologicamente Dio non può scegliere il male perché di sua iniziativa sceglie il bene. In un certo senso la posizione di Dio è più limitata rispetto a quella dell'uomo perché ha una sola strada davanti
a sé, anche se per sua libera volontà.
Ho un terzo dubbio sul discorso del Dio sofferente. In effetti noi pensiamo che il male che vediamo è in fondo quello che Paolo chiama la creazione che geme sotto le doglie del parto e cioè questa fatica della creazione finita che tende verso l'infinito, Dio allora è in un certo senso non tanto sofferente quanto compagno dell'uomo sofferente, è quello che ti sta vicino per soffrire accanto a te e che ti dice: guarda non sei solo. È chiaro il grido dell'uomo che soffre come quello di Gesù, quando uno si trova in quelle condizioni non può fare altro che gridare.

È sufficiente dire che Dio è libertà originaria? Questo è uno dei punti fondamentali della mia meditazione filosofìca. Anch'io ho le stesse obiezioni poste dalla domanda. È vero però che la libertà non è soltanto facoltà del bene e del male, nella tradizione della filosofia vi è una concezione della libertà come autodeterminazione razionale. È un serio problema quello di unificare questi due concetti della libertà, come siano pensabili la libertà come facoltà del bene e del male e la libertà come autodeterminazione in Dio.
Fondamentale è la meditazione di un grande filosofo italiano contemporaneo, recentemente scomparso, Parison, il quale sostiene che Dio è libertà originaria e come libertà originaria ha il male e con il male si trova in rapporto di combattimento e di vittoria. Dire che esiste Dio o dire che il mondo ha un senso, cosa che per Parison non è la stessa cosa, vuol dire che il male è stato contemplato nella sua possibilità e vinto da sempre. Se il male non fosse stato vinto non vi sarebbe alcunché.
Ma questa possibilità del male vinto
ab aeterno è tuttavia come un'ombra che incide nella creazione e l'uomo, in quanto dotato della facoltà del bene e del male, è il ridestatore del male, quella possibilità vinta del male può essere sempre ridestata e posta in atto dall'uomo. Quindi nell'uomo la possibilità del male non è mai vinta una volta per tutte, ma in Dio sì, e se Dio non avesse vinto e se non avesse disputato con il male ab aeterno e se non lo avesse ridotto a nulla, non vi sarebbe alcunchè: non vi saremmo noi, non vi sarebbe creazione. L'atto della autooriginazione divina è dire: il male è vinto, il senso esiste, il mondo è.
Ma è sufficiente questa concezione di Dio? lo direi di no anche se non so dare una risposta sistematica. lo penso che Dio, per quanto possiamo dire di lui, c'è stato rivelato (la rivelazione è un fatto positivo) come libertà amorevole, come prossimità, come sacrificio di sé, come autodonazione. Gesù di Nazareth rivela come fatto significativo, anche per la filosofia ossia per l'interrogare radicale, che Dio come libertà si è autovincolato a sé, all'altro. L'autovincolarsi a sé ha fatto spazio ad un altro. Tutto ciò è l'amore che mi sembra una posizione fenomenologicamente più profonda della libertà.
Parison e Shelling dicono che Dio è libertà, io credo però che la filosofia possa ascoltare, dal modo in cui Gesù ha vissuto nella propria persona il Padre, che Dio è una libertà che si vincola all'altro, e quindi è si libertà originaria nel senso che è inizialità pura e da sé, in sé e per sé, come Dio, ma in questa inizialità, in questa originarietà vi è una dedizione incondizionata nei confronti di un altro.
Io penso che l'amare costituisca un'esperienza fenomenologicamente più ricca della libertà, anche se la include. Non vi sarebbe amore senza libertà naturalmente, la libertà in questo senso è il presupposto ma non si può identificare Dio soltanto con la libertà, questa è la mia posizione.

Soffre Dio? Non saprei cosa rispondere, so che la teologia contemporanea tende ad accentuare il paradigma del Dio sofferente. L'argomentazione di Moltmann, che in questo senso ha aperto una strada, è che l
implorazione di Gesù “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” rappresenta l'espressione di un evento intradivino, intratrinitario. Io penso che si potrebbe dire così: se Dio è l'amore, vi è in lui un esemplare della sofferenza perché nell'esperienza dell'amare c'è sempre anche una ricezione e quindi una praticità. Oltre non so andare.


2. Mi chiedo quale spazio resta per la filosofia di fronte alla saggezza autentica che fa il salto dell'argomentare e che rinuncia ad una spiegazione, anche se può ritrovare una pace senza garanzie.
Mi sono sentita molto affascinata dalla riflessione di Ricoeur quando non scinde le varie dimensioni della persona, sia l'agire come grande impegno anche politico nella lotta al male, sia il pensare ed il sentire. Rispetto a questo percorso è possibile sperare ad una non rinuncia di queste tre dimensioni della saggezza autentica in Giobbe, ma anche al di la di Giobbe, senza restare nelle maglie di una divisione o di un potere egemone di una delle tre?

Io penso che la filosofia abbia un ruolo non solo dell'interrogare radicale. Si può dire a tale scopo che Giobbe, in quanto vuole, come dice Jaspers, unificare Dio e la verità, è interrogante radicale e quindi in questo senso è filosofo.
Ma io credo che la filosofia abbia anche un suo ruolo specifico quando nella posizione finale del libro Giobbe ammette che sa di non sapere. Quindi il sapere più alto è un sapere che ha attraversato l'interrogare, il cammino, la dialettica dell'interrogare ed alla fine riconosce, sapendo che la vita in senso forte, radicale, cioè Dio, sta oltre il sapere, che Dio è libertà originaria.
Dice perfettamente Pascal che l'ultimo passo della ragione è un passo della ragione. Io in questo senso difendo la legittimità della filosofia e ritengo che la fede non sia un qualcosa che si oppone alla filosofia, e neppure che la rende irrilevante. La fede è un'altra cosa, è l'incontrare l'altro, in questo caso Dio, da persona a persona. La filosofia ha lo statuto della riflessione radicale, la fede è invece incontro concreto, fattuale, interpersonale. Sono due dimensioni distinte dell'atteggiamento esistenziale, ambedue legittime e necessarie.
In questo senso per me nella dialettica tra filosofia e fede lo statuto della teologia è forse un problema maggiore rispetto allo statuto della filosofia, come sapere di non sapere, anche se non mi pongo affatto contro Cacciari sul fatto che la teologia non abbia una sua legittimità come
intellectus fidei, come autoriflessione interna della fede.
Ma non vedrei dal libro di Giobbe una messa in questione della filosofia come tale, anzi ne vedo una conferma. L'ultimo passo, dice Jaspers, è un non sapere omnicomprensivo, l'ultimo atto della ragione per cui la ragione ammette che vi siano cose che la oltrepassano. Ma come dice Pascal è pur tuttavia un atto della ragione. Io ho questo atteggiamento poco postmoderno ma mi pare del tutto corretto rispetto alla cosa in questione.
Ricoeur usa una posizione della saggezza come trasformazione dello sguardo, diversa da quella della attuale filosofia pratica, come ricerca dei mezzi che conducono al raggiungimento di un fine, come
fronesis. In Ricoeur invece la saggezza è una comprensione esistenziale profonda di sé di fronte a Dio. Tale saggezza ha fatto esperienza dell'interrogare il pensiero e della lotta dell'azione. In questo senso la saggezza è una trasformazione del sentimento che però è passata attraverso l'interrogare ed attraverso l'agire. È il punto di unificazione esistentivo dell'interrogare e dell'agire in cui l'interrogare e l'agire diventano una esperienza che mi trasforma e mi dispone di fronte a Dio senza pretese.
I percorsi quindi vengono integrati e non semplicemente posti dall'alto. Questa è la saggezza. In questo senso la filosofia conduce alla saggezza come docta ignorantia, una ignoranza sapiente che è dentro il nostro interrogare ed il nostro sapere ed oltre il nostro interrogare c'è l'eccedenza della vita nel senso originario, c'è la presenza dell'assoluto come libertà originaria.


3. Se il libro di Giobbe rappresenta una rabbiosa reazione contro una teodicea fondata su una difesa di Dio in base al discorso della retribuzione, come spieghi che in fondo la teologia cattolica, a partire da Agostino, almeno come referente primo, è fondata tutta su questo? Sembrerebbe cioè che il discorso di Giobbe non sia assolutamente entrato nella mente dei nostri teologi, compreso Agostino.

Io non sono un esperto di Agostino quindi non so assolutamente rispondere, né conosco la teologia cattolica in maniera tale da poter confermare se la teologia cattolica, come tu dici, ha sempre utilizzato la teoria della retribuzione.
Secondo Ricoeur, Agostino con la teoria del peccato originale allude al fatto che vi sarebbe un male preesistente alla mia libera decisione e questo male in qualche modo è un fatto, vi è una fattualità del male, una presenza fattuale originaria del male.
Rispetto a questa posizione di Agostino che, secondo Ricoeur, descrive una posizione reale, nel senso dell'esistenza del male diffusa e concreta che precede malvagiamente il mio decidermi, vale però anche la verità di Pelagio che richiama appunto alla dimensione della responsabilità e quindi alla dimensione etica, non ontologica, del male. Ricoeur dice che Agostino appare più profondo di Pelagio, ma Pelagio appare più razionale, io penso che ambedue le posizioni siano vere. C'è cioè una verità di Pelagio e c'è una verità di Agostino. Forse la teologia cattolica ha custodito soltanto la verità di Agostino e smarrito Pelagio. Ricoeur dice che dovremmo metterci in una condizione per pensare le due verità unite.
Non saprei però assolutamente dire se la teologia cattolica ha ignorato il libro di Giobbe, non sarei così deciso. So che Tommaso d'Aquino ha dedicato un commentario al libro di Giobbe, ma non lo conosco. Potrebbe essere utile sapere cosa dice.


4. Parliamo sempre del pensiero occidentale, però Ricoeur, come lei ha detto, ha toccato anche il buddhismo relativamente ad un certo tipo di saggezza. Vorrei dire che l'io è fondamentale per la filosofia occidentale: io penso, quindi esisto. Però nel buddhismo l'io non esiste in quanto condizionato sempre dalla corporeità, dalle sensazioni, etc., ossia da cinque aggregati. Soltanto per convenzione noi diciamo “io”, quindi esiste qualcosa, esiste quel fatto, c'è il pensiero ma non l“io penso”. Perché tutto passa, tutto è condizionato, tutto è precario, ed allora la responsabilità dove va a finire? Pacciani è colpevole o innocente? È convenzionale che si vada davanti al tribunale? Però in realtà noi siamo soggetti a questo io nel senso di “ego”, di egoismo. Dobbiamo trovare il vero io, che non si troverà mai se non ricercandolo continuamente.

Queste domande eccedono un po' la mia competenza. Per quanto riguarda il rapporto con l'oriente denuncio la mia matrice culturale occidentale e quindi la mia parzialità. So bene che l'occidente non coincide con l'universale, e questa è una esperienza fattuale e teorica.
Non sono competente di filosofia orientale e di saggezza buddhista. Tuttavia non mi pare che dal libro di Giobbe emerga una enfatizzazione dell'io, ma un decentramento dell'io. Quando Ricoeur sostiene che Giobbe si rimette a Dio e lo ama al di fuori del circolo della retribuzione («libero dalla pretesa di formare da sé soli un'isola di significato») vuole dire appunto decentramento, spossessamento della propria pretesa autoaffermativa.
Debbo anche dire che nella grande filosofia moderna il tema dell'egoità non è il principio più alto, esso è messo a tema proprio dal filosofo che tradizionalmente passa come l'enfatizzatore dell'egoità, ossia da Fichte, il quale afferma che la libertà è autodonazione dall'originario, in questo senso decentramento, uscita da sé.
Certo la rivendicazione che l'occidente pone e sulla quale sono restio a cedere, ritenendola vera, è che questo decentramento, questa autodonazione include pur sempre una iniziativa dell'io. Il passaggio attraverso il soggetto non può essere semplicemente posto dall'alto. Non credo che si possa, anche riconoscendo la parzialità di questa posizione in quanto del solo occidente, cedere su tale argomentazione senza argomentare. Insomma c'è una verità di Cartesio che non è semplicemente l'egocentrismo, è quella verità a cui teneva Kant, secondo la quale se non tiene fermo questo punto non vi è più imputabilità possibile e non si può più fare alcun discorso sensato, cioè argomentabile, sulla responsabilità.
Ricordo una delle fondamentali espressioni della saggezza buddhista nel film
II piccolo Buddha: “Togli la differenza, sparirà il dolore”, sintesi della saggezza del monaco. Questa “differenza” è la riflessione; ma come faccio a togliere la riflessione se non attraverso la riflessione, come faccio a negare la ragione se non attraverso la ragione, come faccio ad emanciparmi dal linguaggio se non attraverso il linguaggio? Abbiamo un circolo dal quale non si esce. Insomma come il barone di Munchausen, non posso uscire dall'acqua tirandomi per i capelli, io credo che il toglimento della differenza sia un toglimento appunto, “togli la differenza” dice la saggezza, ma in questo “togli la differenza” è evocata l'iniziativa dell'Io.
Non esco da questo circolo. Per uscire da questo circolo dovrei essere Dio, dovrei essere l'Assoluto, ma in quanto dico sono l'Assoluto, ho posto una differenza, ho duplicato, ho realizzato una scissione, mi sono differenziato dall'Assoluto, sono soltanto io. Se questa saggezza pretende di farsi filosofia non consiste di fronte alla riflessione. La verità di Cartesio, liberata dal modo ancora metafisico con cui Cartesio la pensava, a mio avviso, costituisce un avanzamento che trascende l'area culturale che noi chiamiamo occidente.



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