A.R.CO. Associazione per la Ricerca e la Comunicazione


Vai ai contenuti

3. Gian Luigi Prato 15.12.1994

Bibbia > 3° Corso di cultura biblica: Gesù di Nazareth, ebreo di nascita cristiano di adozione (1994-1995)



trascrizione integrale


Il giudaismo dell'epoca di Gesù: Orientamenti per una valutazione

2) Le immagini esterne e l'autocoscienza del giudaismo all'epoca di Gesù




SOMMARIO

I. A definire il giudaismo contribuiscono sia il dialogo interno (da cui matura l'autocoscienza) sia il confronto con altri ambienti (da cui derivano le immagini esterne).
Per capire la posizione di Gesù, occorre pertanto tener presente che:
1) il giudaismo è fenomeno complesso, non riconducibile ad un'unica espressione;
2) il "superamento" universalistico verificatosi con Gesù va individuato nella natura del giudaismo, non al di fuori di esso.

II. II confronto fra giudaismo e resto del mondo è stato recepito in sede cristiana come sinonimo di contrapposizione tra verità ed errore (si veda Pascal). Il giudaismo storico lo ha invece espresso come una interpretazione sapienziale della Torah che, simbolo di ordine universale, viene ad abitare in Israele (Sir 24,33 [=22CEI); 17,11; Bar 3,9-4,4).
Pertanto:
1) il giudaismo non va giudicato alla luce della posteriore ristrutturazione rabbinica;
2) non bisogna pensare ad un giudaismo palestinese come centro normativo;
3) il confronto con l'ellenismo non va visto come contrapposizione globale, ma come tentativo di autodefinirsi tramite relazioni culturali e pseudo-politiche (si vedano i rapporti con Roma e Sparta nella storiografia maccabaica).

III. Dall'esterno il giudaismo era poco conosciuto e ciò può aver contribuito ad alimentare fraintendimenti e polemiche. Il confronto avviene però, da parte giudaica, ponendo in parallelo il Dio e il popolo d'Israele (lo stesso principio su cui è basata anche la Scrittura):
1) rivendicando la supremazia del proprio Dio e quindi del popolo di Israele;
2) assimilando il Dio d'Israele ad altri dèi tramite denominazioni "possibiliste" (il Dio Altissimo, il Dio celeste ecc.) ed etimologie per noi fantasiose;
3) dal lato etnico ricostruendo per Israele una storia simile a quelle degli altri popoli (si vedano i casi più noti di Manetone per l'Egitto e Berosso per la Mesopotamia) in modo che, come già si verifica in queste ultime per le loro rispettive civiltà, emerga l'antichità e la superiorità culturale d'Israele (i personaggi biblici diventano eroi benefattori e inventori di beni di civiltà);
4) proponendo una concezione della scienza rivelata da Dio solo attraverso canali privilegiati ed esclusivi (personaggio emblematico resta Enoc).

IV. Conclusioni:
1) iI pluralismo giudaico è in sintonia con il valore più profondo della Torah;
2) al di là di Gesù, il suo messaggio è stato presentato con le caratteristiche dell'antichità e della superiorità culturale-religiosa tratte dalla storiografia giudaica.
3) Il giudaismo ha espresso successivamente la propria apertura mediante un linguaggio simbolico che interpella il destinatario in maniera diversa dal discorso argomentativo e raziocinante della tradizione cristiana.
4) Vedere Gesù all'interno dell'ebraismo non significa soltanto rivalutare la figura umana di Gesù, ma capire soprattutto il significato cristologico di questo personaggio: Cristo equivale alla Torah e ne ripropone tutti i suoi valori.



Introduzione

La volta scorsa abbiamo cercato di tracciare alcune strutture del giudaismo facendo un confronto tra il giudaismo e la Scrittura, che ne è alla base, per capire come mai il giudaismo si presenta come una religione normativa; il dibattito che si realizza all'epoca di Gesù sembrerebbe ispirato infatti ad una normatività che si accetta o si respinge.
Abbiamo cercato in qualche modo di chiarire come mai il giudaismo presenta questa caratteristica fondamentale e ci siamo limitati alla formazione della Scrittura perché le due cose stanno in stretto parallelo tra loro. A tale scopo, abbiamo fatto un cammino a ritroso risalendo alle origini del giudaismo.

Ora dobbiamo fare il cammino opposto cioè tracciare l'evoluzione del giudaismo dalla sue origini fino all'epoca di Gesù, ma anche qui tentando di individuare alcune caratteristiche precise di questa evoluzione e ponendo in evidenza come il giudaismo si è evoluto fino all'epoca di Gesù, ed anche dopo, in stretto dialogo con se stesso e con gli altri.
Non vogliamo quindi presentare una storia del giudaismo come tale o la sua complessa fenomenologia, ma intendiamo rilevare solo alcuni suoi aspetti.

A formare il giudaismo ha contribuito un atteggiamento di confronto; contrariamente a quello che spesso si pensa, esso non è una religione chiusa, un sistema arroccato in se stesso e poco in dialogo con il mondo che lo circonda.
Per poter illustrare questo punto particolare, è opportuno anzitutto tenere presenti due fattori o premesse che di per sé valgono per qualunque discorso sul giudaismo. Sarà questo il primo punto del nostro discorso.
Passeremo poi ad esaminare il confronto tra il giudaismo e il mondo circostante, procedendo per antitesi: anzitutto come è stato recepito in seguito, nella tradizione cristiana, dove è stato per così dire universalizzato, e poi vedendo come ha inteso esprimerlo il giudaismo stesso, fin dalle fasi più antiche della sua storia. In altri termini: cosa intendiamo noi per tale confronto, o meglio: che cosa è divenuto tale confronto nella nostra cultura religiosa, biblica e quindi anche giudaica? Questo sarà dunque il nostro secondo punto.
Il punto terzo riguarderà invece la presentazione storica più concreta del confronto, visto da parte giudaica, tentando di individuare le prospettive di fondo che permettono di capirlo nei suoi termini reali.
Seguiranno infine alcune conclusioni, quarto punto.


I. Premesse

Quando si parla del giudaismo nella sua evoluzione storica, e quindi anche del giudaismo come intendiamo trattarlo qui, ossia un giudaismo che è cresciuto mediante un confronto con se stesso e che ha così formato una sua autocoscienza, e ha inoltre maturato un confronto culturale e religioso con il suo ambiente, dando origine così a varie immagini di sé, bisogna tenere due fattori fondamentali, che per riflesso valgono anche per capire la posizione di Gesù.

1) II giudaismo è un fenomeno complesso. Se oggi lo si vuole conoscere dal lato descrittivo e fenomenologico, si corre il rischio di non essere in grado di coglierlo completamente.
Da questo punto di vista, bisogna evitare concezioni monocordi e riduttive che non corrispondano alla realtà storica. Di questo genere sono le immagini del giudaismo che molto spesso si contrappongono a Gesù o che i vangeli stessi presentano in rapporto a Gesù. Tali immagini non corrispondono alla realtà storica, sono funzionali a quel dialogo ed eventualmente a quella polemica. Il giudaismo è altra cosa dal lato storico; non è riducibile soltanto a quegli elementi che possono essere funzionali e comprensibili solo all'interno di una certa polemica.
Se si sceglie quindi di individuare le strutture di evoluzione e di crescita del giudaismo (come intendiamo fare qui), occorre individuare una prospettiva che permetta di non trascurare fattori essenziali di questa complessa fenomenologia.

2) Poiché il nostro punto di arrivo è l'epoca di Gesù ed il dialogo interno che Gesù attua con il giudaismo, è necessario non lasciarsi fuorviare dalla prospettiva di un dialogante, cioè Gesù visto quasi al di fuori del suo mondo.
In questo senso è importante capire non tanto i termini del dialogo, cioè che cosa dice Gesù e che cosa dicono i suoi avversari, ma è importante capire perché, attraverso questo dialogo, il giudaismo ha potuto presentarsi al mondo esterno ed essere accolto da esso, diciamo così, nella sua versione cristiana.
Come mai attraverso la figura di Gesù e il dialogo interno il giudaismo ha tratto da se stesso, dalle proprie risorse religiose o naturali, gli elementi che lo hanno fatto conoscere all'esterno? In altri termini: il cosiddetto universalismo cristiano derivato da tale dialogo è una esplicitazione della natura del giudaismo o è qualcosa di diverso o di aggiunto e, se è vera quest'ultima alternativa, come si spiega? Il fatto che da un certo momento in poi il giudaismo divenuto cristiano si sia presentato all'esterno è un salto di qualità o è una esplicitazione di alcune qualità inerenti al giudaismo stesso?
Speriamo di poter dimostrare questa seconda alternativa, ossia che è il giudaismo stesso che ha saputo trovare in se stesso ciò che gli ha permesso di presentarsi all'esterno ed essere accolto; per conseguenza, il discorso dei rapporti tra giudaismo e cristianesimo dovrebbe essere impostato diversamente.



II. Confronto tra giudaismo e resto del mondo

II confronto tra giudaismo e resto del mondo, così come si è manifestato storicamente, ha lasciato le sue tracce nella nostra mentalità e nella nostra cultura, dando origine ad una concezione universalistica di una religione particolare, il cristianesimo appunto, che dal giudaismo è in qualche modo derivato.

In questo senso, esso è stato recepito ed elaborato in termini diversi, fino a diventare un confronto tra verità ed errore: il giudaismo ed il cristianesimo che ne è derivato sono nella verità, gli altri non sono nella verità se non addirittura nell'errore.
Gli epigoni di questa mentalità sono impliciti nel nostro modo di pensare. Per esemplificarli possiamo vedere cosa dice in proposito un personaggio come Pascal, che in tal senso è un tipico rappresentante della tradizione cristiana che ha riformato il confronto tra giudaismo cristianizzato e tutto il resto del mondo comunque lo si voglia intendere (le varie religioni, le varie culture, i vari popoli, ecc.).
Nei suoi
Pensieri (406-407 ed. Chevalier = 618-619 ed. Brunschvicg) egli si esprime così: «In un angolo del mondo vi è un popolo che è il più antico del mondo, che afferma che tutto il mondo è nell'errore, che Dio gli ha rivelato la verità la quale rimarrà per sempre sulla terra... Questo popolo sostiene che è il solo al quale Dio ha rivelato i suoi misteri, che tutti gli uomini sono corrotti e in disgrazia presso Dio».
Subito dopo Pascal prosegue il confronto parlando dell'antichità del popolo di Israele: esso è il più antico di tutti ed è anteriore di secoli rispetto agli altri e continua a sussistere, diversamente da altri; la sua legge è la più antica di tutte, come testimoniano Flavio Giuseppe e Filone. Il libro che la contiene è il più antico del mondo ed è contemporaneo al popolo stesso, non posteriore e quindi eventualmente non di dubbia storicità come accade presso altri popoli (cfr. 407-408 ed. Chevalier = 619-620 ed. Brunschvicg).
Pascal trasferisce su un piano metafisico, di verità ed errore, quello che è stato semplicemente un confronto storico del giudaismo con gli altri popoli e con le altre religioni. Cosa che del resto ha fatto poi anche il cristianesimo al suo sorgere. Siamo qui alle conseguenze ultime di un confronto che si è sviluppato creando gradualmente nel soggetto che lo stabilisce e lo formula la coscienza di essere nella verità.

Il giudaismo, almeno quello storico di cui intendiamo parlare, ha espresso invece il suo confronto con gli altri in una maniera ben diversa.
Esso è consistito semplicemente in una interpretazione della Torah, secondo la quale quest'ultima si identifica con un ordine universale, proprio nel momento in cui viene a risiedere in Israele ed addirittura si esprime nelle sue istituzioni.

Ad es., il cap. 24 di Ben Sira (o Ecclesiastico) presenta la figura della Sapienza che esiste prima del mondo, percorre il giro del ciclo e decide poi di scendere sulla terra e la fa germogliare; al v.22 (trad. CEI, corrispondente al v. 23 del testo greco) si dice che
«tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, la legge che ha imposto Mosè, l'eredità delle assemblee di Giacobbe»
In altre parole, il cammino della Sapienza nei cieli e la sua venuta sulla terra si rendono manifesti non solo in Israele genericamente, ma nel libro che esso possiede, e in particolare nel libro della legge (si ricordi il valore della Scrittura come parallelo delle strutture del Giudaismo, di cui si è parlato nel precedente incontro).
Letto nell'ambito del giudaismo, questo testo potrebbe far pensare che il giudaismo intenda attribuire a sé il monopolio della Sapienza, ma in realtà non è così. Si intende invece stabilire un confronto tra l'universalità della Sapienza e il fatto che essa si manifesta in Israele.

Dal lato antropologico qualcosa di simile viene detto al cap. 17, dove si parla della creazione dell'uomo in termini che intendono riprendere il racconto della Genesi, ma solo il cap. 2 e non il cap. 3; tutto ciò che viene dato ad Adamo ed Eva in quanto esseri umani si identifica con quello che viene comunicato a Mosè sul Sinai, e perciò ogni uomo è quasi reso simile a Mosè che riceve il dono della legge:
«I loro occhi [cioè gli occhi di tutti gli uomini creati] contemplarono la grandezza della sua gloria, i loro orecchi sentirono la magnificenza della sua voce. Disse loro: Guardatevi da ogni ingiustizia!, e diede a ciascuno precetti verso il prossimo» (vv. 11-12=13-14 testo greco).
Ad ogni uomo viene data la legge del Sinai e ha la possibilità di capire quella legge per il solo fatto di essere stato creato, con quelle doti umane e normali di cui si parla nei versi precedenti (17, 1 ss.).

La stessa cosa troviamo ancora in Baruc 3,9-4,4 dove del resto si ripete in altra forma quello che è detto nel cap. 24 di Ben Sira. Si dice che la Sapienza non si trova da nessuna parte, tranne che nei cieli dove abita, e nessun uomo è riuscito ad afferrarla finché Dio
«ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo, a Israele suo diletto. Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini» (3,37-38).
Di fatto, la comparsa della Sapienza sulla terra, nel luogo geografico di Israele, significa che tutti gli uomini vengono messi in grado di accedervi e di conoscerla.

L'inserimento di Israele nell'ordine universale dipende dal fatto che la Torah è interpretabile, adattabile. In questo caso essa si identifica appunto con l'ordine universale che poi di fatto viene a trovarsi in Israele. Il giudaismo, avendo in mano una determinata Torah, l'ha identificata con l'ordine universale senza negare però la validità dell'ordine universale come tale: la manifestazione particolare la si capisce in rapporto al tutto.
Il giudaismo è cresciuto pertanto sulla base di questo rapporto dinamico che ha contribuito a formare una sua coscienza.

Non si dà quindi storicamente un giudaismo chiuso per natura. Vi sono certo delle manifestazioni di chiusura, di separatismo, di settarismo lungo i secoli della sua storia ma se lo si vuol comprendere adeguatamente bisogna collocarlo sullo sfondo di questo processo auto interpretativo.

Ciò risulta forse difficile, se si parte da una visione storica standardizzata, che però trova la sua origine spesso in contesti dialettici e non è sempre ben informata. Ma perché tale processo risulti più evidente, bisogna per lo meno puntualizzare alcuni fattori concreti della storia del giudaismo, che se non sono correttamente intesi rischiano di creare o perpetuare fraintendimenti inopportuni.
Per quanto riguarda la fase della storia giudaica che precede il tempo di Gesù, bisogna liberare la nostra visione del mondo giudaico da alcune valutazioni globali che non sono storicamente fondate, e che possiamo ridurre a tre.

1) Il giudaismo non va giudicato alla luce della posteriore ristrutturazione rabbinica.
II posteriore giudaismo rabbinico è piuttosto restrittivo ed è normativo in modo diverso rispetto a quella normatività fondamentale che fa parte della struttura del giudaismo e di cui abbiamo parlato.
Il giudaismo rabbinico è quello creatosi dal 70 d.C. in poi, quando tra tutte le correnti di quell'epoca è prevalsa la tradizione farisaica che ha cercato di coordinare lo sforzo di ristrutturazione resosi necessario con la nuova situazione storica determinatasi con la caduta di Gerusalemme. Per poter sopravvivere, si è tentato di ridurre ad una certa unità quello che era un fenomeno molto complesso e vario nelle sue manifestazioni.

2) Non bisogna pensare ad un giudaismo palestinese come centro normativo.
Per il giudaismo che precede tale ristrutturazione quali sono i confini geografici?
In Palestina vi era una giudaismo legato al Tempio, di cui peraltro abbiamo una scarsa documentazione. Ma dal lato storico è interessante notare che gli autori antichi che parlano della Palestina per il periodo cosiddetto postesilico (dal VI-V sec. a.C. in avanti) non accennano agli ebrei, e dimostrano di non sapere che il popolo ebraico era vissuto (o stava vivendo) in quel territorio.

Erodoto, ad esempio, è l'autore che ha inventato il nome Palestina, usandolo anzitutto come aggettivo gentilizio legato al termine Siria: quella zona è per lui la
Siria palestinese, dove palestinese significa filisteo. Come mai non la chiama la Siria ebraica o la Siria israelitica o simili? Questo fatto può essere spiegato, almeno in parte, se si ricorda che in realtà la Palestina non era in quel momento il centro effettivo del giudaismo, ma rappresentava per così dire il luogo a cui il giudaismo guardava per ritrovare le proprie origini ideali.

Di fatto però il giudaismo storico ha dato molta importanza all'ambiente babilonese come luogo della sua formazione e della sua crescita: questo giudaismo babilonese, che risale probabilmente ad una presenza ebraica in Babilonia ancora prima dell'esilio, è divenuto talmente importante e mutevole che molti secoli dopo ha dettato legge per la fissazione del testo biblico vocalizzato.
La vocalizzazione del testo della Bibbia ebraica è dovuta ai masoreti. e tra questi è prevalsa la cosiddetta scuola tiberiense, la quale però, pur essendo di ambiente palestinese, ha tratto dalla scuola babilonese, ritenuta più fedele dalla tradizione, i suoi criteri di lavoro.
La Palestina non era il centro né culturale né religioso del giudaismo e la tradizione posteriore addirittura lo conferma.

3) II confronto del giudaismo con l'ellenismo
II confronto globale e antitetico con l'ellenismo non è quello storico effettivo, ma è quello descritto da determinate storiografia, anche giudaiche.

Ad esempio, la storiografia maccabaica che si rispecchia nei 4 libri dei Maccabei (di cui due fanno parte del canone della Bibbia cristiana cattolica) stabilisce un confronto con l'ellenismo che è anzitutto di tipo politico, ma si esprime a livello religioso e culturale. Si vuoi fare emergere una contrapposizione radicale tra un giudaismo palestinese, incentrato su Gerusalemme e attaccato alle sue tradizioni ed un ellenismo inteso come fattore religioso esterno e imposto con la forza da un nemico politico rappresentato dai re seleucidi della Siria.
Ma questa storiografia in maniera significativa tradisce se stessa perché fa vedere che anche a questa maniera è cresciuto il dialogo con gli altri.

Proprio il primo libro dei Maccabei ci presenta due testimonianze interessanti di questo dialogo nel momento in cui vuole descrivere un giudaismo palestinese, cioè quello maccabaico, ben compaginato in se stesso perché finalmente è riuscito a trionfare sui nemici e a ripristinare addirittura una certa nazione ebraica in territorio palestinese, nel II secolo a.C. (la storiografia è ovviamente un po' più tarda: II-I secolo a.C.).
La prima testimonianza riguarda il confronto con Roma (
1 Macc 8) e la seconda il confronto con Sparta (1 Macc 12).

Nel II secolo a.C. Roma si stava espandendo nel Mediterraneo, ed era ormai divenuta una potenza internazionale. Si vuol far intravedere, allora, che anche la nazione giudaica, con la vittoria dei Maccabei e l'indipendenza acquisita, è degna di attenzione da parte di Roma. Viene perciò inviata una delegazione in quella città perché i Romani possano fare alleanza con il popolo giudaico.
Secondo il testo di 1 Maccabei, i Romani accettano, anzi si stipula un patto in base al quale nel caso di aggressione ci si deve prestare vicendevole aiuto. I capi maccabei della nazione giudaica sono talmente importanti da poter stare all'altezza della nazione più potente del momento.

Con Sparta le cose si presentano un po' diversamente. In
1 Mac 12 si vuol far vedere che si stringono alleanze culturali con la Grecia perché si riconosce in sostanza che la cultura greca è prestigiosa, ma non si ha interesse a stabilire rapporti politici con una città o una nazione che in quel momento è in decadenza, e anzi si sta sottomettendo a Roma.
Lo storiografo di 1 Maccabei riporta una presunta lettera inviata da un re spartano Areo al sommo sacerdote Onia, nella quale si dice che spartani ed ebrei sono fratelli in Abramo, hanno una discendenza in comune, possono pertanto sentirsi uniti tra loro in qualunque circostanza.
A questa lettera gli ebrei rispondono inviando una delegazione a Sparta nel momento in cui inviano una seconda delegazione a Roma, dicendo di voler accettare la comunanza culturale, e quindi la comune ascendenza e fratellanza in Abramo, ma di avere anche le proprie Scritture e le proprie tradizioni in cui confidano, per cui non si sentono di accogliere l'aiuto offerto da Sparta.
Dal punto di vista diplomatico questo tipo di risposta è poco gentile e poco seria: da un lato si cerca infatti l'alleanza di Sparta, dall'altro si fa presente che non se ne ha bisogno. Si riconosce insomma la superiorità culturale dei greci e la si vuole sentire vicina, ma dal lato politico si afferma che gli ebrei vogliono restare autonomi. Questo comportamento tradisce un desiderio di comunanza culturale con la cultura più prestigiosa, che è appunto quella greco-ellenistica del II-I secolo a.C.



III. Come si è verificato il dialogo con gli altri? Cosa si conosceva degli ebrei? E gli ebrei come hanno saputo presentare di se stessi?

Dobbiamo chiederci dal lato storico se all'esterno si conoscevano veramente gli ebrei.
Da quanto possiamo dedurre dalla documentazione che possediamo per il periodo a cui ci stiamo riferendo (VI-I sec. a.C.), dobbiamo concludere che gli ebrei all'esterno erano poco conosciuti. Basti citare la testimonianza di Megastene (IV secolo a.C.) che mette in parallelo gli ebrei con i filosofi bramini dell'India, dimostrando così di sapere ben poco degli ebrei e della loro tradizione. Anche altri autori rivelano una conoscenza molto superficiale, e per lo più indiretta.

Dall'esterno si percepisce una vaga diversità: gli ebrei sono visti come un popolo un po' isolato, e per questo è difficile formarsi un’immagine adeguata della loro cultura. Del resto, anche in seguito si è confusa spesso la natura dell'ebraismo con quella di altri popoli o altre tradizioni.

Emblematico dell'isolamento degli ebrei è, dal lato architettonico e paesaggistico, il posto occupato dalla sinagoga sull'isola di Delo.
A Delo, isola sacra per eccellenza e punto di confluenza della cultura greca con quella orientale, nella parte bassa dell'isola vi sono molti santuari, da quello sacro ad Apollo, che riassume le tradizioni più antiche della Grecia arcaica e della cultura mediterranea precedente, a quelli degli dèi orientali, siriani ed egiziani, i cui culti erano diffusi in epoca ellenistica nel mondo greco. Sulla punta dell'isola, e in posizione isolata, si trova invece la sinagoga degli ebrei.
Questa dislocazione edilizia lascia intravedere uno scarso contatto tra la comunità ebraica come tale e le altre rappresentanze religiose che avevano sede su quell'isola. E l'isolamento, com'è noto, può essere causa di confusione e di fraintendimento.

Lo si constata del resto anche per le epoche successive. Lo dimostra, ad esempio, un caso tratto dalla tarda latinità, tra i tanti che si potrebbero addurre.
Rutilio Namaziano, (inizio del V secolo d.C. ) nel
De reditu suo (II ritorno), una composizione poetica in cui descrive il suo ritorno da Roma nelle Gallie al termine del suo servizio come funzionario dell'Impero, parla delle tappe del viaggio distribuite nei vari centri dell'Italia settentrionale e della costa della Provenza che sta attraversando.
Sbarcato su un tratto della costa toscana, vede che si praticano in quel luogo i culti di Osiride, che egli apprezza, ma subito dopo racconta di essere stato accolto in malo modo da un giudeo che aveva in custodia una località vicina e, proseguendo il viaggio, incontra delle comunità di monaci cristiani intanati sulle due isole di Capraia e di Gorgona, che sono anch'esse oggetto del suo disprezzo, come già gli ebrei, perché gente isolata dal mondo (cfr. vv. 4399 ss. e 511 ss.).
Si può pensare che da un lato Rutilio Namaziano sia attratto dai culti egiziani, mentre dall'altro l'ebraismo e il cristianesimo sono religioni deleterie per il suo punto di vista piuttosto approssimativo e certo poco informato.

Ma già nel NT vi sono testimonianze che non distinguono le due correnti. Sono significativi al riguardo tre passi degli Atti degli Apostoli dove si parla di Paolo e del suo operato che darebbe origine a quella che viene chiamata una "setta" (in greco
hairesis).
In 24,5 i giudei dicono:
«Abbiamo scoperto che quest'uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra tutti i giudei che sono nel mondo ed è capo della setta dei Nazorei»
Poco dopo (24,14) Paolo afferma:
«Ammetto invece che adoro il Dio dei miei padri, secondo quella dottrina che essi chiamano setta, credendo in tutto ciò che è conforme alla Legge e sta scritto nei Profeti».
In 28,22 dicono i giudei di Roma a Paolo:
«Ci sembra bene tuttavia ascoltare da te quello che pensi; di questa setta infatti sappiamo che trova dovunque opposizione». In quest'ultimo caso, i giudei di Roma non sanno ancora intravedere la diversità che Paolo presenta all'interno del giudaismo.


Ma risalendo più a monte, dobbiamo chiederci d'altro lato come il giudaismo ha recepito gli altri e come ha presentato sé stesso agli altri. Come si è formulato questo dialogo?
Potremmo evidenziare in proposito quattro elementi che hanno tutti un unico comune denominatore, cioè il fatto che i giudei presentano se stessi in parallelo con il loro Dio: quello che si dice del loro Dio vale anche per loro e viceversa. L'interferenza tra questi due piani è essenziale. Si vuole rivendicare il proprio Dio per rivendicare se stessi, oppure si vuole rivendicare se stessi per fare risaltare il proprio Dio al di sopra di tutti. Ma tutto ciò significa ammettere anche che gli altri posseggono i loro dèi.
Dal confronto si vuol far emergere che sia il popolo sia il suo Dio hanno diritto di cittadinanza al pari degli altri popoli e dèi.

1) II confronto si manifesta anzitutto dal lato negativo per rivendicare la vittoria di un popolo che si sente oppresso al di dentro di altre civiltà o altre culture.

Questo aspetto è posto in evidenza soprattutto in quei testi che sono dei racconti romanzati, come ad esempio in Giuditta ed Ester. Si veda Giuditta 9,14 (a conclusione di una preghiera):
«Da a tutto il popolo ed ad ogni tribù la prova che tu sei il Signore, il Dio d'ogni potere e d'ogni forza e non c'è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe di Israele». Parafrasando si può dire: "Rivendica te stesso perché anche noi possiamo emergere in mezzo agli altri".
Può trattarsi solo di un pio desiderio, ma teniamo presente comunque che il popolo viene visto in stretta unione con il suo Dio, per cui la vittoria invocata per il proprio Dio è vittoria del proprio popolo.
Qualcosa di simile è affermato in Giuditta 16,17 ed Ester 4,17; nel Salmo 68,21-22 si dice addirittura che Dio è un
«Dio che salva» perché «schiaccerà il capo dei suoi nemici».

Questa stessa idea di rivendicazione è anche alla base del concetto di risurrezione come si esprime in Daniele 12,1-3 e, sul piano individuale, in Sapienza 2-5.
La risurrezione non è che la rivendicazione del proprio popolo il quale, impossibilitato a vincere su questo mondo, spera in una vittoria al di là della morte. Non si tratta quindi di una resurrezione a doppio senso, che avviene per tutti, buoni e malvagi, ma è un postulato o un premessa perché si realizzi la giustizia a favore dell'oppresso. Dio, in altre parole, non può tollerare che il suo popolo sia ingiustamente oppresso.

2) Un secondo punto di questo confronto si esprime dal lato positivo con l'assimilazione del Dio di Israele ad altri dèi attraverso vari accorgimenti, tra cui una terminologia che sia adatta a designare una realtà divina accessibile a tutti.

Già in alcuni libri della Bibbia il Dio d'Israele viene detto
Altissimo (un titolo che traduce l'ebraico Elyon), un titolo che permette di accostare il Dio d'Israele a quello più alto del pantheon degli altri popoli. Oppure si parla del Dio celeste, o semplicemente del Cielo, come nel libro di Daniele, oppure anche del Dio Ignoto.
Ma d'altra parte il Dio d'Israele viene anche assimilato esplicitamente ad altre divinità, tra cui soprattutto Zeus e Dioniso. In ambiente latino si fa addirittura una (voluta?) confusione tra il Dio di Israele nel suo appellativo di
Dio degli eserciti (in ebraico YHWH Sebaot) e Zeus Sabazio.
Inoltre, con etimologie fantasiose si cerca di spiegare il termine Dio in modo da far intravedere che tutti possono ritrovarsi nel significato del nome. Per esempio, si fa derivare Zeus dal verbo
zen (vivere), per dire che sia Zeus sia il Dio d'Israele danno la vita. Oppure si afferma che theós deriva da theinai (porre), volendo dire con ciò che Dio è tale perché ha posto in ordine tutte le cose, così come fa il Dio d'Israele.

Il dialogo che si intesse a livello di divinità cerca dunque vari accorgimenti per fare sì che anche il popolo d'Israele, protetto dal suo Dio, possa vivere in mezzo agli altri ma questa convivenza viene spiegata o giustificata a livello teologico, manipolando il nome di Dio.

3) Vi è poi un terzo elemento di questo dialogo, che è ancora più importante e ha permesso realmente al giudaismo di sopravvivere nello stesso cristianesimo. Si tratta di un confronto culturale che ha fatto maturare più espressamente la coscienza etnica del popolo ebraico, adottando un meccanismo culturale che è tipico di quel tempo.

I popoli che avevano raggiunto grandi espressioni di civiltà nell'Antico Oriente, quasi avvertendo che la loro storia era ormai al tramonto hanno cercato di recuperare il loro passato ricostruendo una loro storiografia in qualche modo ufficiale.
Vi sono due esempi famosi in questo senso: Manetone per l'Egitto e Berosso per la Mesopotamia. Noi oggi studiamo l'Egitto con gli strumenti offerti dalla moderna egittologia, ma in realtà con l'impostazione di fondo che ci ha lasciato Manetone. È lui infatti che ha classificato le dinastie dei faraoni, in base alle quali si è costruita tutta la storia dell'antico Egitto, anche se alcune di esse creano profonde difficoltà per lo storico moderno (per esempio quelle attribuite all'epoca degli Hyksos). Manetone, però, nello scrivere la sua storia ha voluto mostrare che l'Egitto rappresentava la civiltà più importante e più antica di quel momento.
Lo stesso ha fatto Berosso per la Mesopotamia. In tre libri (intitolati appunto
Babiloniakà, ossia Le cose che riguardano Babilonia) egli ha inteso presentare la civiltà babilonese come la più antica e la più eccellente.
Un popolo si qualificava dunque mediante questi due criteri: l'antichità e la superiorità culturale, e in tal senso assumeva un posto preciso nell'insieme degli altri popoli contemporanei.

Ora, la stessa cosa hanno fatto anche gli ebrei. Purtroppo questo genere di storie e questi confronti con altri popoli, dovuti ad autori ebraici, sono sopravissuti solo in frammenti, e anzi gli stessi storiografi sono stati quasi dimenticati. Ma anche se gran parte di queste opere è andata perduta per noi, la loro influenza è stata determinante per la storia del giudaismo.

Così Abramo e Mosè, quali rappresentanti principali del popolo ebraico, sono diventati inventori e diffusori di beni di civiltà, eroi benefattori dell'umanità, ossia eroi "eponimi", in quanto hanno dato il nome a beni di civiltà.
Mosè è l'interprete delle scritture e quindi è simile ad Ermes, dice uno di questi storiografi di nome Artapano; è simile ad Ermes per la sua
ermeneia delle scritture. Si gioca sui termini, Ermes ed ermeneia, ponendoli tra loro in connessione etimologica. Inoltre Mosè ha inventato i grammata, ossia l'alfabeto, la scrittura, che è simbolo di civiltà e cultura, in quanto ne costituisce lo strumento espressivo.
Oppure ancora, Abramo insegna l'astrologia ai Caldei, ai Fenici ed agli Egiziani, rispecchiando in tale itinerario geografico il percorso biblico del patriarca: Abramo proviene dalla Mesopotamia, soggiorna in Siria e in Palestina e va in Egitto, ma è l'eroe più antico perché insegna a tutti gli altri i beni fondamentali di civiltà.
Infine, possiamo accennare al fatto che Mosè è degno di stare tra i grandi legislatori dell'antichità; si ricordi la famosa frase di Numenio di Apamea, ripetuta molte volte dopo di lui, dal II secolo a. C. in poi:
Platone non è altro che un Mosè che parla attico (ossia che si esprime in greco).
Per conseguenza, con cronologie e sincronismi si stabilisce l'antichità degli ebrei rendendo i personaggi biblici contemporanei di nomi famosi: Mosè è più antico di Semiramide o addirittura è vissuto prima della guerra di Troia (che per l'antichità era, per così dire, l'episodio che dava inizio alla storia civile). In definitiva, si cerca di creare una propria identità etnica con valori o elementi storiografici comuni, cercando allo stesso tempo di salvare la diversità di sé stessi e del proprio Dio.

4) Vi è ancora un altro elemento, caratteristico di questo confronto, e ugualmente importante. Nasce in questo tempo l'idea di una rivelazione che viene dall'alto e che è distribuita da Dio soltanto a chi egli desidera. Non tutti possono possedere la vera conoscenza delle cose, ma soltanto coloro a cui Dio la comunica attraverso personaggi particolari.
Tipica a questo riguardo è la figura di Enoc, a cui vengono attribuiti molti testi apocrifi. Enoc è l'uomo che ha conosciuto i segreti celesti, ossia in concreto l'astronomia, perché ha viaggiato attraverso i cieli e Dio gli ha fatto conoscere tutta la configurazione del cosmo; egli stesso ha poi comunicato questa scienza nei limiti voluti da Dio (si ricordi, anche qui, la concezione delle
tavole celesti).
Questa idea di una scienza che viene dall'alto e che è riservata soltanto ad alcuni, fa maturare ulteriormente la coscienza etnica del popolo ebraico, anche se crea per altri aspetti seri problemi, come quello della verifica.

Se si considerano assieme questi e altri fattori del confronto, si può comprendere come essi contribuissero a formare una cultura multiforme e a loro volta creassero una immagine degli ebrei che era in fondo possibilista.
Ecco perché diversi autori antichi hanno pensato degli ebrei tutto quello che era immaginabile, anche riguardo alle loro origini. Ad esempio, Tacito (
Storie V, 1-13) presenta ben cinque origini degli ebrei, tutte possibili dal lato storico: gli ebrei possono essere originari di Creta, perché a Creta vi è il monte Ida (ludaei deriverebbe da Ida), oppure possono venire dall'Egitto, o dall'Etiopia, o dalla Siria, oppure hanno origini illustri perché sono identificabili con quei Solimi (di cui parla Omero) i quali hanno fondato lerosolyma, ossia Gerusalemme.
L'immagine che gli ebrei offrono di se è talmente varia che gli altri posso pensare degli ebrei diverse cose; né gli altri né gli ebrei stessi si sentono legati ad una storiografia biblica, la quale dal lato storico è quindi solo una tra le tante.



IV Conclusioni

1) La varietà del giudaismo al suo interno e la capacità del dialogo autoformativo non sono in contrasto con quanto si è detto sulla Torah, ma sono una documentazione esplicita della capacità che la Torah possiede di conservarsi aperta. Non siamo andati oltre il significato ideale della Torah. Tutta la storia del giudaismo che abbiamo cercato di delineare nei termini spiegati all'inizio è un'esplicitazione del senso più profondo della Torah.
Ciò non solo rivaluta un pluralismo giudaico, ma è in linea con quanto oggi si va sempre più affermando, ossia che non vi è stato prima del rabbinismo ma anche dopo, una giudaismo ortodosso su cui misurare tutte le altre espressioni del pensiero religioso e culturale giudaico.
Ciò indica che anche nel caso di Gesù le dispute non riguardavano questioni di ortodossia o di eresia; del resto il termine eresia all'origine significava semplicemente una corporazione, per lo più quella dei medici, e poi è stato applicato a corporazioni ideologiche, per indicare l'opinione espressa da una certa corrente. Quando i due movimenti del cristianesimo e dell'ebraismo hanno voluto autodefinirsi escludendosi a vicenda, ma usando gli stessi criteri procedurali e quindi anche gli stessi termini, hanno applicato l'uno all'altro il termine eresia, che è diventato sinonimo di squalifica. In realtà prima di tale momento, da collocarsi nel III secolo d.C. non si può parlare di ortodossia o di eresia.

2) Al di là della figura di Gesù, il suo messaggio ha potuto essere universalizzato in quanto lo si è presentato con le categorie storiografiche giudaiche dell'antichità e della superiorità.
Ciò era necessario proprio per poter offrire un cristianesimo che fosse credibile. Il cristianesimo infatti era l'ultimo venuto e come poteva presentarsi ad un mondo, per il quali il criterio di credibilità era l'antichità e la superiorità culturale? In quanto strettamente legato al giudaismo, il cristianesimo ha applicato a sé esattamente i criteri che già il giudaismo aveva formulato per la propria tradizione.
Questo punto va sottolineato dovutamente: se si considera il cristianesimo come qualcosa di diverso o di opposto al giudaismo allora questo modo di presentarlo come il più antico e il migliore (tipico ad esempio di Clemente Alessandrino o di Eusebio di Cesarea) è un vero e proprio furto perché il cristianesimo non aveva alcuna possibilità di presentarsi in tali termini. Se pensiamo ad un cristianesimo staccato dal giudaismo, pensiamo in realtà ad un cristianesimo ladro. Ma se il cristianesimo resta unito alla tradizione giudaica, allora si capisce come abbia potuto attribuire a sé questa prerogativa.
È più importante capire questo procedimento che non il rapporto astratto tra Gesù e il giudaismo. Se il giudaismo non avesse avuto in sé queste potenzialità che si è creato attraverso il dialogo con gli altri, ai quali ha potuto dire di essere il più antico ed il migliore, il cristianesimo non avrebbe potuto dire queste stesse cose e non sarebbe nemmeno comprensibile quello che ha detto Pascal (per tornare a quanto si è detto all'inizio), pur in sede metafisica e travisando il confronto o portandolo su un piano ben diverso da quello storico. Questo punto è dunque il più importante ed il più determinante per capire il dialogo tra Gesù, il giudaismo ed il cristianesimo che ne è seguito, al di là dello stretto rapporto tra Gesù ed il suo mondo.

3) Anche il giudaismo posteriore all'epoca di Gesù e del NT ha espresso questa sua natura dialogante mediante un linguaggio simbolico che è ben diverso da quello argomentativo e sillogistico tipico della tradizione cristiana.
L'esegesi giudaica che si riflette nel
Talmud o nel Midrash, oppure le stesse raffigurazioni pittoriche delle sinagoghe ci presentano un linguaggio simbolico fatto per richiami, contrapposizioni, allusioni, che mantengono il giudaismo aperto alle altre espressioni culturali. Il simbolismo giudaico che troviamo raffigurato nelle sinagoghe è tratto infatti dal mondo greco-romano e viene adottato per riformulare e capire il proprio patrimonio religioso.

4) Studiare il rapporto di Gesù con l'ebraismo o rivalutare l'ebraicità di Gesù non significa allora ricostruire un personaggio storico ideale sul tipo delle varie figure di Gesù, come si è sempre fatto tutte le volte che si è voluto rivalutare un Gesù storico, per esempio sul piano etico o antropologico. Capire Gesù all'interno del giudaismo significa in qualche modo vedere quali sono le premesse anche del fatto che Gesù è diventato il Cristo.

Beniamino Placido diceva giustamente nella sua prolusione a questo corso che bisognerebbe individuare quale è stata la scintilla che ha fatto sì che quel personaggio diventasse determinante per la storia. Si potrebbe dire che tale scintilla, pur difficile a trovarsi in sé stessa, può essere in qualche modo adombrata nella storia del giudaismo, in alcune caratteristiche del giudaismo stesso che hanno permesso alla figura di Gesù di essere poi trasmessa come Cristo.

Le basi cioè della cristologia non si trovano al di fuori del giudaismo ma sono una applicazione dei valori stessi della Torah. In altre parole, alcuni valori della Torah si ripresentano a livello cristologico.
L'interpretazione sapienziale della Torah ricompare ad esempio in sede cristologica in
1 Cor 1-2, in affermazioni che ricordano l'itinerario della sapienza in Ben Sira 24 e Baruc 3,9-4,4.
Sarà appena il caso di ricordare che in
Rm 10,1 si dice che «il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede». Termine (in greco telos) non significa il termine, fine, ma compimento, scopo, e quindi, dal nostro punto di vista anche esplicitazione della Torah. Secondo Paolo, se Israele non giunge a Cristo non può dire neppure di aver realizzato i valori della Torah.



DIBATTITO



1. Lei ha spiegato il processo di sviluppo del giudaismo e la versione cristiana del giudaismo, tornando all'indietro fino alle origini dell'umanità. Che rapporto c'è tra questo processo o in che modo questo processo ha potuto aiutare la divinizzazione di Gesù, come è espressa ad es. nel Vangelo di Giovanni «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio»? In tale passo si torna indietro alle origini del mondo.

Questa interpretazione giovannea si forma all'interno della tradizione cristiana su alcune premesse che però sono sempre giudaiche.
Il prologo di Giovanni si può capire sullo sfondo di una concezione, condivisa dal mondo giudaico, secondo la quale bisogna coordinare nuovamente tra loro i vari elementi del mondo quando è venuta meno una certa concezione armonica del cosmo. Non parlo di una visione dualistica della realtà, ma di un modo dissociato nelle sue componenti e soprattutto nei suoi rapporti con Dio. È sorta così l'idea di una mediazione, che già si trova espressa nelle traduzioni antiche di alcuni testi della Bibbia ebraica. Riflettendo su tale procedimento di mediazione si è poi potuto pensare anche alla divinità di Gesù, all'interno della tradizione cristiana.


2. Mi sono sempre chiesto come mai non è scoppiato, a livello tale da essere trascritto nei libri di storia, il conflitto tra ebrei e romani all'epoca dell'espansione romana in Medio Oriente, circa l'adorazione degli dèi pagani e quindi anche del culto dell'imperatore, che poi è stato uno dei motivi di persecuzione dei cristiani. Perché la richiesta di ossequio agli dèi pagani e all'imperatore, che veniva richiesto ai cristiani come esempio di sottomissione alle leggi dell'impero, non era mai stata chiesta, per quanto ne sappia, agli ebrei?

II culto imperiale nasce più o meno all'epoca di Gesù. Prima i romani si presentavano in maniera diversa, tutt'al più potevano essere considerati degli alleati politici, come abbiamo detto a proposito di 1 Maccabei, oppure, sul piano religioso, come dèi pagani.
Il giudizio politico e religioso formulato dalla tradizione giudaica sui romani è ad ogni modo in gran parte negativo. I romani per esempio erano visti come
Edom, cioè popolo nemico. Ma al di là di questo tipo di giudizio non si trovano elementi tali da giustificare una persecuzione dello stesso tipo di quella cristiana.
D'altra parte, la questione che si pone per le persecuzioni cristiane non è così semplice e drastica come si pensa comunemente, trattandosi in molti casi di storiografia apologetica.


3. II giudaismo al tempo di Gesù, con il suo pluralismo che lo caratterizzava, quali visioni di messia aveva?

II messianismo, come lo intendiamo noi, non esisteva all'epoca di Gesù. Il messianismo è un fenomeno culturale nato dalla tradizione ebraica e cristiana. Non è un fenomeno interno a queste due tradizioni nella loro epoca di formazione.
Del resto il messianismo di Gesù è stato un fenomeno composito. Si è costituita la figura di Gesù messia attribuendo a lui vari titoli che già si trovano nell'AT e nel giudaismo. Da qui è venuta fuori la concezione di un messianismo che poi ha avuto peso nella nostra tradizione culturale. Si tratta però di un fenomeno di interpretazione della Bibbia, non di un qualcosa che è presente nella Bibbia stessa. Per es. la figura messianica creata su base davidica (un Davide redivivo o una qualche figura di Davide) deve tenere conto che di Davide si avevano diverse interpretazioni nel giudaismo.
Non esisteva quindi una precisa figura di messia da essere applicata come tale a Gesù. Il messianismo è un fenomeno in via di formazione che noi, leggendo retroattivamente, cerchiamo di vedere anche in Gesù stesso; come tale, esso è frutto però di una interpretazione sia giudaica sia cristiana. Esso è una interpretazione della storia, frutto della tradizione ebraica e cristiana e che le stesse due tradizioni possono avere in comune, ma che non si ritrova come tale a livello dei testi, cioè nella fase formativa della Scrittura stessa.


4. Dalle testimonianze dei vangeli abbiano una determinata figura di Gesù. Secondo la sua opinione c'è una cifra di originalità in tutto il contesto in cui viene presentata tale figura, rispetto ai contenuti di quello che noi chiamiamo AT?

Bisognerebbe precisare che cosa intendiamo per originalità. L'originalità che noi pretendiamo di ritrovare in certi fenomeni storici del passato è in parte frutto di una nostra interpretazione della storia e che cerchiamo di fondare in un determinato momento di essa. Ma anche a prescindere da questo, cercare l'originalità di Gesù non significa cercare l'originalità di quella persona ma di ciò che ha permesso a quella persona, che è venuta a far parte di una tradizione storica, di diventare tale.


5. Che connessione c'è tra Gilgamesh e la Bibbia e cosa c'è di comune tra la Bibbia, la Torah ed il Corano?

Mi limito a Gilgamesh. Gli ebrei non conoscevano Gilgamesh, almeno non abbiamo testimonianze in tal senso, benché un frammento del poema sia stato trovato anche a Meghiddo, e quindi in Palestina. Gli stessi mesopotamici di epoca ellenistica non conoscevano Gilgamesh se non attraverso Berosso, ma quest'ultimo non parla direttamente del poema. Insomma non ci sono connessioni letterarie dirette tra l'epoca di composizione della Bibbia e il poema.
Ciò nonostante vi è molto dell'ideologia di Gilgamesh nell'AT, tutto il senso di umanità dell'AT e in genere della letteratura ebraica può risalire a quel poema, e in particolare una certa visione della civiltà e della morte. Ma le scritture giudaiche diventate AT, recepite poi nel NT, hanno voluto dimenticare addirittura Gilgamesh, lo hanno respinto per certi aspetti.


6. Vorrei tornare un attimo sul problema della originalità. Noi siamo stati abituati e ci siamo affezionati ad una letteratura dei vangeli fatta in termini contrastanti: da una parte c'è la tradizione giudaica formalistica, perentoria, legalistica, dogmatica, non si fa niente il Sabato, chiudete le botteghe ecc., dall'altra parte arriva Gesù e dice: chi l'ha detto? in certi casi si può, senz'altro.
Questo ci è sempre parso come una grande conquista in termini di libertà e di responsabilità: dipende da te decidere che cosa puoi fare il Sabato. Non puoi accontentarti di leggere il catechismo e di seguire quello che dice. Tutto questo viene messo in crisi? A me non dispiace. La sua impostazione di questa sera è una novità, o la nostra lettura dei vangeli resta in piedi e in che modo e quanto?

I termini esatti e precisi della contrapposizione ad es. nel discorso della montagna in realtà visti all'interno del fenomeno più vasto del giudaismo contemporaneo di Gesù si capiscono come dispute interne, relative all'interpretazione di una legge.
È importante guardare alla disputa in sé, complessivamente, non ad una sua parte presa isolatamente. In tal senso, la disputa si colloca nella stessa tradizione del decalogo. Qual è il valore del decalogo per l'antico Israele? Non è quello di comandare una serie di norme comportamentali rigide, ma quello di testimoniare la fede in Dio; quello che vale è il primo comandamento, gli altri ne sono la testimonianza concretizzata e concretizzabile: sono solo campi esemplificativi, la cui attuazione concreta e la cui normativa specifica va individuata di volta in volta.


7. Qual è la differenza tra fede e religione? Si capisce il principio ermeneutico della dialettica tra fede e storicità, ma mi sono venute in mente alcune letture come quella di Küng, "Ebraismo", dove si pone l'accento sul modello di Abramo come adatto per impostare un dialogo tra il mondo islamico ed il cristianesimo. In esso si sottolinea il rapporto tra Torah e fede di Abramo.

Cerco di rispondere alla sua domanda semplificandola in questi termini: nel giudaismo vi è qualcosa di analogo a ciò che noi intendiamo per fede nell'ambito di un sistema religioso?
Tutta la teologia della fede, come la intendiamo noi, è opera cristiana. Un conto è come la fede di Abramo come viene espressa negli scritti stessi del giudaismo e nell'AT, un altro conto è come vuol essere vista questa stessa fede nel NT. Quest'ultima è una fede che si costruisce in base alla tradizione cristiana, che poi si vuole verificare nella Scrittura.
Direi che l'ebraismo non si pone il problema della fede o della religione come lo impostiamo noi. Le due cose sono molto più legate; la fede, se posso usare questo termine, si identifica con lo stesso sistema religioso. È la qualità del proprio sistema religioso a fondare la fede. Ecco perché tutto il mondo giudaico è fedele a se stesso. Il criterio di abbandono della propria religione, di apostasia, è difficilmente comprensibile nella vera tradizione giudaica.


Home Page | Chi siamo | Attività | Relatori | Bibbia | Chiesa | Etica | Economia | Polis | Pensieri | Audio | Video | Newsletter | Link | Mappa del sito

Cerca

Torna ai contenuti | Torna al menu