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2. Giuseppe Barbaglio 18.02.1993

Bibbia > 1° Corso laico ed interdisciplinare di cultura biblica: Introduzione (1993)



trascrizione integrale


La Bibbia: rivelazione divina o esperienza umana?



Impostazione

Vorrei innanzitutto dire una parola sull'impostazione, come noi affrontiamo il tema all'interno del nostro corso. Il tema si svolge in due parti: una prima di interrogazione panoramica circa i grandi filoni biblici, da cui emerge l'autotestimonianza della Bibbia, ed una seconda più sintetica dove si raccoglie il frutto della carrellata della prima parte, fatta attraverso tutta la Bibbia, che si autopresenta come un insieme di libri che contiene la rivelazione di Dio.

Il tema è molto vasto, presenta infatti sia i dati della Bibbia ebraica che quelli della Bibbia cristiana, per cui seguo il metodo di una esposizione molto telegrafica perché il tempo è tiranno. Innanzitutto la nostra ricerca non è finalizzata a scegliere tra il primo elemento dell'interrogativo ed il secondo o, come si dice, tra i due corni del dilemma. È la fede che accetta la Bibbia come rivelazione divina, mentre l'incredulità rifiuta tale pretesa e la considera un libro umano-religioso come tanti altri. A noi compete, secondo il nostro programma di una lettura laica, renderci conto dell'autopresentazione della Bibbia ebraica e cristiana: se e in che senso comprende se stessa come contenitore di rivelazione divina.
Due sono le domande a cui cercheremo di rispondere. Prima: che cosa dici di te stessa, o Bibbia? Ti vogliamo conoscere per quello che vuoi essere. Seconda: come noi possiamo oggi comprendere questa tua autopresentazione?



1. Interrogazione panoramica circa i grandi filoni biblici

Per rispondere a queste due domande facciamo una grande carrellata attraverso i filoni biblici: quelli in cui è più evidente l'autopresentazione della Bibbia in quanto libro che contiene la parola di Dio, ed altri filoni che a prima vista sembrerebbero molto lontani da questo dato.

a) Analisi sommaria delle vicende del libro dell'Esodo
Ho fatto una scelta dei filoni principali scegliendo innanzi tutto una analisi sommaria delle vicende del libro dell'Esodo perché la rivelazione di Dio che la Bibbia dice di contenere comincia esattamente con questa vicenda, narrata nel libro omonimo.
Questo libro è una epopea, l'epopea della liberazione delle tribù israelitiche dall'oppressione degli egiziani, scritta abbastanza tardi, sfruttando le tradizioni più antiche, ed il libro riflette in realtà il cammino di secoli di meditazione sull'evento dell'esodo e della peregrinazione nel deserto verso la terra promessa. È quindi il frutto tardivo di riflessioni approfondite.

Il libro è ritmato sulla parola di Dio a Mosè, suona grosso modo così:
- tu Mosè farai in questo modo, andrai dal faraone e chiederai che lasci andare il popolo;
- Io, JHWH, Dio, farò questo e ci saranno reazioni da parte del faraone, che all'inizio saranno negative;
- Io spezzerò la resistenza del faraone e libererò il popolo ed allora tu dirai al popolo di tenersi pronto e di fare quello che dico. Intanto il popolo è quasi passivo, il grande protagonista è JHWH;
- Io mi glorificherò davanti a voi ed anche davanti agli egiziani. Cioè Dio si manifesta glorificandosi, la gloria è lo splendore della presenza di Dio, che si fa vedere, che si tocca con mano. Dunque la storia dell'Esodo è stata raccontata come la storia dell'autorivelazione di Dio avvenuta nel liberare le tribù, nello spezzare la resistenza del faraone. Dio dunque è presentato come il liberatore del popolo schiavo e come il potente signore del mondo.

È quindi una autorivelazione: Dio rivela se stesso nell'evento dell'esodo. Però non basta l'evento, ci vuole una parola chiarificatrice di Mosè che nell'Esodo viene messa previamente in bocca a Dio. Mosè è presentato come il profeta che interpreta, in nome di Dio, l'accaduto. L'accaduto è che storicamente alcune tribù israelitiche, in Egitto subirono momenti di oppressione sociale, come i lavori forzati, e che, attraverso vicende un po’ piratesche, riuscirono a fuggire dalla mano dell'oppressore egiziano ed entrare poi nella terra promessa.
Nei suoi connotati storici il fatto di per sé ha un'importanza relativa che potrebbe avere tanti significati, ma è chiarificato dalle parole di Mosè il quale dice: in questo evento Dio era presente, Dio era operante, Dio si è glorificato, Dio si è mostrato come il liberatore del popolo ebraico. Autorivelazione divina quindi che si compie nell'evento e nella parola che ne chiarisce il senso presentandolo come evento di liberazione causata dall'intervento di Dio, un intervento non così plateale come è descritto nel libro, ma piuttosto nascosto e misterioso come vedremo più avanti. Vi si riconosce una presenza di un Dio che perciò si disvela.

b) Il decalogo o le dieci parole di Dio
Le
dieci parole di Dio è un altro modo di chiamare il decalogo nella tradizione ebraica. Se noi leggiamo Es 20,1 dove c'è una prima redazione del decalogo troviamo in un breve versetto tre verbi sul parlare di Dio: «e disse Dio tutte queste parole, dicendo ...» e seguono i dieci comandamenti.
Nella versione di
Dt 5 abbiamo Mosè che parla: «Ascolta Israele le leggi e le norme che oggi parlo dinanzi a voi per riferirvi la parola di JHWH». Sono sempre le dieci parole di Dio. Si noti questa duplicità: le leggi che vi do io, queste sono le parole di Dio. Dunque parola di Dio ed insieme parola umana messe insieme; non o .... o, ma e .... e.

Il decalogo del Sinai lo troviamo in tre versioni.
Es 20 di tradizione Elohista, Dt 5, ed infine un decalogo cultuale in Es 34 che conosciamo poco, proveniente dalla tradizione Jahvistica, centrato sulle feste, sulla liturgia, sui riti. Dunque, diversi decaloghi ed ognuno con una sua storia, con una sua lenta formazione. All'inizio con tutta probabilità c'era soltanto un elenco di tre comandamenti, di forma eguale, molto brevi, ed in negativo: non uccidere, non rubare, non commettere adulterio.
Perché possiamo dire che all'inizio c'era questa piccola formazione che poi si è allargata fino a diventare un decalogo? Perché i tre comandamenti citali ricorrono in
Os 4,2 e Ger 7 già insieme, come un gruppo a sé stante, per cui il nostro decalogo è il punto di arrivo di un processo di raccolta fino a raggiungere il numero dieci.

Tra l'altro il decalogo è abbastanza tardivo; viene attribuito a Mosè sul monte Sinai, ma la sua formazione e raccolta è posteriore di secoli e secoli. Nei vari decaloghi hanno influito le situazioni socioculturali del tempo. Ad es. nell'ultimo comandamento del decalogo del cap. 20 dell'Esodo si dice:
«non desidererai la moglie del prossimo, la casa, il bue e l'asino» (ossia tutte le proprietà dell'israelita). In Dt 5 questo comandamento si divide in «non desidererai la moglie del prossimo» e «non desidererai la casa, il bue e l'asino». Questo spostamento, abbastanza rimarchevole, suppone una situazione socio-culturale mutata.
Così ad es. il comandamento
non rubare inizialmente significa con tutta probabilità non sequestrare con riferimento ai sequestri di persona tra tribù rette da usi e costumi tribali classici.

In definitiva il decalogo non è stato inteso come elenco di dieci comandamenti immutabili, ci sono stati adattamenti culturali continui. Che cosa si può concludere da tutto ciò?
Bisogna distinguere il primo comandamento
non avrai altro Dio all'infuori di me (o meglio di fronte a me) che riflette l'anima della religione mosaica ed è la deduzione immediata che viene dall'esperienza dell'esodo. È il cuore della religione mosaica. Gli altri comandamenti sono liturgici od anche le espressioni dei valori etici prima dei clan israelitici, poi delle tribù che si sono unite, poi ancora del popolo che ha avuto una forma statuale. In breve si tratta di percezioni etiche vissute come manifestazioni divine. Quindi nel decalogo abbiamo un'autorivelazione del volere di Dio, delle sue esigenze circa il popolo.

Si noti che i dieci comandamenti vengono dopo la liberazione. Dio libera il popolo e dopo che il popolo è liberato fa l'alleanza con Dio, di cui i dieci comandamenti sono le clausole: se vuoi essere il mio popolo, queste sono le condizioni del patto.
Anche qui Mosè è presentato come l'interprete della volontà esigitiva di Dio per il suo popolo. La sua interpretazione in quanto profetica assume il valore di parola di Dio. Come ha fatto Mosè così faranno i profeti. Non voglio parlare di un altro filone, il filone dei profeti. In realtà questi non fanno altro che continuare l'azione profetica iniziale di Mosè con una differenza: i profeti hanno avuto esperienze estatiche e parlano di ciò che hanno visto e udito circa il mondo di Dio.
Così Isaia parla della sua vocazione: io ho visto Dio in trono nel suo palazzo, circondato dai dignitari di corte e mi sono sentito un peccatore; allora un cherubino, preso in mano del fuoco è venuto a purificarmi le labbra in modo che io possa proclamare la parola di Dio (
cap. 6). Ezechiele dice: mi è stato dato il libro delle parole di Dio e me lo sono mangiato ed era enormemente dolce dentro di me. Si tratta di esperienze estatiche, straordinarie, mistiche. Esse rappresentano una particolarità dei profeti rispetto a Mosè. Ma come Mosè, i profeti sono degli interpreti dell'azione di Dio nella storia e delle esigenze di Dio verso il suo popolo, per cui non costituiscono un nuovo tipo di rivelazione di Dio.

c) Le memorie storiche del popolo di Israele

Noi non abbiamo solo i libri dove appare come protagonista Mosè. Abbiamo anche una storia raccolta dal Deuteronomista che ha formato una sintesi storica del periodo successivo alla peregrinazione nel deserto. Sintesi narrata nei libri di Giosuè (le tribù entrano nella terra), Giudici (la sedenterizzazione), 1 e 2 Samuele (periodo della giudicatura e del trapasso alla monarchia), 1 e 2 Re (la storia della monarchia fino all'esilio).

Poi abbiamo un altro filone, quello del Cronista, che fa la storia dell'esilio fino alla comunità israelitica postesilica, ritorno nella terra e nascita di una comunità di tipo religioso a Gerusalemme e nel territorio della Giudea.
Quale particolarità mostrano questi libri? Molte pagine non nominano neppure Dio, sono una narrazione fondata su tradizioni o annali in cui gli autori anonimi, che chiamiamo convenzionalmente il Deuteronomista o il Cronista, hanno voluto mostrare come dietro gli eventi con i loro protagonisti, i re, i circoli di Gerusalemme, circoli periferici, etc., che rappresentano con tanti attori umani guidati da passioni, progetti, speranze, etc., c'è una presenza discreta al massimo. ma efficace di Dio. Dio è colui che tira le fila dietro il palcoscenico dove a prima vista spesso ci sono solo attori umani.

Questi libri sono poi entrati nel catalogo, nel canone della Bibbia, allo stesso modo della vicenda dell'esodo e delle parole del decalogo. ma anche degli scritti profetici e sono diventati libri nella coscienza del popolo israelitico, contenitori della rivelazione di Dio. La storia, anche più comune, è interpretata come parola di un Dio che si disvela come colui che salva e castiga, dunque c'è una autorivelazione divina incarnata nella narrazione di eventi che costituiscono la storia del popolo ed è solo con l'attenzione che Israele scopre dietro questi eventi umani uno che tira le fila.
È per questo che le memorie storiche del popolo di Israele sono state distinte dal racconto dell'esodo; nell'uno e nell'altro caso però abbiamo sempre l'autorivelazione divina nella storia, là attraverso eventi straordinari, qua invece attraverso il gioco degli eventi.

d) Le osservazioni empiriche e le riflessioni razionali ed esistenziali dei saggi d'Israele

L'ultimo filone della Bibbia ebraica si allontana sempre di più dal concetto della rivelazione divina più stretta ed arriva verso accezioni molto lontane di rivelazione divina. Intendo la corrente sapienziale; per es. il libro dei Proverbi e quello del Qoelet, mentre l'Ecclesiastico non fa parte della Bibbia ebraica.
Che parola abbiano all'interno di questi libri? Abbiamo esplicite parole di maestri umani che si rifanno spesso a insegnamenti sapienziali. È una parola razionale, tesa ad indicare ai discepoli che vengono chiamati figli (
ascolta, figlio mio) la via capace di condurre al porto della felicità terrena. Lo scopo dell'insegnamento sapienziale è quello di attrezzare l'uomo perché possa dirigere la barca della sua esistenza in direzione del porto della felicità mondana, terrena. Le doti di scaltrezza e furbizia che sono richieste nelle parole dei saggi potrebbero fare impressione, ma per l'uomo della tradizione semitica ed anche israelitica erano fondamentali per riuscire nella vita.
Ha anche altre qualità, quali il timore di Dio, la pietà, la religione.
Questa parola dei saggi inoltre a differenza di quella di Mosè sull'evento dell'esodo che riguardava le piccole vicende del popolo israelita, è internazionale, costituiva il mezzo di dialogo con tutti gli uomini con i quali si aveva in comune l'interesse per l'esistenza umana.

Anche i libri sapienziali poi vengono raccolti e messi accanto alla Torah, i cinque libri di Mosè, e ai profeti anteriori (cioè Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re), e posteriori (cioè Isaia, Geremia, Ezechiele, etc.). I libri della terza categoria, chiamati gli altri Scritti, sono entrati così a formare con la Torah ed i Profeti, la Bibbia ebraica. Essi contengono una parola di Dio in senso lato. È la loro una rivelazione mondana, nella natura.
E veniamo ora alla Bibbia cristiana.

e) Le tradizioni evangeliche-sinottiche ed i relativi vangeli
Le tradizioni stanno prima dei tre rispettivi vangeli di Matteo, Marco e Luca.
In tali tradizioni e negli scritti successivi Gesù appare anzitutto come un profeta, portatore di un messaggio divino. Basta pensare alla sua parola:
«II regno di Dio bussa alle porte, convertitevi» (Mc 1,15), messaggio tipicamente divino di un profeta. Gesù appare come un taumaturgo o un operatore di segni divini, di guarigioni, come un Rabbi interprete della legge mosaica (basti pensare al discorso sulla montagna), come un saggio che riflette sull'esistenza umana. Nel discorso della montagna infatti dice ai discepoli che non possono servire a due padroni assoluti, mammona, il danaro e Dio, ma debbono scegliere, è una sentenza sapienziale. Così quando Gesù dice: «non affannatevi per il mangiare od il vestire, perché ci pensa Dio; dovete aver fiducia nel Dio creatore».

Gesù fu condannato a morte come falso profeta ed avversario del tempio. Questa sembra la causa storica che ha fatto decidere la sua sentenza di morte.
Cosa ha significato la sua morte in croce? Era una ignominia per il mondo greco-romano, tant'è vero che un cittadino romano era esente dalla pena della crocefissione. Tale pena era stata ereditata dal mondo persiano, non era di origine occidentale. Era una pena terribile, riservata agli schiavi ed ai ribelli. Pilato, prefetto romano dal 26 al 36 d., procuratore della Giudea, a causa di una sollevazione fece impalare centinaia di ribelli.

Per il modo ebraico poi era il segno di una maledizione divina:
«Maledetto colui che pende cadavere dal legno» dice Paolo in Gal 3,13 a proposito di Gesù. Gli ambienti giudaici dicevano che Gesù era un maledetto da Dio perché crocefisso e Paolo, rovesciando l'argomento, replica: «Egli che è il maledetto da Dio, è la fonte della benedizione per tutti». Come crocifisso Gesù appariva un falso profeta, un annunciatore smentito da Dio. Sotto la croce i suoi avversar! dicono: «se sei il Figlio di Dio scendi dalla croce e noi crederemo in te, ne ha salvati diversi e non può salvare se stesso».
Ma le tradizioni sinottiche evangeliche si concludono con l'annuncio che Egli è stato resuscitato da Dio. Da tale annuncio e dalle predicazioni apostoliche sono nati nei tempi successivi i racconti delle apparizioni pasquali che sono però un prodotto secondario. Dunque resuscitandolo, concludono i suoi discepoli, Dio lo ha legittimato come profeta, la parola di Gesù è la parola di Dio e la predicazione apostolica si incentra su di Lui.

Gesù che prima era l'evangelista, il portatore della parola di Dio, è passato ad essere l'oggetto dell'annuncio, tant'è vero che noi abbiamo all'inizio del vangelo di Marco:
«l'inizio del lieto annuncio (del vangelo) di Gesù Cristo». Questo genitivo è oggettivo, il lieto annuncio divino riguarda Gesù Cristo. Così Paolo adopera le due espressioni: vangelo di Dio, cioè la lieta notizia che proviene da Dio e vangelo di Gesù Cristo, cioè vangelo riguardante Gesù Cristo. La lieta notizia, la parola che Dio da al mondo è la persona di Gesù morto e risorto. In conclusione Gesù di Nazareth, morto e risorto, non solo ha detto parole rivelative dell'essere divino, ma è anche l'oggetto, il contenuto della parola divina. Così dicono i suoi primi discepoli.

f) Il vangelo di Giovanni
Nel vangelo di Giovanni c'è un salto ulteriore. Gesù di Nazareth, secondo Giovanni, è il Logos, la parola, una parola comunicativa, intellegibile, parola di persona ad un'altra persona. Cristo è il Logos, la parola comunicativa di Dio in forma umana, incarnata (
Gv 1,14).
Ecco il progresso rispetto a sinottici: Gesù non solo è il portatore di parole divine nella sua esistenza storica, non solo è, in quanto morto e risorto, il contenuto della parola di Dio, ossia ciò che Dio vuole dire (Marco), ma è anche la parola, la comunicazione di Dio in forma umana. Dio, dice Giovanni
(1,18) è inconoscibile, ma è diventato conoscibile in Gesù. «Nessuno ha mai visto Dio» (questo concetto riprende tutta la tradizione giudaica), un unigenito Dio che è nel seno del Padre, lo ha tratto fuori dalla inconoscibilità, dalla zona d'ombra in cui Dio è per natura.
Dunque qui è in Gesù, in una storia personale, che si ha l'autorivelazione divina. Mentre nell'esodo si è avuta la rivelazione divina nella storia di un popolo e nei libri storici il disvelamento di un Dio nascosto in tante vicende umane, qui si ha un Dio che è presente e si manifesta nella storia di una persona, interpretata da parole umane di Gesù e dei suoi discepoli.

g) Le lettere di Paolo
Paolo ebbe scambi epistolari con le sue comunità per problemi molto concreti, per cui le sue lettere esprimono il vissuto suo e dei destinatari. Paolo non scrive parole di Dio, non è un profeta sotto tale punto di vista, scrive a proposito di Gesù morto e risorto e ne indica l'incidenza sulla storia e sull'esistenza umana.
Egli scrive a proposito di problemi che le comunità avevano, delle loro difficoltà, dei malintesi che sorgevano tra lui e loro. Paolo non ha mai pensato di scrivere una parte della Bibbia, di scrivere per i posteri. L'unica Bibbia che conosceva, come tutto il protocristianesimo del resto, era quella ebraica. Egli scrive biglietti, lettere occasionali ad una certa comunità perché non può andarci di persona. Attacca anche i suoi avversari che gli volevano fare la forca. Poi nel secondo secolo le sue lettere, insieme con i vangeli ed altri libri, sono stati raccolte per costituire la Bibbia cristiana, un insieme di scritti centrati sul vangelo di Dio riguardante Cristo.



2. La Bibbia ebraica e quella cristiana si presentano come un insieme di libri che contengono la rivelazione di Dio
Dobbiamo ora precisare il senso vero del risultato della precedente panoramica. Procediamo per affermazioni sintetiche:

a) Rivelazione nella storia
Innanzitutto la Bibbia si presenta come insieme di libri che contengono una rivelazione divina nella storia, non una rivelazione di Dio agli inizi dei tempi. È una rivelazione che avviene nel flusso della storia, negli eventi dell'esodo e della storia della giudicatura e della monarchia dell'antico Israele, nella vicenda di Gesù.

b) È una rivelazione che è storia

Sono gli eventi in cui Dio è presente ed operante che lo disvelano. La rivelazione di Dio è la storia di Gesù, è la persona di Gesù, come dice Giovanni. Questa rivelazione è nei fatti.

c) La rivelazione ha una storia
Cominciata con l'esodo, procede nella storia successiva e, secondo i cristiani, raggiunge il suo vertice in Gesù, morto e risorto, con cui si chiude, mentre secondò la Bibbia ebraica la rivelazione si chiude grosso modo cento anni prima di Gesù.

d) Questa rivelazione è parola profetica

È interpretativa degli eventi della storia. È parola umana che interpreta il senso degli eventi.
Se prendiamo ad es. la morte di Gesù in croce, essa era stata interpretata dagli avversari come l'effetto della maledizione divina, mentre i cristiani la interpretano come un gesto di amore di Gesù e di Dio per noi. Lo stesso evento ha diversi significati. L'evento diventa rivelazione quando viene chiarito in una determinata direzione, in una determinata valenza, con un determinalo significato.

e) Non è parola divina allo stato puro
Non è una parola astorica. Non è una parola immutabile. Non è una parola di Dio incondizionata.

f) Dire che la Bibbia contiene la rivelazione divina è un concetto analogo
Ci sono parole umane più rivelatrici di Dio ed altre meno. Alcune sono più distanti, ossia hanno meno capacità rivelative.

g) È rivelazione attraverso l'evento-parola

Non attraverso la visione, il bagliore della luce divina. Si parla anche di alcune visioni ma l'elemento centrale anche nelle visioni è la parola.
Se si prende ad es. il racconto del cap. 4 dell'Esodo quando Mosè viene chiamato da Dio, c'è l'elemento della visione, sia pure simbolica, del roveto ardente, ma fondamentale è la parola. Anche nel racconto della vocazione di Paolo nella scenografia c'è la luce, ma l'aspetto fondamentale è la parola.
Nel mondo greco del tempo erano invece fondamentali gli dei che si facevano vedere nel mondo. Il Dio della Bibbia non si fa vedere, nessuno lo ha mai visto. Gesù lo ha tratto fuori dalle tenebre del Suo mistero, attesta Giovanni.

h) A questa rivelazione divina corrisponde una religione dell'ascolto
«Ascolta, Israele, il tuo Dio è l'unico» (Dt 6,4). Gli ebrei tutt'oggi recitano questa preghiera. È una religione della sottomissione. Paolo dice che la fede è hypakoe tes pisteos, ossia un sottomettersi all'ascolto. Ciò corrisponde ad una religione del dialogo tra Dio e l'uomo: c'è la parola di Dio, c'è l'ascolto umano, c'è la parola umana a Dio. I Salmi, le preghiere che si trovano nella Bibbia, sono la parola umana di chi ha ricevuto una parola di Dio, l'ha ascoltata e reagisce con una parola sua. I Salmi non sono la parola di Dio, sono la risposta degli uomini ad una parola di Dio ascoltata.
Non è una religione della contemplazione estetica ed estatica. Nelle tradizioni ebraica e cristiana manca la sensibilità artistica del bello mentre nel mondo greco era una delle caratteristiche fondamentali. Non è una religione dell'estasi che porta fuori dalla storia, abbacinati dallo splendore divino. Non è una religione dell'assorbimento mistico dell'uomo nel divino. Non è una religione della vista, dell'occhio. Alla rivelazione divina biblica corrisponde una religione dell'orecchio.

In conclusione, la Bibbia non si presenta come rivelazione divina o come esperienza umana. Vale piuttosto
e … e.
Si tratta in realtà di persone, gruppi, comunità che vivono una storia e vi percepiscono nella fede una presenza misteriosa operativa di Dio che, in quanto presente, si fa conoscere nel fare. Possiamo dire che è un insieme di parole, intuizioni, riflessioni circa l'oggetto immenso che è Dio, che come tale sfugge sempre, viene colto in parte. Per questo ci sono tante parole di Dio nella Bibbia, c'è una storia lunga di rivelazione dello stesso Oggetto immenso. Tutte le parole presenti nella Bibbia sono un tentativo degli uomini di esprimere l'inesprimibile. Inoltre nella Bibbia si attesta la rivelazione storica di Dio, cioè nella storia.
C'è anche qualche accenno alla rivelazione divina nella natura, nel mondo, come nei libri sapienziali, ma l'accento è sulla rivelazione storica. Infine, è una rivelazione divina ulteriormente limitata perché rimanda alla rivelazione finale nel tempo ultimo.




DIBATTITO



1. A proposito di rivelazione lei si ricollega alla religione, a qualcosa che si burocratizza. Perché non si ricollega alla fede, alla fiducia nella rivelazione?

Si, è questione di parole. Io ho parlato di religione perché volevo paragonare quella in discussione alla religione greca ed a tante altre che sono religioni della vita, ma certamente è vero che secondo la Bibbia la risposta alla rivelazione divina è la fede. Di per sé la fede è un elemento transculturale, però si incarna in uno spessore religioso, in uno spirito religioso, in pratiche religiose, in riti, formule, etc. per cui non abbiamo una fede allo stato puro, ma una fede incarnata in forme religiose.


2. Se è vero l'assioma fondamentale, ossia che la rivelazione divina è esperienza umana, allora perché durante le messe, alla fine della 1° lettura si dice parola di Dio mentre si dovrebbe dire parola di uomo che cerca Dio. Anche perché certe volte è un grande atto di fede credere che si possa trattare di parola di Dio.

II discorso di questa sera servirà ad andare al di là della formula che in se stessa dice tutto, ma anche niente. Il linguaggio liturgico è pieno di emozionalità, di sentimenti, etc., mentre il discorso che noi facciamo vuole essere un po’ più razionale, un po’ più freddo, per cui le formule sono più caute. Io non credo che nella liturgia dobbiamo inserire la frase:
parola di uomini che riflettono la presenza di Dio. L'importante è riuscire a mostrare questo stesso concetto. In fondo se consideriamo la parola di Mosè e quella della sua tradizione dove tutto il popolo è profeta, diremmo che è una parola di uomini che interpretano una storia vedendo in questa storia la presenza di Dio che conduce avanti il progetto che ha sul popolo e sull'umanità.
Per chi crede, in questa storia c'è effettivamente la presenza di Dio che quindi vi si disvela, per chi non ci crede è un elaborato puramente umano e la sua pretesa rivelativa di Dio è illusoria. Queste sono però scelte di tipo confessionale o ideologico e non ci appartengono in questa sede dove vogliamo solo analizzare la Bibbia che si presenta come un insieme di libri che contengono la parola di Dio, formula che però deve essere precisata nel modo come abbiamo cercato di fare.


3. Vorrei qualche ulteriore chiarimento sul motivo escatologico. Mi riferisco a certi profeti come Abdia o Michea che parlano del giorno finale con grandi banchetti, etc. Che rapporto ci può essere tra questa visione e quella di Giovanni nell'Apocalisse, ma anche di Paolo e di Gesù? Può essere un motivo unificante, o cosa altro?

Io ho tralasciato il filone apocalittico pieno di visioni, e i loro autori sono dei visionari, come chi ha scritto l'Apocalisse o ha scritto il libro di Daniele. Molti libri apocalittici non sono stati accettati dalla Bibbia ebraica, ma al tempo di Gesù questa corrente era la più fiorente.
Gli apocalittici sono dei visionari che si fanno avanti durante periodi di crisi violente durante i quali c'è il pericolo della perdita della fede. Per es. il libro di Daniele è nato quando il popolo di Israele era oppresso da Antioco IV che si faceva chiamare Zeus Epifane, cioè Dio apparso. Nel mondo greco non c'è la rivelazione attraverso la parola, c'è l'epifania, cioè il Dio che appare e si mostra alla vista umana.
In un periodo di crisi come quello descritto dall'Apocalisse (Apocalisse = Rivelazione) dove vi sono i primi martiri del cristianesimo, come ci sono stati prima i martiri al tempo dei Maccabei, la visione apocalittica tende a consolare, confortare, sostenere gli animi. Come motivo di conforto i visionari dicono che questo mondo sta per finire e verrà sostituito da un altro mondo che scenderà dal cielo.
Secondo l'ideologia apocalittica, Dio all'inizio aveva creato due mondi, come è scritto nel libro apocalittico
4 Esdra, libro non accettato dalla Bibbia ebraica, ma espressivo della corrente apocalittica secondo cui questo mondo corrotto deve essere eliminato; verrà allora un altro mondo, celeste, a prendere il posto di questo.
Sono visioni entrate poi in parte nella Bibbia come una espressione in un concerto di tante voci. Quello che vedremo più avanti è la grande pluralità di voci che abbiamo nella Bibbia per cui non abbiamo una sola rivelazione ma tante parole umane che cercano di mostrare il volto dell'Oggetto Immenso presente nella storia. Nel filone apocalittico vi è una parola visionaria, tant'è vero che vengono spiegati anche i simboli, quindi una parola simbolica di tipo visionario.


4. Vorrei chiedere che cosa ne pensa del parallelismo che fanno alcuni studiosi tra il decalogo ed il testo di Ammurabi.

La stele di Ammurabi è più antica dei testi della Bibbia ebraica. Più che con il decalogo il confronto andrebbe fatto con i codici biblici più antichi del decalogo come il codice dell'Alleanza che va dal cap. 20,21 dell'Esodo fino a tutto il cap. 23 e riflette la situazione socioeconomica e socioculturale della prima sedentarizzazione di Israele. Il codice Deuteronomistico o Deuteronomico è presente nei capitoli 12-28 del Deuteronomio. Il codice della santità si trova nel libro del Levitico.
Il confronto tra questi codici e la stele di Ammurabi è molto interessante perché fanno parte della stessa cultura ed esprimono simili percezioni etiche. Per es. una delle norme più importanti, la legge del taglione, non è di origine biblica, ma appare in diversi paragrafi della stele di Ammurabi e anche nella civiltà romana antica. Ci sono pertanto delle somiglianze che ci aiutano a capire che la rivelazione o parola di Dio non è una parola astorica, pura, ma incarnata nella storia, un insieme di parole di uomini ritenute espressive e rivelative dell'Oggetto Immenso.


5. Una prima domanda riguarda Giovanni Paolo II che è andato ad Assisi ed ha iniziato il dialogo con le altre religioni. Vorrei sapere che cosa impedisce o meglio cosa può favorire un riconoscimento degli scritti fondamentali delle altre religioni, ad es. il Corano, per trovare un accordo ecumenico considerando anche queste tradizioni come rivelazioni di Dio. Vi potrebbero rientrare anche altri scritti delle religioni orientali. Si può lavorare in questo senso? Oppure il monopolio della rivelazione sta dentro la religione cristiana?
La seconda domanda è la seguente: sembra che passati cento, centotrenta anni dopo Cristo si siano chiuse le cateratte della rivelazione e Dio non fa più rivelazione, la sua parola è finita, l'ultima parola è stata Gesù Cristo, punto e basta. Vorrei sapere quale è il rapporto tra la rivelazione di cui ha parlato e la necessità che Dio si riveli a me, a noi, al nostro tempo, che la storia sia ancora il punto dove Dio si manifesta, che sia ancora leggibile.


Per quanto riguarda il primo problema non conosco bene le religioni dell'estremo oriente e pertanto non posso dire molto. Mi limito alle tre religioni monoteiste che poi sono le più vicine a noi: l'ebraismo, il cristianesimo e l'Islam.
Queste tre religioni, a mio avviso, sono un'unica religione. Sono le religioni dell'ascolto, del dialogo tra Dio e l'uomo, sono le religioni della rivelazione nella storia. Certo, ci sono tra di loro delle differenze, ma sono marginali mentre le diversità tra queste tre forme della stessa religione e le religioni dell'estremo oriente sono profonde. Se ci limitiamo alle prime tre, esse sono tre forme dell'unica religione rivelativa attraverso la storia ed attraverso la parola. Per i cristiani c'è Gesù come punto qualificante, per gli Ebrei Mosè, il mediatore, e per i musulmani c'è Maometto come profeta. Abbiamo tre profeti di un unico processo rivelativo, tant'è vero che anche le tradizioni sono uguali, quelle di Abramo, di Mosè, ed in qualche modo anche quella di Gesù.
Ci divide dai musulmani non tanto la religione, che è la stessa nei suoi fondamenti: religione ancorata alla rivelazione divina nella storia e alla rivelazione escatologica (anche i musulmani aspettano la rivelazione ultima), il Dio creatore, giudice. I simboli religiosi di base sono gli stessi, quello che ci divide sul piano culturale è la lettura del libro perché il mondo mussulmano, a differenza del nostro occidentale, non ha conosciuto l'illuminismo. Ho sentito dire da un professore di islamistica della Sorbona di Parigi che la grande tragedia nel rapporto con i musulmani è che noi abbiamo conosciuto l'illuminismo e loro no. I musulmani fanno un salto dal 500 al 1900, la loro lettura del Corano è fondamentalista. Trent'anni fa si fece un tentativo nell'università islamica del Cairo di applicare i metodi critico-storici al Corano, ma il tentativo fu bloccato. C'è una grande difficoltà psicologica e culturale nell'avvicinamento reciproco. Con il mondo ebraico invece non ci sono difficoltà di questo genere.

Circa la seconda domanda, il fatto che sia chiusa la storia della rivelazione vuol dire che quella rivelazione di Dio ha raggiunto un suo punto di arrivo in Mosè, in Gesù, in Maometto, essa ha una sua completezza. Nella tradizione cristiana, ma anche in quella ebraica, conosco meno quella musulmana, l'elemento che ci aiuta a leggere la storia è lo Spirito, lo Spirito di Cristo per i cristiani e lo Spirito di Dio per gli ebrei. Le chiavi di lettura sono date, noi non siamo tagliati fuori dalla lettura della nostra storia. Cristo ha donato il suo Spirito, così come JHWH dona il suo Spirito in modo che si possa leggere la nostra storia. I credenti possono interpretare la storia presente come storia della presenza di Dio che non cessa di essere presente.
Un conto è la storia della rivelazione ed un conto è la storia della presenza di Dio. Dio è presente nel mondo dall'inizio fino alla fine e la sua presenza è di tipo salvifico, almeno come è stato scoperto dai filoni biblici. Però la rivelazione storica ha un suo tempo, diversamente da quella del mondo che continua e da quella escatologica che verrà alla fine. Dio è leggibile anche oggi attraverso gli occhi dello Spirito di Cristo, che è un punto di arrivo di questa storia di rivelazione secondo la tradizione cristiana.


6. Quale rapporto legava i profeti come gruppo, come categoria agli altri detentori del potere, quelli del tempio, i sacerdoti e quelli della monarchia, i re?

I profeti sono sempre stati una voce molto libera e controcorrente, per cui sono entrati quasi sempre in forti contrasti con la classe sacerdotale, che aveva sì a che fare con la parola di Dio, ma una parola che custodivano e tramandavano senza novità. La voce del profeta era invece assolutamente nuova, collegata alle grandi tradizioni dell'esodo, ma innovativa.
Nella tradizione israelitica i profeti non erano però dei visionari, dei preveggenti, la loro preoccupazione fondamentale non era il futuro, ma il presente: leggere la storia come storia del castigo di Dio e del Suo perdono. Naturalmente i profeti rappresentavano un elemento nuovo e dirompente anche contro le incrostazioni della tradizione che quando si fissava non era più espressiva del cammino della storia.
La loro presenza era molto avversata sia dalla classe sacerdotale che da quella politica, ossia dai re. Il re nella società israelitica non aveva il potere legislativo, a differenza di tutti gli altri re, perché l'unica legge era la parola di Dio espressa da Mosè. I profeti, che erano gli araldi di tale parola esigente di Dio nella storia, mettevano sotto processo anche il re. Il re reagiva e nel conflitto i profeti naturalmente ci rimettevano perché erano disarmati. Questo spiega perché Geremia ancora giovane, chiamato a fare il profeta, non voleva farlo e diceva:
«Tu, o Dio, mi ha sedotto ed io mi sono lasciato sedurre». A differenza di Paolo, molto più energico, Geremia si è sempre lamentato, anche perché non aveva alcuna prospettiva sull'aldilà, dice: «Io ho desiderato che il ventre di mia madre fosse anche la mia tomba».


7. Vorrei sapere il peso e la differenza della figura femminile nelle tre religioni: ebraica, cristiana e musulmana. Mi sembra che nella religione cattolica la presenza femminile incarnata in Maria sia abbastanza forte.

La figura di Maria ha avuto un grosso sviluppo successivo nel tempo post-biblico, nella Bibbia cristiana molto meno. In tutto Paolo, ad es., non viene mai citato il nome di Maria.
Nella tradizione ebraica ed in quella cristiana, nel periodo che ci interessa, dobbiamo dire che al di là della cultura maschilista del tempo ci sono state presenze femminili di grande rilievo. Nella tradizione israelitica Debora, Giaele anche le mogli dei patriarchi hanno avuto un certo rilievo, si veda pure Miriam la sorella di Mosè, profetessa che ha dato filo da torcere a suo fratello. C'è quindi stata una certa presenza, anche se minoritaria.
Nella tradizione protocristiana, Gesù ha avuto attorno un gruppo di discepoli molto vicino, i dodici, un altro gruppo di discepoli un po’ più largo e poi la società giudaica del tempo, tre cerchi. Nel cerchio di mezzo, tra i discepoli c'erano diverse donne che lo seguivano come i dodici. C'erano anche alcune donne ricche che mantenevano il gruppo: Gesù si era dato alla missione, non lavorava e quindi doveva essere sostenuto materialmente. Il vangelo di Luca dice che le donne seguivano Gesù nel senso del discepolato. Quindi Gesù ha avuto i dodici discepoli e un gruppo un po’ più vasto di discepoli tra cui tante discepole.

Ma le discepole facevano le perpetue.

No. Ad es. Paolo nel cap. 16 della lettera ai Romani fa l'elenco di diverse donne con nome e cognome dicendo che hanno lavorato duramente nell'attività missionaria. Le tradizioni che abbiamo sono testimonianza di una presenza attiva femminile molto più vasta che non nei secoli successivi. Paolo parla di una coppia di apostoli, marito e moglie, che erano diventati apostoli prima di lui.


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