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2. Gian Luigi Prato 25.01.1996

Bibbia > 4° Itinerario biblico: La sfida di Giobbe e le domande di oggi a Dio (1996)



trascrizione integrale

Giobbe: il libro, la sua struttura e le sue ermeneutiche
alla luce delle letterature parallele dell'Antico Oriente



SOMMARIO

II testo del libro di Giobbe, per la sua natura filologica, è aperto alla polisemia (cfr. la prima relazione
Giobbe: enigma esistenziale ed enigma filologico).
Si può però cercare un senso unitario del libro
, nella sua composizione finale?

I. La composizione del libro di Giobbe
- Prologo (in prosa: 1-2)
- Triplice dialogo di Giobbe con ciascuno dei tre cosiddetti “amici” (1° 3-11; 2° 12-20;- 3° 11-27 oppure, se Giobbe risponde ogni volta ai tre amici, dopo il suo lamento [3]: 1° 4--14; 2° 15-21; 3° 22-27)
- Intermezzo (28)
- Giobbe (29-31)
- Eliu (4 discorsi: 32-37)
- Teofania (38-40,2)
- Giobbe (40,3-5)
- Teofania (40,6-41,26)
- Giobbe (42,1-6)
- Epilogo (in prosa: 42,7-17).

II. I paralleli nelle letterature orientali: i testi “alla Giobbe”
1) Solo per la cornice in prosa (prologo ed epilogo): Romanzo di Ahiqar e altri racconti "a lieto fine” (nell'AT cfr. la storia di Giuseppe [Gen 37-50], Tobia, Ester).

2) Per tutto il libro:
- a) Egitto:
Dialogo del disperato con la propria anima; Lamento del contadino loquace, (o l'oasita eloquente).
- b) Mesopotamia:
Giobbe sumerico (o L'uomo e il suo dio); Ludlul bei nemeqi: teodicea babilonese (o Dialogo sulla miseria umana, o Qohelet babilonese); Dialogo pessimistico (o dialogo del padrone con il suo schiavo); AO 4462; altri (tra cui la Preghiera di Nabonedo, nella sua versione qumranica).

I paralleli accentuano la situazione di sofferenza e prospettano soluzioni finali: in genere sono “deterministici”.
Fino a che punto possono aiutare a capire il libro di Giobbe.

III. Tentativi di lettura unitaria del libro
1) Dramma (o tragedia).
2) Processo giudiziario (citazione delle parti - dibattito - sentenza)
3) Lamento (esaudito?)

IV. Pluralità di sensi
La soluzione più plausibile sembra essere quella che vede nel libro una molteplicità di soluzioni che però il libro stesso, almeno dal lato redazionale, coordina in una narrazione (la cornice del prologo e dell'epilogo) la quale riafferma la necessità di un ordine stabile e reintegrato. Come spiegare questa situazione letteraria?

V - La “sapienza” dell'Antico Oriente e dell'antico Israele
La molteplicità di sensi corrisponde ad una logica sapienziale che traspare da diverse testimonianze del mondo orientale antico, a livello mitologico e in composizioni letterarie a sfondo esistenziale (per esempio Gilgamesh. Adapa). Per l'AT si veda Qohelet.
Questa logica si ritrova anche oggi in una tradizione religiosa che può considerarsi Ja migliore
esegesi moderna del libro di Giobbe, benché inconscia; un ottimo esempio è la lettera di un ebreo morto nel ghetto di Varsavia nel 1943 (che riunisce in sintesi una rigorosa ortodossia confessionale, una radicale contestazione del comportamento di Dio e un profondo senso della dignità umana che trascende ogni postulato religioso).




Spero che l'incontro precedente non vi abbia lasciato molto delusi per il fatto che il libro di Giobbe si presta a molte interpretazioni dal lato filologico, non solo perché tecnicamente la filologia propone soluzioni diverse, accettabili secondo le regole stesse intrinseche alla filologia, ma anche perché il libro di Giobbe per sua natura, essendo un libro per così dire eccezionale per certi versi e paradossale per altri, ammette più sensi.
Le regole che valgono normalmente in filologia si applicano difficilmente in questo caso, perché si rischia di banalizzare un testo che invece conserva in sé una densità di significati. È una situazione quasi disperata dal lato filologico.
Tuttavia abbiamo visto che proprio in ragione di questa polisemia del testo, siamo autorizzati in qualche modo a ricercare un significato globale del testo stesso sulla base delle possibilità filologiche elevate a teoria, con il risultato di potenziare una certa antropologia o, come è stata definita la volta scorsa, una antropodicea, ossia una difesa dell'uomo di fronte ad un Dio costruito ad immagine dell'uomo e poi purificato e distanziato proprio per averlo inizialmente costruito ad immagine dell'uomo stesso.
Questi erano i risultati provvisori a cui eravamo giunti sulla base delle constatazioni filologiche sul testo.

Questa sera prendiamo in considerazione il libro nel suo complesso, nella sua struttura, e vediamo, analogamente a quanto si è fatto la volta scorsa, se è possibile ricavare da questo complesso letterario un senso o più sensi, e quali.
Il libro, in altri termini, ha una soluzione oppure ha più soluzioni?
E se ha più soluzioni, perché ha più soluzioni, e di che genere di soluzioni si tratta?
Questo è l'intento del discorso di questa sera.



I. La composizione del libro di Giobbe

Si tratta di esaminare quali blocchi confluiscono nel complesso globale redazionale.
Vi è innanzitutto un
Prologo in prosa.
II Prologo ha una struttura binaria. Ci sono due scene, nel Cap. 1 e nel Cap. 2, in cui è descritto l'incontro tra Dio e Satana, dove quest'ultimo è ovviamente l'oppositore, l'essere intermedio che vuole mettere alla prova Giobbe. Dio acconsente ed allora Giobbe viene messo alla prova. Ma in due maniere diverse: nel Cap. 1 si parla delle disgrazie capitate ai suoi animali, al suo
entourage e ai suoi familiari; nel Cap. 2 si parla invece delle piaghe che lo affliggono, e questo è un particolare che è rimasto nella memoria della tradizione di Giobbe, il quale viene spesso rappresentato colpito da mali fisici.

Dopo i primi due capitoli segue un complesso di
discorsi fino al Cap. 27 o 28, che non si sa bene come organizzare. Essi si presentano con un andamento sinusoidale, che racchiude una serie di botte e risposte. Sembra che il contenuto progredisca, ma in realtà si torna sempre sugli stessi argomenti, fino alla fine.
Oltre a Giobbe entrano in scena tre protagonisti, che sono presentati già alla fine del Cap. 2 (vv. 11-13), i cosiddetti tre amici di Giobbe.

Ma come si svolge il dialogo? Qui sta la difficoltà.
Nel Cap. 3 infatti sembra non si abbia propriamente un elemento del dialogo, in quanto Giobbe parla di se stesso e del giorno della sua nascita. Si suole definire questo capitolo come la maledizione del giorno della nascita. È una designazione non del tutto esatta perché la maledizione è qualcosa che intende punire ed escludere ciò a cui si rivolge, ma in realtà Giobbe considera a questo modo il giorno in cui è nato; egli vuole semplicemente ritornare nello stato di non esistenza, forse per ricominciare da capo.

Questa tematica in realtà non ha molto a che fare con gli argomenti del dialogo che si svolge con gli amici, ed è per questo che non si sa bene come collocare gli interventi successivi.
Bisogna insomma decidere se il Cap. 3 è l'inizio del dialogo da parte di Giobbe, al quale poi rispondono gli amici, oppure se resta fuori del dibattito, che inizierebbe allora al Cap. 4.

Secondo la
prima ipotesi, ossia che il dialogo comincia con Giobbe, abbiamo questa struttura:
il lamento di Giobbe (Cap. 3) inizia la prima serie di dialoghi che va fino al Cap. 11, e ad esso si contrappone il primo amico Elifaz (Cap. 4 e 5) che propone la tematica della fiducia in Dio; la sofferenza è punizione di una colpa.
Dopo le parole di Elifaz, interviene Giobbe una seconda volta (Cap. 6 e 7), il quale parla della miseria dell'uomo e rifiuta, a quanto sembra, la spiegazione di Elifaz. A quanto sembra, perché i dialoghi non sono interrelati fra loro.
Entra in scena allora Bildad, il secondo amico (Cap. 8), che parla della giustizia di Dio, e poi di nuovo Giobbe (Cap. 9 e 10), che parla anch'egli della giustizia di Dio e del suo diritto.
Infine il terzo amico, Zofàr (Cap. 11), afferma che Giobbe deve stare attento quando parla dei problemi di Dio e riafferma il principio della retribuzione.
Questo è il primo ciclo di dialoghi, sempre nell'ipotesi che inizi Giobbe a parlare (Cap. 3).

Il secondo ciclo (Cap.12-20) è formato dai discorsi di Giobbe/Elifaz, Giobbe/Bildad, Giobbe/Zofar.
Giobbe (Cap. 12, 13 e 14) esalta l'onnipotenza di Dio.
Elifaz (Cap. 15) afferma che Giobbe si condanna da sé, per quello che dice.
Interviene nuovamente Giobbe (Cap. 16 e 17), parlando dell'ingiustizia umana e della giustizia di Dio e concludendo con l'appello al difensore.
Quest'ultima è una tematica molto interessante, con il suo appello ad un essere intermedio, quasi un avvocato, un difensore che nello stesso tempo è anche accusatore dell'altro.
Non esiste, non solo nel diritto dell'antico Israele, ma in tutta la Bibbia, una persona che abbia un ruolo solo, mentre un'altra ne avrebbe uno contrario: una persona, nell'ambito processuale, ha sempre un duplice ruolo, di accusatore e difensore.
In questo caso il difensore di Giobbe è anche l'accusatore degli amici, ma potrebbe anche essere viceversa; il ruolo di Satana è inteso anche in questi termini.
Proseguendo, Bildad (Cap. 18) ribadisce il suo assunto, ossia che il dolore deriva dal peccato, mentre Giobbe (Cap.19) interviene con il lamento e la rivendicazione, e Sofar (Cap. 20) con l'asserzione di una giustizia rigida, anche se può essere differita in quanto Dio è giusto giudice, e, anche se non punisce subito, punirà certamente in futuro.
Finisce qui il secondo ciclo dei discorsi.

Il terzo ciclo è strutturato con Giobbe (Cap. 21) che, come negli altri cicli, inizia a parlare trattando dell'esperienza che smentisce il principio: il malvagio è felice.
Quindi interviene Elifaz (Cap. 22), il primo amico che parla di castigo e giustizia nel senso che la giustizia esige il castigo.
Giobbe riprende di nuovo (Cap. 23 e 24). Secondo il testo canonico, ossia in pratica come si trova nella Bibbia ebraica, si ha un discorso di Giobbe (Cap. 23 e 24) che parla del trionfo del male e segue un discorso molto breve del secondo amico, Bildad (Cap. 25, composto di solo sei versi), che tratta dell'onnipotenza divina.
Quindi (Cap. 26 e 27) parla nuovamente Giobbe esaltando anch'egli l'onnipotenza divina.
Qui finirebbe il terzo ciclo di discorsi, però non avremmo la sequenza Giobbe/amico, Giobbe/amico, Giobbe/amico, poiché il testo finisce con un lungo discorso di Giobbe.
I commentatori già da tempo si sono accorti che la struttura non è omogenea, poiché in questo terzo ciclo non c'è la simmetria degli altri discorsi precedenti.
Si sono fatti perciò tentativi di ripristinare la medesima sequenza anche in questo ultimo ciclo; Giobbe (Cap. 21), Elifaz (Cap. 22), Giobbe (Cap. 23 e 24, meno un'ultima parte del Cap. 24), Bildad (Cap. 25 ed una parte del Cap. 26 presa dall'ultimo discorso, attribuito a Giobbe), Giobbe (parte del restante Cap. 26 e Cap. 27, 1-12), Sofar (per il quale si costruisce un discorso artificioso che comprende i brani 27, 13-23 e 24, 18-24, che nel testo canonico sono messi in bocca a Giobbe).

Tutto ciò è interessante dal punto di vista della storia dell'esegesi. Vuol dire che non solo per esigenza di metodo, ossia per ricostruire tre cicli eguali e simmetrici, ma anche dal punto di vista del contenuto non si è riscontrata alcuna difficoltà a mettere in bocca agli “amici” di Giobbe quello che dice Giobbe stesso.
Ma allora Giobbe, se è inteso come contestatore di Dio, in realtà non contesta radicalmente Dio se le sue parole possono essere messe in bocca proprio ai difensori di Dio, come sono ritenuti essere i suoi amici.

Nella
seconda ipotesi, quella che considera a sé il Cap. 3, visto come un lamento staccato dal dialogo, i cicli dei discorsi si strutturano diversamente: cominciano cioè a parlare gli amici ed a ciascuno di essi Giobbe da una risposta.
Anche se, come prima accennato, il contenuto non è pensato come risposta a quello che viene prima, tuttavia la sequenza del testo farebbe pensare che Giobbe stesso, anche se continua a difendere la propria tesi, in qualche modo risponde agli amici.
Mentre nella prima ipotesi Giobbe si lamenta e gli amici vanno quasi per la loro strada, nella seconda ipotesi il significato del dialogo sarebbe un po' diverso, nel senso che Giobbe interviene sempre per difendersi.

Dopo il grande blocco dei tre cicli di discorsi, si ha il Cap. 28 che rappresenta un
intermezzo, una lode della Sapienza, introvabile in questo mondo; Dio solo la conosce e l'ha posta in atto con la creazione. Il testo non dice chi pronuncia questo intermezzo.
Se lo leggiamo in sequenza con il Cap. 27 lo dovremmo attribuire a Giobbe. In tal caso sarebbe un inno alla Sapienza, che Giobbe esprime con un tono ben diverso rispetto ai capitoli precedenti; sarebbe liberatorio e quindi significativo per l'interpretazione globale di tutto il libro.

Dal Cap. 29 al 31abbiamo un monologo di
Giobbe che si lamenta comparando i giorni antichi a quelli attuali. Si tratta di un lamento continuo, monocorde, che esprime la nostalgia di un passato felice rispetto al presente pieno di disgrazie.

Finalmente interviene
Eliu, un quarto amico, con quattro discorsi (dal Cap. 32 al Cap. 37), creando anche qui quasi un intermezzo prima dell'intervento finale di Dio nella teofania.
Questi quattro discorsi dicono che Dio castiga giustamente, che Dio non può essere accusato di ingiustizia, che Dio non è indifferente, che Dio è creatore.
Globalmente essi esaltano il valore della sofferenza purificatrice, quindi in qualche modo intervengono nella problematica di Giobbe ma nello stesso tempo, soprattutto con il Cap. 37, preparano la teofania di Dio che si ha subito dopo.

Anche in quest'ultima parte, la
teofania, il testo presenta qualche difficoltà.
Nei Cap. 38 e 39 ed nei primi due versi del Cap. 40, Dio interviene facendo un elenco delle meraviglie del creato e chiedendo a Giobbe se è capace di fare altrettanto. Giobbe viene rimproverato in quanto pretende di essere quasi più potente del creatore, con una serie di immagini che compongono un inno alla creazione. Tali parole ed immagini rappresentano la risposta di Dio a Giobbe.

Si arriva così al secondo verso del Cap. 40. I versi successivi, da 3 a 5, sembrano rappresentare un intervento di
Giobbe, che si riconosce limitato e tace.

Ma la
teofania va ancora avanti subito dopo, da 40,6 fino a tutto il Cap. 41; in quest'ultimo brano Dio continua il suo discorso esaltando due figure enigmatiche di animali, Behemot e Leviatan, esseri possenti ma non giudicati negativamente, i quali fanno parte del bestiario fantastico dell'antichità, ed esprimono anch'essi in sintesi le meraviglie del creato.

Nei primi sei versi del Cap. 42,
Giobbe con un secondo intervento si ricrede dopo aver visto: il suo “pentimento” consiste nel tacere.

Finalmente nell'
Epilogo in prosa (42,7-17), che riprende la tematica del Prologo, Giobbe è riabilitato e gli, amici vengono condannati.
Giobbe ritorna esattamente come era prima, tutto quello che c'è stato nel frattempo sembra quasi una parentesi.

Se ci chiediamo allora quale Giobbe intenda presentare in ultima analisi il libro omonimo, dobbiamo riconoscere che si tratta del Giobbe felice e reintegrato.
È vero che il libro si presta a molte soluzioni, però di fatto il Giobbe finale è quello benestante, l'uomo più ricco dell'Oriente. Come hanno posto in evidenza alcuni studi recenti, anche i lettori sono ben contenti che il libro di Giobbe vada a finire così. Vi è una gratificazione inconscia nella lettura di Giobbe, che fa quasi da contrappeso a tutta la tragicità del Giobbe parentetico, del dramma interno.



II. I paralleli nelle letterature orientali: i testi “alla Giobbe”

Cerchiamo ora di vedere se l'ambiente delle culture delle civiltà orientali, più o meno contemporanee, ci presentano una letteratura simile e se questo sguardo ci può orientare in qualche modo per cercare una soluzione del dramma di Giobbe.
Il panorama è molto vasto, bisogna operare una cernita. Tutti i manuali d'altra parte presentano i testi delle letterature orientali più o meno affini al libro di Giobbe, ma per procedere con ordine è forse opportuno distinguere i paralleli del Prologo e dell'Epilogo, cioè della storia a lieto fine, da quelli che riecheggino il dramma di Giobbe.

1) Paralleli della sola cornice in prosa (Prologo e Epilogo):
Romanzo di
Ahiqar e altri racconti “a lieto fine” (nell'AT cfr. la storia di Giuseppe [Gen 37-50], Tobia, Ester).

Se prendiamo solo il Prologo e l'Epilogo, si tratta di un romanzo a lieto fine e nulla più. Giobbe è felice all'inizio ed è felice alla fine; l'ultimo verso del libro dice proprio che Giobbe visse felice e contento, “carico di giorni” quando morì.
Abbiamo parecchie favole a lieto fine in tutte le letterature ed anche in quelle vicine a Giobbe nell'AT, quali la storia di Giuseppe nella Genesi, la vicenda narrata nel libro di Tobia e in quello di Ester, che sono “romanzi” di epoca post-esilica; anche il personaggio di Daniele si presenta in questa luce, un personaggio perseguitato ma alla fine rivendicato.

Nelle letterature al di fuori della Bibbia particolarmente importante in proposito è il romanzo di
Ahiqar.
Questo personaggio era talmente famoso nell'antico oriente che è diventato il protagonista di vari testi, trasmessi in varie versioni antiche.
L'originale probabilmente è in accadico, ma è stato tradotto in arabo, in siriaco ed in aramaico.
Il testo migliore è quello aramaico, trovato ad Elefantina, l'isola di fronte ad Assuan, in cui sono stati trovati molti papiri aramaici del V e IV secolo a.C.. Nella versione aramaica del romanzo, Ahiqar è un ministro di due re assiri, Sennacherib e Assarhaddon, è senza figli e perciò ha adottato il nipote Nadin a cui trasmette i suoi insegnamenti sapienziali. A questo punto abbiamo una lunga inserzione di detti e proverbi attribuiti appunto ad Ahiqar. Il nipote Nadin viene designato successore di Ahiqar alla corte dei re Assiri; tuttavia, entrato in servizio, tradisce la fiducia riposta in lui, e pertanto Ahiqar mette in guardia il re. Nadin accusa allora lo zio presso il re, che ne decreta l'esecuzione capitale, ma il boia, incaricato dell'esecuzione, era stato graziato un tempo da Ahiqar e perciò lo risparmia, uccidendo al suo posto uno schiavo ribelle. Viene il giorno in cui il re rimpiange il suo vecchio ministro, per cui Ahiqar, sopravvissuto nella clandestinità, rientra nelle sue grazie e Nadin viene messo a morte.
In conclusione abbiamo la riabilitazione di colui che era stato ingiustamente accusato e messo a morte e la condanna dell'ingiusto, dell'accusatore, del traditore.
Ahiqar, d'altra parte, nell'AT viene presentato come nipote di Tobia stesso (Tobia 1,21s; 2,10; 11,19; 14,10; Giuditta 14,10); ciò significa che persino la Bibbia recepisce questa vicenda del personaggio, e in fondo la approva.
Ahiqar diventa così il simbolo dell'uomo pio, rispetto a cui il nipote diventa il nemico.

Vi sono insomma, in questa vicenda, tutte le caratteristiche del romanzo a lieto fine. Essa costituisce quindi un interessante parallelo del Prologo e dell'Epilogo, ma va detto anche che tutte le favole presentano questo aspetto, evidenziato dalla loro struttura.


2) Paralleli per tutto il libro.
I testi dell'Egitto e della Mesopotamia che si potrebbero citare sono abbastanza numerosi. Conviene elencarne solo alcuni.

a) Egitto
Due testi mi sembrano particolarmente pertinenti fra i tanti. Il primo è intitolato
Il dialogo del disperato con la propria anima. In esso si esprime una profonda disperazione, un desiderio di morte, anche per il sottofondo sociale e politico da cui proviene il testo (siamo nel I periodo intermedio, verso il 2000 a.C.).
L'anima, consiglia a questo disperato di rimanere in vita, perché l'aldilà è ancora peggiore. Alla fine sembra vincere l'anima con il suo senso della vita reintegrata.

Questa soluzione è simile a quella che si ritrova in un altro testo, il
Canto dell'arpista, che è un lamento per la situazione dell'uomo ed esprime una qualche speranza di sopravvivenza in questa vita, cioè di restaurazione.

Il secondo testo è intitolato
L'oasita eloquente oppure II lamento del contadino loquace.
Esso presenta anche una cornice in prosa, esattamente come nel libro di Giobbe, ed in essa si narra di un contadino che si reca ad Eracleopoli per vendere la propria merce e viene derubato dei suoi asini. Alla fine ottiene giustizia rivolgendosi al faraone di quell'epoca, Kheti III, della X dinastia (I° periodo intermedio), che lo ascolta tramite un sovraintendente: Rensi.
La parte centrale è costituita di diversi dialoghi, in cui il contadino esprime il proprio lamento in nove suppliche, con un grande dispiegamento di arte oratoria, che quasi sembra assumere una funzione catartica.
Alla fine, la reintegrazione dell'oasita è completa: gli vengono restituiti i beni rubatigli, e in più gli vengono assegnati i beni del suo ladro. Anche qui, è evidente il lieto fine e la restaurazione.
Questi sono i due testi egiziani più significativi.


b) Mesopotamia
La Mesopotamia ci offre testi più numerosi. Iniziamo dal
Giobbe sumerico (o L'uomo ed il suo Dio).
Il protagonista qui si lamenta per la propria sofferenza, che si esprime soprattutto in termini di rapporti sociali sconvolti. Subentrano altre persone che gli fanno rilevare come nessuno può essere retto in questo mondo. Il protagonista afferma: «Mi parlano i giovanotti ben pensanti con parole sincere e rette: Mai potè una madre dar vita ad un figlio che fosse (sempre) senza peccato, chi non si sforza non ci riesce, né da antico ci fu mai un maestro d'arte che non errasse» (linee 101-103).
L'uomo sembra riconoscere i propri peccati: «Mio Dio, il mio peccato mi sta davanti, e l'ho riconosciuto; alla porta dell'assemblea confesserò quelli dimenticati (?) e quelli che sono tuttora menzionati. lo, il giovane, ti loderò umilmente (confessando) il mio peccato davanti a te» (linee 111-113). Questo è quasi un
Miserere. Alla fine l'uomo viene esaudito: «Quell'individuo, il suo lamento amaro, il suo pianto, il suo Dio udì; quel giovane, il suo lamento, i suoi ahi! avevano placato il cuore del suo Dio. Per quel giovane voltò la sua afflizione in gioia» (linee 118-119. 127). Per il testo cfr. G.R. Castellino, Testi sumerici e accadici, UTET, Torino 1977, pp. 473-477.
Il testo in sostanza è un canto di lode e di ringraziamento di un individuo che ha sofferto ed è stato esaudito. È importante però il fatto che in qualche modo l'esaudimento avvenga in seguito al riconoscimento del proprio peccato, o su un piano generico o su un piano individuale.
Si vuole salvare un principio generale, per cui se vi è sofferenza, questa deve avere una causa. Il testo si ferma qui.

Un'altra composizione viene indicata con le parole con cui inizia in accadico,
Ludlul bel nemegi, ossia Voglio lodare il Signore della sapienza.
Come indica già questa espressione, si tratta di una lode rivolta al Dio babilonese Marduk ricordando la pena, soprattutto sociale, che il protagonista ha sofferto.
È un testo scritto su quattro tavolette cuneiformi: la prima racchiude la lode di ringraziamento, la seconda contiene il rimprovero agli dei per non aver tenuto conto della religiosità del protagonista. Lo stato in cui quest'ultimo si trova, in quanto abbandonato dagli dei, viene a sua volta descritto in termini molto vivi, anzi il protagonista dice chiaramente che i maghi per lui sono impotenti, ed egli è lasciato nella sua sofferenza.
La terza tavoletta descrive un triplice sogno in cui l'autore vede un giovane che compie su di lui dei riti purificatori; gli viene poi rivelato che Marduk lo libererà. Ed effettivamente con l'intervento di un incantatore, il dio Marduk lo libera dai mali. È interessante questo intervento di tipo magico nei confronti di una colpa e di una sofferenza; è il tipo di esaudimento che l'autore e il suo ambiente ritengono più efficaci.
La quarta tavoletta descrive la guarigione del sofferente e un banchetto in onore di Marduk; con dei riti che vengono compiuti nel tempio Esagita di Babilonia si compie la reintegrazione definitiva.
Qui si tratta in realtà di salvare il sistema: Dio deve intervenire in maniera magica, così come è magico l'appello rivolto al Dio. Tutto ciò non significa però che sia di natura magica la sofferenza del protagonista; essa è il rivestimento che ne facilita la soluzione.

Il terzo testo dell'ambiente mesopotamico è la
Teodicea babilonese (o II dialogo sulla miseria umana o anche Qohelet babilonese in quanto si avvicina al testo biblico di Qohelet).
Si tratta di 27 strofe di 11 versi ognuna, composte di 5 distici e un verso libero, in posizione diversa nelle singole strofe.
Un uomo confida ad un amico di essere rimasto orfano da giovane; l'amico risponde che morire è sorte comune, ma gli dei proteggono il pio. Il protagonista lo richiama ai fatti, ma l'amico lo incoraggia ad attenersi ai principi della giustizia. L'altro dice che gli dei sono indifferenti, l'amico ribadisce che invece essi puniscono. Il dialogo prosegue con il protagonista che insiste sulla disperazione e sul fatto che l'esperienza gli dà ragione, mentre l'amico difende gli dei garanti della giustizia e sostiene che la natura umana è corrotta. L'uomo replica alla fine di non essere convinto della ragione dell'amico.
Fin qui abbiamo dunque un procedimento che è assai vicino a quello dei dialoghi del libro di Giobbe. Ma l'ultimo verso sconvolge tutto, perché dà ragione al Dio Shamash, il dio del Sole, cioè il Dio della giustizia.
Quindi proprio quando sembra che il testo vada nella direziono del dramma di Giobbe, l'ultimo verso capovolge il tutto perché esalta il Dio della giustizia, dando così ragione all'amico. Sembra cioè che il testo voglia difendere gli dei dall'accusa di ingiustizia.
Si noti anche la forma dialogica, attraverso la quale l'amico difende la teoria, ma è rispettoso della sofferenza dell'altro.
Alla fine non sembra emergere una chiara soluzione poiché sembra prevalere il desiderio di difendere il dio della giustizia. Rimane dunque problematico il rapporto tra il dio della giustizia e il dialogo interno.

Un altro testo interessante è il
Dialogo pessimistico (o Dialogo del padrone con il suo schiavo).
L'interesse di questo testo sta nel fatto che è strutturato in forma di dialogo in cui il padrone prospetta al suo schiavo alcune realtà e chiede cosa l'altro ne pensi. Lo schiavo risponde dando immediatamente ragione al padrone. Subito dopo il padrone prospetta il contrario e lo schiavo risponde dando ugualmente ragione al padrone. E così si va avanti dibattendo vari argomenti con i loro contrari, mentre lo schiavo è sempre consenziente.
Ma non per opportunismo: la questione è molto più profonda. Infatti alla fine il padrone propone di voler uccidere sia se stesso che lo schiavo e chiede ancora una volta a quest'ultimo che cosa ne pensi. Questa volta lo schiavo risponde non in modo servile, come in precedenza, chiede chi possa andare così in alto da esplorare il cielo e la terra. Il padrone aggiunge allora di voler uccidere prima lo schiavo e poi se stesso. Lo schiavo risponde che il padrone non sopravviverebbe tre giorni alla sua morte.
Qualcuno ha ritenuto che questo testo fosse una farsa una satira. In realtà esso sembra molto pessimistico, addirittura cinico. Cerca cioè di comporre due logiche contrarie e non ne viene a capo. Infatti lo schiavo non è così stolto da accettare l'ultima soluzione che il padrone gli propone, ma in qualche modo dà una soluzione che sembra addirittura simile a quella dell'evento finale della teofania in Giobbe; si tratta non di una risposta diretta, ma di un appello alla vastità dell'universo. La logica va ristrutturata all'interno di questo sistema indefinito e forse indefinibile.

Vi sono anche altri testi mesopotamici più frammentari in cui ritorna la tematica della sofferenza ingiusta, con un intervento finale in qualche modo risolutivo.
Il testo AO 4462 (così indicato con la sigla del Museo del Louvre dove è conservato) è frammentario, ma vi si può leggere un lamento che non si sa se è messo in bocca al protagonista o all'amico. Di fatto vi sono due persone in dialogo, ma il contenuto non ci permette di individuarle, e alla fine comunque interviene una sanatoria, quindi una soluzione a direzione unica.

Celebre è rimasta la
Preghiera di Nabonedo, che ci è testimoniata anche in un testo di Qumran.
Nabonedo era l'ultimo re della dinastia neo-babilonese, successore non immediato di Nabucodonosor. Siccome aveva introdotto nella città di Babilonia il culto del dio lunare di Harran, è stato condannato come un apostata.
La tradizione giudaica si è impadronita di questa figura e ne ha fatto un re che si pente, si isola nel deserto dell'Arabia, conosce il Dio unico e si converte al giudaismo. Le sue sofferenze vengono quindi esaudite. In questo senso il testo viene citato anche come parallelo di Giobbe.

In sostanza, la letteratura mesopotamica presenta una soluzione di tipo deterministico, poiché si preoccupa di giungere in qualche modo ad una soluzione.
Fino a che punto allora questi testi ci aiutano a capire il libro di Giobbe?
Dobbiamo chiederci se essi sono a direzione unica perché restano condizionati da un postulato intrinseco della problematica che trattano, oppure perché effettivamente sono disperati e non sanno andare oltre, e quindi la soluzione a senso unico sembra essere l'ultima sponda a cui aggrapparsi.
Sono testi che pongono certo dei problemi e ci aiutano in tal senso ad affrontare nuovamente il libro di Giobbe, per vedere se possiamo imporgli una soluzione analoga oppure no.
Certo, il libro come tale presenta una soluzione a lieto fine, come abbiamo visto, ma resta sempre aperta la questione del come essa si relazioni al dramma del personaggio Giobbe, presentato nella parte interna del libro.



III. Tentativi di lettura unitaria del libro

Prima di affrontare la questione della pluralità di sensi del libro di Giobbe, è opportuno accennare ad alcuni tentativi esegetici che hanno voluto vedere il libro in una luce unitaria.
Abbiamo percorso il testo globale del libro secondo i blocchi che ne caratterizzano la composizione. Varie parti del libro potrebbero restare autonome, quasi con tematiche particolari a sé stanti.
Abbiamo anche visto che la letteratura parallela è molto simile, però presenta sempre una sua propria soluzione. È, per così dire, autosufficiente in se stessa.
Ci può essere allora una visuale unitaria del libro di Giobbe dal punto di vista del genere letterario? Se ricordiamo la struttura del libro, ciò potrebbe anche essere possibile.
Sono state tentate infatti diverse soluzioni in questo senso. Ne vogliamo presentare tre.

1) Dramma e/o tragedia
C'è chi ha visto in Giobbe un dramma, o una tragedia. Si comincia con lo sconvolgimento di una determinata situazione, segue lo sviluppo in forma di dramma o di tragedia, e si ha infine la reintegrazione.
Non sta a noi però risolvere se il libro di Giobbe è dramma o tragedia, ma dobbiamo prendere in considerazione il fatto che da questo punto di vista dramma e tragedia vengono in fondo ad identificarsi. La tragedia ha bisogno del dramma per poter giungere alla sua conclusione, non può sussistere come tale, come ci rivela la storia della tragedia greca, persino nella interpretazione che vi ha dato Nietzsche. Una tragedia ha sempre bisogno di una sua logica, per cui può diventare dramma, pur nella sua estrema negatività; essa tutto sommato accarezza la logica umana, e proprio per questo presenta le caratteristiche del dramma.
In questa prospettiva, il libro di Giobbe può essere dramma o tragedia alla stessa maniera.


2) Processo giudiziario
Vi è poi chi ha visto in Giobbe un processo giudiziario. Effettivamente la storia di Giobbe si presta ad essere interpretata così. Abbiamo infatti la convocazione dei protagonisti con la scena del prologo: il presunto colpevole e gli altri che lo accusano e che tentano di convincerlo ad arrivare ad una conciliazione prima della sentenza, anche se non vi riescono, perché Giobbe ritorna sempre sulle proprie posizioni. Segue un ultimo tentativo, quello di Eliu, che va a vuoto come quelli precedenti, e perciò alla fine interviene Dio che pronuncia la sentenza.
Questa soluzione giudiziaria è stata proposta ormai alcuni decenni fa, quando gli studi dell'AT hanno accentuato molto alcune sue strutture alla luce della struttura processuale dell'antico Israele.
È una soluzione che non è del tutto fuori luogo, perché di fatto nel libro di Giobbe vi sono almeno gli elementi di un procedimento giudiziario. Resta problematico però vedere se il libro come tale coordina veramente tali elementi in un genere letterario di tipo giuridico.


3) Lamento
Un'altra soluzione proposta è quella del lamento. Questa sembra più facile, perché accosta maggiormente il libro di Giobbe alla letteratura orientale.
Ma è risolutiva? Fino a che punto? Abbiamo visto che i testi orientali presentano una soluzione più lineare, mentre il libro di Giobbe non è così univoco, poiché le sue parti lasciano intravedere soluzioni differenti e più complesse.



IV. Pluralità dei sensi

Dobbiamo allora prendere atto che il libro presenta una pluralità di sensi, ma in che senso?
Il libro, almeno dal lato redazionale, lascia intravedere più sensi. Ogni blocco del libro, ogni dialogo o anche ogni parte del dialogo è un tema a sé ed è giustificabile in se stesso. Però la redazione finale, qualunque fosse stato l'originario procedimento di composizione, ha ritenuto opportuno combinare (o ridurre) i vari sensi nell'ambito del Prologo e dell'Epilogo.
Non possiamo non prendere atto che il libro come tale si presenta cosi.

Ma perché tutto ciò?
Poiché il libro di Giobbe lascia intravedere una molteplicità di sensi, dobbiamo chiederci come mai dal lato redazionale si è ritenuto che questa molteplicità fosse intollerabile e si è voluto racchiudere il tutto in un insieme che avesse senso.
Il lieto fine dopo la vicenda del dramma iniziale dà un senso al libro, e in fondo noi siamo contenti di ritrovare questo senso, quasi dopo aver sperimentato un senso di smarrimento.
Nell'incontro precedente avevamo parlato di un effetto
boomerang, e potremmo dire ora che di fronte al libro di Giobbe quanto più il senso è sconvolto tanto più si avverte la necessità di recuperarlo in termini di “perbenismo”. Sembra appunto che dal lato redazionale sia avvenuto tale recupero.

Ma come mai la pluralità dei sensi (indipendentemente da quali siano in concreto) fu ritenuta intollerabile e si è sentito il bisogno di un senso coordinatore che riportasse il tutto ad un principio di ordine?
Forse dobbiamo partire proprio di qui perché anche noi abbiamo bisogno di ritornare a questo ordine, pur sapendo che esso non c'è mai stato e non ci sarà mai.
Ecco perché il libro di Giobbe ci fa piacere, perché è una totalità il cui sottofondo resta inalterato; in altri termini, abbiamo le spalle sempre coperte.



V. La “sapienza” dell'antico Oriente e dell'antico Israele

Tuttavia la soluzione redazionale, anche se rassicurante, non elimina il problema.
A noi non fa piacere una molteplicità dei sensi, almeno entro una certa logica, ma il libro di Giobbe, al di là della sua redazione, presenta una sua logica di tipo sapienziale che è quella propria degli antichi, anche se non si rispecchia in quei testi che abbiamo passato in rassegna.
Il mondo orientale antico infatti ci presenta dal lato sapienziale ed esistenziale una molteplicità di sensi della vita che permettono all'uomo di parlare e di tacere rendendo compossibili anche soluzioni che per noi si escluderebbero tra loro.
Per capire qualcosa di quel mondo bisogna però entrarvi dentro, leggere e rileggere la sua letteratura. Alcuni aspetti del suo modo di vedere la realtà non si possono neppure capire teoricamente, se per capire intendiamo un processo lineare e coerente, fondato su alternative assolute.

Prendiamo ad esempio la famosa epopea di Gilgamesh, dove troviamo la ricerca di una soluzione logica dell'esistenza, cioè la ricerca di un perché dopo la morte.
Gilgamesh ricerca quella che noi chiameremo l'immortalità, ma che in realtà è la vita sempre giovane: va alla ricerca di una vita che non invecchi mai, una vita perenne, piena. Sappiamo quale è il suo dramma. Raggiunge l'erba che gliela garantirebbe, ma un serpente gliela porta via e a lui non rimane che piangere. Colui che è riuscito ad ottenere questa vita perenne gli consiglia anzi di tornarsene a casa, di vivere tranquillo nel suo ambiente e nella sua famiglia perché lì è la vera logica della vita.
La sua ricerca si rivolge all'immortalità ma di fatto termina alla vita che non dà l'immortalità, ed è felice di ciò. Per questo ci riesce difficile capire la sua vicenda, perché noi siamo abituati all'altra soluzione, perché la nostra tradizione culturale e religiosa ci ha abituato a quella. In realtà, a Gilgamesh viene consigliato di mettere insieme le due cose ed egli le accetta come vera soluzione della vita.

Anche il mito di Adapa, forse meno conosciuto, ripresenta una problematica analoga.
Adapa, il protagonista del mito, per avere spezzato le ali del vento del Sud viene convocato in cielo per un processo. Il suo dio personale, Ea, il dio della sapienza, lo avverte di stare attento perché quando arriverà al cospetto del Dio del cielo, Anu, gli si metteranno davanti pane ed acqua, ossia pane di morte ed acqua di morte, che egli dovrà rifiutare, per non morire. Arrivato in cielo Adapa si vede invece porre davanti pane di vita ed acqua di vita, ma poiché il suo dio gli aveva consigliato di non prenderli, li rifiuta e perciò il dio Anu, ridendo, lo rimanda in terra concedendogli però sapienza perenne. Adapa diventa allora uno dei sette sapienti dell'antichità ma non ottiene la vita. All'inizio il racconto riassume la vicenda in questi termini:
«A lui sapienza (il dio) concesse, una vita durevole non gli concesse». Quindi sapienza sì, vita no: questa è la logica della sapienza.

Non credo sia necessario insistere ulteriormente su questa logica sapienziale antica, presente anche nel libro di Giobbe.
Vorrei solo concludere facendo notare che essa non è del tutto scomparsa ai nostri giorni, e che sorprendentemente la si può ritrovare ancora in alcune espressioni della tradizione religiosa ebraica.
Vi è un testo che potrebbe essere considerato un vero e proprio commento al libro di Giobbe, anche se non in senso tecnico. È solo un esempio, ma è senz'altro in grado di illustrare adeguatamente il tipo di logica di cui sto parlando. In esso infatti l'aspetto più ortodosso di una dottrina e di una tradizione religiosa, si unisce alla loro contestazione radicale, e questa antitesi sembra trovare una sua collocazione in un profondo senso della dignità umana. Anzi, quest'ultimo aspetto è quello che redime tutti gli altri, e dimostra bene tra l'altro quella antropodicea con cui abbiamo concluso l'incontro della volta scorsa.

Si tratta della famosa
lettera di un ebreo morto nel ghetto di Varsavia nel 1943. È la lettera di un suicida che però esalta il suo Dio e che pur contestandogli quello che sta avvenendo sotto i suoi occhi, lo accetta con una straordinaria dignità. Egli trova la forza di lodare Dio non per evadere dalla realtà, ma per conseguenza logica.
Ogni singola parola di questo testo meriterebbe una esegesi approfondita, ma si possono comunque rilevare in essa tre elementi fondamentali:

1) L'ortodossia. Il protagonista confessa il suo Dio, il Dio di Israele, il Dio della legge ebraica che è legge di sapienza. Il protagonista confessa, come Giobbe, proprio il Dio della sua confessione religiosa che impone la legge, che per lui è legge di vita.

2) La contestazione che Dio sia la causa di tutto quello che sta accadendo. È qui il problema di Giobbe, nel senso che non si può capire come Dio intervenga così direttamente negli affari umani in modo da tollerare tragedie così grandi, come quella appunto della persecuzione del popolo ebraico.

3) Un senso dell'umano che salva tutto, che non si piega a nessuna delle due precedenti realtà, né di fronte alla ortodossia, né di fronte alle contestazioni.

Ecco il testo:

«Qualche cosa di molto sorprendente accade oggi nel mondo, è questo il tempo in cui l'Onnipotente distoglie il suo volto da coloro che lo supplicano. Dio ha nascosto al mondo la sua faccia. Per questo gli uomini sono abbandonati alle loro più selvagge passioni. In un tempo in cui queste passioni dominano il mondo, è naturale che le prime vittime siano proprio coloro che hanno conservato vivo il senso del divino e del puro. Questo può non essere consolante: ma il destino del nostro popolo è stabilito non da leggi terrene, ma da leggi ultraterrene. Colui che impegna la sua fede in questi avvenimenti deve vedere in essi una parte della grandiosa realizzazione di piani divini, al cui confronto le tragedie umane non hanno alcun significato. Questo non vuol dire tuttavia che un ebreo devoto debba accettare semplicemente il giudizio, quale esso sia, dicendo: “Dio ha ragione, il suo giudizio è giusto”. Dire che noi meritiamo i colpi che riceviamo significa disprezzare noi stessi e non tenere in gran conto il nome di Dio. Stando così le cose, io naturalmente non aspetto un miracolo e non chiedo al mio Dio di avere pietà di me. Egli mi tratti pure con la stessa indifferenza che ha mostrato a milioni di altri membri del suo popolo: io non sono un'eccezione alla regola, e non pretendo ch'egli mi conceda un'attenzione particolare: io non cercherò di salvarmi, non tenterò di fuggire di qui. Preparerò il lavoro bagnando i miei abiti di benzina. Le bottiglie di benzina mi sono care come il vino lo è a chi si ubriaca. Appena avrò versato l'ultima bottiglia sui miei abiti, metterò questa lettera nella bottiglia vuota e la nasconderò fra le pietre. Se qualcuno più tardi la troverà, potrà forse capire i sentimenti di un ebreo, di uno di questi milioni di ebrei che sono morti: un ebreo abbandonato dal Dio a cui credeva tanto intensamente. lo credo al Dio d'Israele, anche se egli ha fatto di tutto per spezzare la mia fede in lui. I miei rapporti con lui non sono più quelli di un servo di fronte al padrone, ma quelli di un discepolo di fronte al maestro. lo credo alle sue leggi, anche se contesto la giustificazione dei suoi atti. lo mi piego davanti alla sua grandezza, ma non bacerò il bastone che mi infligge il castigo. lo lo amo, ma più ancora amo la sua legge. Ed anche se mi fossi ingannato nei suoi confronti, continuerei ad adorare la sua legge. Dio significa religione, ma la sua legge significa saggezza di vita. Tu dici che noi abbiamo peccato. Certamente noi abbiamo peccato. E ammetto anche che noi veniamo puniti per questo. Tuttavia vorrei che tu mi dicessi se c'è un peccato sulla terra che meriti un tale castigo. Ti dico tutto questo, mio Dio, perché credo in te, perché credo in te più che mai, perché so ora che tu sei il mio Dio e non il Dio di coloro i cui atti sono l'orribile frutto della loro empietà militante. lo non posso lodarti per gli atti che tu tolleri, ma ti benedico e ti lodo per la tua maestà che ispira timore. La tua maestà deve essere veramente immensa, perché tutto ciò che accade in questo tempo non ti impressioni. La morte ora non può più aspettare. Devo smettere di scrivere... sopra, i fucili hanno smesso di sparare. Il sole tramonta ed io ti ringrazio, Dio, perché non lo vedrò più sorgere. Muoio sereno, ma non soddisfatto; da uomo abbattuto, ma non disperato; credente, ma non supplicante; amando Dio, anche quando mi ha respinto. Ho adempiuto il suo comando anche quando, per premiare la mia osservanza, egli mi colpiva, lo l'ho amato, lo amavo e lo amo ancora, anche se mi ha abbassato fino a terra, mi ha torturato fino alla morte, mi ha ridotto alla vergogna, alla derisione. Ti amerò sempre, anche se non vuoi. E queste sono le mie ultime parole, mio Dio, di collera: tu non riuscirai a far si ch'io ti rinneghi. Tu hai tentato di tutto per farmi cadere nel dubbio. Ma io muoio come ho vissuto, in una fede incrollabile in te. Lodato sia da tutta l'eternità il Dio dei morti, il Dio della vendetta, il Dio della verità e della fede, che presto mostrerà nuovamente il suo volto al mondo e ne farà tremare le fondamenta con la sua voce onnipotente. Ascolta Israele: l'Eterno è il nostro Dio, l'Eterno è Unico e il Solo».
(Il testo si trova riprodotto in L. Sestieri,
La spiritualità ebraica, Studium, Roma 1987, pp. 293-295).



DIBATTITO


1. Chiedo al relatore quale rapporto c'è tra il testo di Giobbe e la filosofia greca, se il testo è tardo oppure no e se il testo si può datare.

È difficile datare i testi sapienziali dell'AT. Siamo certamente in epoca postesilica, quindi proprio nell'epoca della fioritura del pensiero greco. Ma datare più esattamente il libro è praticamente impossibile. Certamente il libro era finito nel II secolo a.C. Le analisi linguistiche non hanno portato a risultati soddisfacenti, e spostano anche di vari secoli la data di composizione. Ad ogni modo, il libro di Giobbe è un prodotto del postesilio ebraico, ciò significa comunque che si inquadra bene nella tradizione giudaica. Gli studi comparativi rispetto al mondo greco riguardano tutt'al più il libro inteso come dramma o tragedia. È meno chiaro invece un rapporto diretto tra Giobbe e la filosofia greca. Su quest'ultimo punto è stato studiato di più il libro di Qohelet.


2. Sia nella stupenda lettera che lei ci ha letto alla fine sia nel libro di Giobbe, ambedue i protagonisti credono in Dio nonostante vengano rifiutati da Dio. lo ho la sensazione che la fede sia come un innamoramento. Solo un innamorato riesce ad amare lo stesso, nonostante l'amato se ne vada e si rifiuti di rimanere.

È interessante la sua sensazione. La passionalità che si legge nella lettera dell'ebreo suicida è la stessa che si legge in Giobbe. Giobbe in fondo non rinnega mai Dio, anzi si appella sempre a Lui. Questa passionalità, che in termini umani è un elemento del tutto positivo, è il sottofondo delle ideologie, è la molla fondamentale che fa scattare il pensiero. Se l'amore viene astratto dal suo contesto, per essere spiegato in se stesso, perde di senso, ma se è visto nella sua espressione concreta diventa anche giustificazione, pensiero, addirittura sistema religioso.


3. Ho alcune riflessioni da fare, la prima deriva dalla mia esperienza personale che mi ha permesso di conoscere qualche persona appartenente a popoli più primitivi. La forma mentis di queste persone, o meglio la loro mentalità prelogica, non ha la consequenzialità logica della nostra per cui le contraddizioni non sono cosi inaccettabili come per noi.
La seconda riflessione, cui accenno solo, riguarda la giustezza della lettura di vari sensi, ed io collego allora l'esperienza di Giobbe alla Notte Mistica di S. Giovanni della Croce.
La terza riflessione riguarda la lettera dell'ebreo. Il suo contenuto non mi sembra quello di una spiritualità risolta, ma di una spiritualità disperata. Qualche volta sono andata al centro culturale ebraico ed ho trovato i fratelli ebrei in una situazione spirituale disperata. Non è un giudizio verso di loro, ma una sollecitazione verso il resto del mondo che forse li ha lasciati soli e loro si sono perciò isolati. Nella lettera ci si riferisce ancora al Dio della vendetta, non c'è stato nella spiritualità ebraica lo sviluppo verso il perdono e quindi essa resta una spiritualità ostinata e disperata. Questa è una sollecitazione verso il resto del mondo perché comunichi di più con loro.

Quando la lettera parla del Dio della vendetta o del Dio della collera, ripropone in sintesi le caratteristiche del Dio dell'AT. Per il resto, credo che su quanto lei dice sulla spirituale ebraica disperata dovrebbe essere un esponente del mondo ebraico a rispondere. Non dobbiamo però dimenticare che la speranza cristiana trova il suo punto di appoggio in quella ebraica, di cui riflette in gran parte la struttura messianica.
Quanto alla prima osservazione, ossia la
forma mentis delle popolazioni primitive, non si può dire certo che essa debba applicarsi alla civiltà egiziana e a quelle mesopotamiche, che sono molto evolute. Purtroppo il periodo di decadenza di queste civiltà coincise con il periodo in cui è sorta la Bibbia, la quale ha recepito talvolta i loro aspetti peggiori o per lo meno secondari.


4. Hai prima rilevato che c'è una tendenza generalizzata, soprattutto nei testi antichi, ad equilibrare il momento della protesta con quello della risposta tranquillizzante sia di carattere materiale (tornano i beni) sia di carattere sapienziale (il filosofo sa che non può chiedere più di tanto). Nella letteratura moderna degli ultimi secoli si accentua più il carattere della protesta, tant'è vero che l'aggiunta del finale è ritenuta di genere favolistico, solo per dare soddisfazione. Il puntare sulla protesta aspira inconsapevolmente ad una risposta superiore a quella data finora?

II libro di Giobbe si presta a diverse interpretazioni. Quello che forse viene incontro di più alle attese della protesta vista in se stessa, è radicalizzata in modo tale da non far intravedere soluzioni positive, è rappresentata dalla teofania. Dio dà risposte ma anche rifiuta di rispondere, e nel libro in qualche modo la teofania ha carattere conclusivo. Essa però non prende nemmeno in considerazione la tematica, per cui abbiamo l'impressione che da una parte voglia eludere la protesta, ma nello stesso tempo la voglia anche trascendere. In fondo, essa dice: protesta pure finché vuoi, ma dimmi se eri presente quando io ho creato il mondo; prima di protestare, prendi atto della realtà in cui vivi, e finché non sei in grado di fare questo, la tua protesta non è ingiusta in se stessa ma non trova uno sbocco, non sa intravedere qual è il suo contesto preciso. È un dar ragione, ma anche viceversa, ossia negare la ragione, però in maniera evasiva ed elegante. In fondo è l'unica risposta che un Dio possa dare.



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