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2. Gian Luigi Prato 24.11.1994

Bibbia > 3° Corso di cultura biblica: Gesù di Nazareth, ebreo di nascita cristiano di adozione (1994-1995)



trascrizione integrale

Il giudaismo all’epoca di Gesù: orientamenti per una valutazione

1) Gesù e il giudaismo: tra il crociato e il don Chisciotte?


(In appendice una bibliografia ragionata sul contenuto del corso)




SOMMARIO

Sulla presunta contrapposizione tra Gesù spinto da un'ideologia (
il crociato) o da un ideale (il don Chisciotte) e il giudaismo influiscono alcuni presupposti anacronistici tra cui:
1) la dialettica legge-vangelo in prospettiva luterana;
2) la concezione di un Nuovo Testamento che supera l'Antico.

Al di là di una descrizione del giudaismo all'epoca di Gesù è importante capire quali sono le strutture fondamentali del giudaismo stesso prendendo come punto di riferimento il concetto e il valore della “sacra” scrittura quale norma fondante di una tradizione religiosa.

A) La definizione di una sacra scrittura nella tradizione giudaica e in quella neotestamentaria e cristiana: procedimenti diversi, ma ispirati dalla medesima convinzione (la Bibbia va intesa come norma e fondamento della propria fede religiosa).

B) Fondamenti culturali e storico-religiosi di tale convinzione:
1) dal lato culturale si applica qui la concezione della
scrittura come base e sintesi di civiltà a cui si unisce nel periodo di formazione dei primi testi biblici l'influsso dell'idea babilonese delle tavole del destino.
2) in ambiente giudaico questo si attua elevando il proprio passato storico a norma religiosa e proponendolo come modello rivelato.

C) La Torah nata su questi presupposti possiede pertanto alcune caratteristiche che definiscono anche la natura del giudaismo:
1) rispecchia l'ordine universale e fornisce gli elementi necessari per una interpretazione della storia;
2) si presenta come principio normativo, ma non può racchiudere tutto: accanto alla Torah scritta vi è perciò una Torah orale che la interpreta, di qui la concezione che la Scrittura coincide in realtà con la sua interpretazione e in tal senso essa resta aperta;
3) vale non tanto per quello che contiene ma per quello che rappresenta e significa, e ciò spiega perché nel giudaismo antico si possa aver conferito un analogo valore normativo anche ad altri scritti che non sono stati poi accolti nel canone;
4) conferisce il suo valore normativo anche ad altri testi che in realtà nel giudaismo antico possedevano un valore secondario e sono stati poi rivalutati dal cristianesimo (i
Profeti e gli Scritti [Neviim e Ketuvim]);
5) come scrittura è ritenuta sacra perché partecipa della sacralità delle istituzioni che inizialmente la creano e la custodiscono (il tempio e il sacerdozio); solo in un secondo tempo con i rabbini viene divulgata.

D) In quale misura la Torah (o in genere la "sacra Scrittura") riproduce l'esperienza storica dell'antico Israele?
1) L'immagine dell'antico Israele storico e di quello biblico si stanno sempre più rivelando come due realtà diverse per cui bisogna evitare di ricostruire una storia religiosa ideale dell'Israele preesilico corrispondente ai desiderata di una visione moderna.
2) La religione dell'antico Israele storico è in sintonia con quella del suo ambiente storico.
3) La formulazione di una propria identità storiografica confluita negli scritti biblici, determina anche il formarsi di una coscienza etnica che si sviluppa poi soprattutto attraverso il confronto e la dialettica con altre culture o altri ambienti storici.

Conclusioni
1) Capire il giudaismo significa capire in quale senso la sua religione è normativa.
2) II carattere normativo della religione giudaica si mantiene intrinsecamente aperto ad ogni interpretazione.
3) L'eventuale sistema chiuso che può crearsi in determinate circostanze storiche va giudicato non in base al suo contenuto (le leggi singole, con i loro evidenti condizionamenti), ma secondo i valori, mal intesi e applicati, della Torah.



Introduzione

II mio compito in questi due incontri dovrebbe essere questo: delineare il sottofondo del mondo giudaico in cui si è collocato Gesù, ossia l'ebraismo di Gesù.
Ho invece pensato di procedere diversamente. Voglio partire proprio dal semplice fatto che si vuole studiare Gesù ebreo nel sottofondo del suo ambiente. Si tratta cioè di capire come mai noi riteniamo che Gesù è in simbiosi dialettica, quasi in contrapposizione con qualche cosa che potrebbe essere il suo ambiente giudaico o quello che è da lui derivato, la tradizione cristiana. Si pensa appunto che la persona di Gesù sia in qualche modo contrapposta o meglio abbia una sua originalità rispetto al suo ambiente, comunque la si voglia spiegare poi dal lato teologico, dogmatico, umano, divino, etc. Gesù insomma,deve caratterizzarsi per una sua originalità.

Bisogna però tenere presente che vi sono dei fenomeni nella storia che trascendono la persona stessa, vi sono delle strutture che rimangono quasi inalterate nonostante l'operato di un personaggio in un determinato periodo storico.
Per venire al nostro caso concreto, non va dimenticato un fatto singolare: se è vero (e il se va ben sottolineato) che Gesù ha cercato di abolire alcune istituzioni del giudaismo o per lo meno di proclamare una certa libertà di fronte ad esse, queste istituzioni si ritrovano poi tali e quali nella tradizione che è derivata da Gesù.
Parlo per es. di tutta la concezione della sacralità, tipica dell'ebraismo o del giudaismo più antico dalla quale Gesù ha cercato di distaccarsi. Gesù non era sacerdote, anche se si dice che ha fondato il sacerdozio della nuova alleanza; non apparteneva nemmeno alle classi sacerdotali del suo tempo. Ma il sacerdozio istituzionale si è ripresentato nella tradizione cristiana con le stesse caratteristiche del mondo giudaico, con le stesse concezioni del giudaismo. Si tratta di una struttura che è rimasta inalterata al di là della persona di Gesù.

Noi pensiamo sempre ad un Gesù che, armato di una sua ideologia, si pone in una certa maniera di fronte al giudaismo. Quasi vediamo in lui, in questo senso, una specie di crociato. Oppure lo consideriamo un personaggio mosso da un ideale che lo spinge a lottare contro l'assetto istituzionale in cui vive, da questo punto di vista egli sembra quasi un don Chisciotte. Da qui il titolo di questo mio intervento
Gesù tra il crociato e il don Chisciotte, seguito però da un punto interrogativo.
Ma se accettiamo l'immagine di un Gesù che è quasi un crociato o un don Chisciotte, non dobbiamo dimenticare che proprio nel caso di don Chisciotte quest'ultimo si vendica, almeno secondo una interpretazione di questo personaggio che proviene dallo stesso ambiente spagnolo contemporaneo. Mi riferisco al commento del don Chisciotte di Cervantes scritto da Miguel de Unamuno, secondo il quale don Chisciotte è riuscito a dimostrare alla fine della sua vita, quando è
rinsavito, che tutti gli altri erano in realtà dei don Chisciotte, cioè erano vittime di quei pregiudizi che attribuivano a lui.

La stessa cosa capita a noi nei riguardi di Gesù e del giudaismo, in quanto siamo vittime di alcune precomprensioni o pregiudizi su Gesù che cerchiamo di proiettare all'indietro nel giudaismo per capire come Gesù si sia differenziato da questo suo ambiente.
Ma quali sono questi presupposti? Ne cito almeno due, il primo teologico e il secondo letterario.

1) Quando pensiamo alla figura di Gesù proiettata nel suo ambiente, in realtà, volenti o nolenti, siamo un po' influenzati da una certa teologia della grazia di tipo luterano che trae la sua ispirazione da una presunta teologia di Paolo, la quale porrebbe in contrasto tra loro la legge e la libertà, il legalismo vincolante del giudaismo e la libertà portata da Cristo.
È significativo a tale proposito che alcuni decenni fa abbiano avuto molto successo, sul piano della divulgazione biblica, ma anche all'interno degli studi biblici, le opere dell'esegeta tedesco Gerhard von Rad, noto soprattutto per la sua teologia dell'Antico Testamento e per la sua teoria sull'origine e la formazione del Pentateuco.
In realtà la posizione di von Rad vuole essere scientifica e fondarsi su metodi strettamente filologici. A proposito della formazione del Pentateuco, von Rad dice che le due tradizioni, la prima basata sulla storia, gli eventi storici, cioè la rivelazione di Dio nei fatti della storia e la seconda rappresentata dalle leggi del Sinai erano originariamente indipendenti tra loro e poi sono confluite insieme a formare l'attuale testo del Pentateuco.
Dal lato filologico la posizione di von Rad va giudicata in sede propria, ma di fatto essa è stata largamente accettata perché era la retroproiezione sul piano filologico di una concezione tipicamente teologica e gratificante: la legge contrapposta al vangelo e il vangelo che supera la legge. Tutto ciò lo si voleva vedere persino nella formazione storica del testo del Pentateuco. È indicativo il fatto che negli anni dopo il concilio anche nel mondo cattolico la posizione di questo esegeta sia stata accolta con certo entusiasmo.

2) L'altro presupposto, quello letterario, si colloca sulla falsariga del precedente. Noi siamo abituati cioè all'idea che nella tradizione cristiana la sacra Scrittura, quella cristiana appunto, superi quella ebraica, perché il Nuovo Testamento supera l'Antico e lo interpreta secondo i suoi fini e le sue necessità. Ora, anche questa concezione di fatto forma il sottofondo con il quale noi valutiamo l'ebraismo di Gesù e riteniamo che rispetto al suo ambiente ebraico originario egli deve dire qualcosa di diverso e migliore.

Da questi due presupposti vorrei partire per proporre invece una visione delle strutture fondamentali del giudaismo rispetto alle quali la figura di Gesù possa essere meglio inquadrata dal lato storico e anche teologico.
Al di là di una descrizione del giudaismo dell'epoca di Gesù è importante capire quali sono le strutture fondamentali del giudaismo stesso considerando la (sacra) Scrittura come norma fondante di una tradizione religiosa.

Sulla base di quanto abbiamo detto fin qui possiamo chiederci: è possibile che il giudaismo possa creare una figura come quella di Gesù? O meglio, all'interno del giudaismo è possibile una dialettica quale pensiamo si sia realizzata nel caso di Gesù?
È più importante infatti capire in questo modo il rapporto tra Gesù ed il giudaismo piuttosto che astrarre la figura di Gesù dal giudaismo stesso per esaminare poi come vi si contrapponga o come vi aderisca. In quest'ultimo caso infatti Gesù emergerebbe sempre alla luce di una tradizione cristiana che lo interpreta a suo modo, magari tradendo i suoi ideali e comunque sempre con una certa distanza rispetto al proprio ambiente.

Innanzitutto dobbiamo osservare che, per quanto ne sappiamo, Gesù non ha mai varcato i confini geografici della Palestina. Il suo giudaismo, giudicato a grandi linee, è tra i più chiusi, ristretto entro i confini della Galilea e della Giudea mentre il giudaismo in quel tempo interessava molta parte del mondo mediterraneo, almeno quello orientale, e del mondo dell'Antico Oriente (Egitto, Asia Minore, Mesopotamia). Il territorio in cui è vissuto Gesù era piuttosto ristretto ed altrettanto si può dire del suo giudaismo.

Ma al di là di questo dato storico e ambientale, come possiamo procedere oltre per illustrare un giudaismo che sia adatto a capire la posizione di Gesù?
Si può tentare di venire incontro a questa domanda prendendo come punto di riferimento la Sacra Scrittura. Non si può infatti tracciare qui una storia di tutto il giudaismo nella sua evoluzione cronologica, né descrivere tutto il giudaismo così complesso dell'epoca di Gesù. Si possono invece individuare alcune strutture del giudaismo procedendo all'indietro e vedendolo strettamente collegato con la sua Sacra Scrittura che quasi lo rappresenta. Supponiamo cioè che il giudaismo sia caratterizzato da una sua Bibbia e cerchiamo di delinearne alcuni tratti principali partendo dall'epoca più recente che potrebbe essere quella di Gesù.
In questo modo si può forse riuscire a capire non come Gesù si contrapponga al giudaismo, ma piuttosto come il giudaismo attraverso Gesù interpreti se stesso. Non si tratta quindi di vedere se Gesù fosse ebreo oppure no, o fino a che punto egli avesse aderito al giudaismo. Si tratta di vedere invece, all'interno del giudaismo stesso, come siano possibili alcune sue espressioni che rendono comprensibili l'atteggiamento di Gesù. La prospettiva è quindi diversa rispetto a quella astratta che si chiede fino a che punto la religione di Gesù fosse ebrea. Certo, Gesù era ebreo di anagrafe, ma anche il chiedersi fino a che punto egli avesse aderito al giudaismo è in fondo una domanda oziosa.



A - Definizione di una "Sacra Scrittura"

La Bibbia cristiana comprende l'Antico e il Nuovo Testamento. La Bibbia ebraica d'altra parte non coincide con l'Antico Testamento. Quest'ultimo è una invenzione del Nuovo Testamento che lo ha definito in modo tale da poterlo interpretare secondo le proprie esigenze. Gli ebrei chiamano la loro Bibbia Tanak, una parola formata semplicemente dalle iniziali delle tre parti che compongono l'insieme (Torah, Neviim [= Profeti], Ketuvim [= Scritti]).

L'Antico Testamento della Bibbia cristiana e la Bibbia ebraica (o
Tanak) non sono quindi la stessa cosa. Infatti il primo è basato sulla traduzione greca della Bibbia ebraica, di cui la tradizione neotestamentaria si è appropriata, e così pure la tradizione cristiana.
La traduzione greca della Bibbia, la cosiddetta
Settanta, è nata all'interno del giudaismo e in particolare di quello ellenistico di Alessandria, dal III al I sec. a.C., è quindi è un prodotto giudaico. Ma la tradizione neotestamentaria si è appropriata della Bibbia della Settanta e nella stessa lingua ha formulato anche il suo Nuovo Testamento, ha recepito così le Scritture più antiche e ha formato una sua Bibbia, definendo anche quali libri ne facessero parte.

Prima di questa definizione del canone biblico, in seno al giudaismo vi poteva già essere un complesso di scritti ritenuti normativi, ma è difficile definire quali e quanti fossero.
Di fatto la definizione di un canone corre parallela nel mondo giudaico e in quello cristiano, ma a noi qui interessa rilevare il fatto che nel giudaismo esisteva una qualche
Bibbia formata da testi ritenuti normativi. Ciò non significa che tali testi avessero già raggiunto la loro formulazione ultima. Anzi, come nella tradizione cristiana si è creata una nuova serie di testi attraverso cui si è interpretata la Bibbia giudaica (in altri termini, un Nuovo Testamento in relazione ad un Antico Testamento), così nel giudaismo si è cercato di portare gradualmente il testo biblico ad una formulazione adeguata alle esigenze della sua ortodossia.

Di questa storia del testo ebraico abbiamo oggi una documentazione abbastanza ampia. Per esempio, i testi biblici trovati a Qumran in taluni casi contengono affermazioni che poi sono sparite o sono state manipolate nel testo definitivo, quello masoretico, che è frutto del lavoro di trasmissione e di vocalizzazione ad opera dei masoreti (o
tradenti), che vi hanno lavorato dal II al IX-X sec. d.C.

Quando diciamo perciò che la Bibbia ebraica sta alla base della Bibbia greca, in realtà in termini storici e documentari dobbiamo tener presente invece che la Bibbia ebraica è quella più recente mentre quella greca è la più antica. Il testo ebraico masoretico, che riteniamo teoricamente l'originale di quello greco, è venuto dopo mentre il testo greco ci aiuta a ricostruire le fasi anteriori dello stesso testo ebraico ed i documenti di Qumran rappresentano un momento importante che ci aiuta a ricostruire le varie tappe del testo ebraico.
Insomma, il testo che noi riteniamo originale, quello ebraico, in realtà è quello più recente ed è frutto di una tradizione che ha cercato di ricondurlo ad una certa ortodossia, come d'altra parte la Bibbia cristiana è frutto della tradizione neotestamentaria e cristiana che l'ha formulata e adattata alle sue necessità.

Possiamo concludere pertanto che se è vero che la Bibbia fonda la tradizione sia ebraica sia cristiana da un punto di vista teorico, in realtà è vero il contrario: è la tradizione religiosa che crea il suo testo secondo le sue necessità ed in base alla propria ortodossia che va definendo.
Non esiste pertanto una Bibbia neutrale per tutti; esiste invece una Bibbia che teoricamente costituisce il punto di partenza e di riferimento della propria tradizione religiosa, la quale appunto si formula con un processo storico graduale.



B - Fondamenti culturali e storico-religiosi

Facciamo ora un passo indietro, chiedendoci come mai alla base delle due tradizioni si sia avvertita la necessità di creare una Bibbia, comunque questa possa essere intesa e indipendentemente dai libri che essa contiene. Perché il giudaismo ha sentito la necessità di crearsi una Bibbia? Perché è nata una Scrittura con l'intento di essere il fondamento di una tradizione religiosa? Perché, insomma, è nata la Bibbia come testo autorevole a cui bisogna riferirsi per fondare il giudaismo o il cristianesimo che ne è derivato?

Si può dire che alla base di questo desiderio o di questa esigenza di creare un testo come punto di riferimento, almeno intenzionale, vi siano due fattori.
Il primo è di ordine culturale e storico-religioso, mentre il secondo è interno al mondo giudaico, che in questo senso ha solo applicato a se stesso il primo fattore. Quest'ultimo è quello tipico delle cosiddette
religioni del libro definite in tal modo perché si fondano su un libro, una scrittura. Il cristianesimo e l'ebraismo fanno parte di questo genere di religioni.
Ma ora dobbiamo risalire all'origine della formulazione del
libro in seno al mondo ebraico. Si tratta qui di definire non il momento in cui sono stati composti degli scritti che sono venuti poi a far parte della Bibbia, ma il momento in cui l'ebraismo ha avvertito la necessità di dare a se stesso una base scritturistica, ossia di porre a proprio fondamento un testo scritto, indipendentemente dalla sua consistenza qualitativa e quantitativa. In altre parole, dobbiamo chiederci quando e perché, in seno all'ebraismo, è nata non la Bibbia, ma l'idea di una Bibbia.
Oggi si è abbastanza convinti che questo momento storico non possa risalire oltre l'epoca esilica dell'antico Israele, e che bisogna fermarsi anzi all'epoca postesilica. Possiamo quindi circoscrivere questo periodo al VI-V sec. a.C., ma per alcuni bisognerebbe scendere anche in epoche successive.

1) Alla base della creazione di un'idea della Bibbia sta anzitutto la convinzione, molto diffusa presso le varie civiltà antiche, secondo la quale la scrittura è un bene fondamentale della civiltà stessa e dell'uomo. La scrittura per gli antichi non significava semplicemente saper scrivere manualmente, conoscere i segni grafici dell'alfabeto o delle liste dei segni cuneiformi o geroglifici. Non si trattava cioè semplicemente di conoscere uno strumentario tecnico. Saper scrivere significava esercitare l'arte dello scriba, impadronirsi della cultura, e soprattutto del potere che dà la cultura.

Secondo una tradizione conservatasi soprattutto negli scritti apocrifi, prima del diluvio, per timore di dover perdere l'intera cultura, si è messo tutto per iscritto e gli scritti sono stati poi sepolti per essere riesumati dopo la catastrofe. Si sono così potute recuperare tutte le espressioni della civiltà precedente stabilendo una continuità nella cultura dell'umanità che neppure il diluvio è stato in grado di spezzare o di abolire.
Dietro questa tradizione sta appunto l'idea che i beni dell'uomo si concretizzano in una cultura scritta. Quest'ultima, come sappiamo, non conferiva potere solo quando si scriveva con il geroglifico o con i segni cuneiformi ancora rudimentali o primitivi; questo rapporto tra scrittura e potere vale per tutti i tempi, anche quelli moderni, caratterizzati dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione. Mi permetto di rinviare in proposito al bel libro di Henri-Jean Martin,
Storia e potere della scrittura (ed. Laterza, Roma-Bari 1990). La Scrittura (con la S maiuscola) si fonda allora sul valore culturale della scrittura (con la s minuscola).

Va tenuto presente, inoltre, che all'epoca di formazione dell'idea della Bibbia, se la collochiamo più o meno verso il IV-V sec. a.C., la cultura ebraica era fortemente influenzata da quella babilonese. Ora, quest'ultima è caratterizzata, tra l'altro, dalla concezione che tutto ciò che avviene nel mondo procede da un destino fissato dagli dèi. Non è il destino greco con tutta la sua tragicità; la nozione babilonese delle
tavole del destino afferma solo che tutto quanto si verifica nella storia è scritto, e quindi prefissato, su delle tavolette cuneiformi e come tale si realizza. Quindi tutto ciò che si svolge nella storia ha il suo corrispondente nel mondo celeste, è la conseguenza di ciò che è stato stabilito e scritto lassù.

Di questa concezione è permeato il giudaismo di tutte le epoche, ed anche la Bibbia contiene accenni in proposito. Essa si riscontra soprattutto nei testi cosiddetti apocrifi, e in particolare nel
Libro dei Giubilei e in 1 Enoc (o Enoc etiopico).
Facciamo qualche esempio. In
1 Enoc (o Enoc etiopico, in quanto conservato per intero solo nella lingua etiopica) si dice che il vero possessore dei segreti del mondo e della storia è Enoc in quanto privilegiato da Dio; a lui è stato fatto vedere tutto il mondo con un viaggio celeste.
Al cap. 81, Enoc si esprime così:
«Allora egli (= l'angelo che lo porta a vedere tutti i segreti del mondo) mi disse: Enoc, guarda lo scritto delle tavole del cielo, leggi quel che vi è scritto sopra e capisci ciò che vi è scritto in dettaglio. Io guardai perciò le tavole del cielo, lessi tutto quello che vi era scritto e riuscii a capire tutto, lessi quel libro e tutte le azioni degli uomini e di tutti i figli della carne sulla terra per tutte le generazioni del mondo».
Al cap. 103 ritorna un'idea simile:
«E ora io vi giuro, o santi, sulla Sua grande gloria e onore, sul suo Regno onorato e sulla sua Grandezza, io vi giuro, che io conosco questo mistero e l’ho letto sulle tavole del cielo e ho visto la scrittura dei santi e vi ho trovato scritto ed impresso, a loro proposito, che tutto il bello, la gioia e l’onore spetta a loro e che è stato scritto per gli spiriti di coloro che sono morti in giustizia e in gran bene».
Enoc capisce cioè perché i giusti e i malvagi siano tali, cioè uno dei misteri fondamentali della storia umana.

Questa concezione emerge a tratti anche nell'Antico Testamento, come si può vedere per esempio nel Salmo 139:
«Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno» (vv. 15-16).
Così pure si dice nel Salmo 40:
«Allora ho detto: "Ecco io vengo". Sul rotolo del libro di me è scritto che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore» (vv. 8-9).
Notiamo il parallelo tra
il rotolo del libro e la tua legge o la tua Torah: anche qui, si suppone qualcosa di scritto nel cielo.

Per il Nuovo Testamento, basti pensare all'Apocalisse, dove si parla di uno svelamento di ciò che è scritto e sigillato con sette sigilli (cap. 5ss.). Aprendo i sigilli e leggendo ciò che in antecedenza era stato scritto, si svela tutto il destino della storia. Il rotolo dell'Apocalisse non è altro che la tavola dei destini.

La concezione babilonese della tavola dei destini è stata dunque rilevante per la formazione della scrittura in epoca giudaica, perché in fondo non era altro che l’espressione di una concezione più vasta, quella del valore della scrittura come bene di civiltà.
Alla base della Sacra Scrittura vi è dunque il valore umano a culturale della scrittura; ciò non significa profanizzare la Sacra Scrittura, significa anzi riconoscerne il valore come testo fondamentale di civiltà. Gli ebrei, soprattutto in una certa fase della loro storia, erano fieri di mostrare la loro scrittura, quella che noi chiamiamo Sacra Scrittura, come bene della loro civiltà di fronte agli scritti delle altre civiltà; la scrittura, prima di essere un testo sacro, è un bene di civiltà e spiega anche la sacralità del testo che ne deriva.

2) All'interno del mondo ebraico, e in applicazione di questa concezione generale di ordine culturale e storico-religioso, la Bibbia è venuta a rappresentare il patrimonio particolare della propria storia. Si è cercato in tal senso di formulare e proporre una versione della propria storia passata in termini ideali, adatti a qualificare le esperienze del popolo d'Israele.
In qualche modo si è voluto riesumare il proprio passato preesilico e lo si è voluto interpretare come una storia esemplare, da cui trarre insegnamento per il presente e per il futuro. I testi che formano gran parte del Pentateuco o dei libri storici sono dunque una interpretazione della storia, una storiografia con cui si cerca di spiegare per esempio perché l'esilio possa essere inteso come una punizione dovuta all'infedeltà ad una legge divina.
La logica di questa formulazione storiografica potrebbe essere formulata cosi: si è puniti per una trasgressione, ma occorre definire in concreto ciò che si può aver trasgredito. Si formula allora una legge che, posta all'inizio di una propria storia, in qualche modo la qualifica e ne spiega gli esiti positivi e negativi. Ecco perché legge e storia sono due elementi essenziali per capire il passato d'Israele, il quale viene riproposto, nel testo biblico, come esemplare e normativo, in sostanza come Torah.



C - La Torah

Nasce così la storia come legge e nasce così la Torah. La Torah non è altro che la storia idealizzata del proprio passato, interpretata e divenuta normativa. Le leggi esplicite, quelle che si trovano all'interno della Torah, nei cinque libri, in realtà non sono altro che l'esplicitazione di questo valore fondamentale della Torah che è un valore riferito alla storia: se si osserva la legge si mette in atto quella storia, o meglio si rivivono i valori di quella storia.
La Torah presenta quindi alcune caratteristiche fondamentali che vanno tenute presenti per capire quel giudaismo nel quale si inserisce anche la figura di Gesù.

1) La Torah è fondata sull'ordine universale perché recepisce la concezione delle tavole dei destini; quindi attenersi alla Torah significa innanzitutto garantire l'ordine del mondo, per non cadere nel caos. La Torah è l'ordine del mondo.
Ciò viene detto molto bene dalla tradizione giudaica posteriore, nel trattato
Pirqe Avot (Detti dei Padri) con la famosa frase di Simone il Giusto: «Su tre cose si fonda il mondo: la Torah, il servizio (cioè il culto), e la benevolenza (nel senso di carità, soccorso dei poveri, misericordia)» (I,2), e ancora: "Chi si è procurato la parola della Torah, si è procurato la vita del mondo futuro» ( II,8; cfr. anche III,5).

2) La Torah vale per questo suo intento fondamentale, più che per il suo contenuto concreto.
Gli ebrei sapevano benissimo che la maggior parte di ciò che si poteva scrivere non era contenuto nella Torah, che non è quindi sufficiente da sola. Accanto ad essa vi deve essere allora una sua interpretazione: la Torah orale.
La concezione giudaica della Torah orale che sta accanto a quella scritta non significa che si possa far dire allo scritto quello che si vuole; essa deriva invece dal fatto che la stessa Torah nasce come interpretazione di un passato e richiede una continua reinterpretazione, una continua attualizzazione. La trasmissione orale, l'inquadramento in una determinata interpretazione a seconda dei tempi, fa parte essenziale della Torah, la quale quindi vive e sopravvive in quanto interpretata e in quanto adattabile. La Torah nasce con una sua potenzialità interpretativa che la rende valida per tutti i tempi.
Non solo quindi il giudaismo antico, ma tutte le manifestazioni della cultura giudaica sono in qualche modo legate alla Torah. Tutte le filosofie ebraiche, a ben vedere, possono essere una interpretazione della Torah, o per lo meno si riconoscono sempre in essa.

3) Un'altra caratteristica da rilevare per capire la Torà nel suo complesso, e parallelamente anche il giudaismo, è che la Torah vale per quello che rappresenta più che per il suo contenuto concreto.
Ecco perché nel giudaismo antico la Torà non veniva limitata ai cinque libri del Pentateuco, ma si discuteva anche su altri scritti che non sono venuti a far parte del canone ed ai quali veniva però riconosciuta una qualche autorità.
Ad esempio il testo di
1 Enoc, a cui prima abbiamo accennato, veniva considerato in alcuni ambienti giudaici un libro biblico, autorevole come gli altri, e veniva citato pertanto con la stessa autorità. Uno dei testi trovati a Qumram, il cosiddetto Rotolo del Tempio, veniva utilizzato dalla comunità di Qumram, a quanto pare, come se fosse un suo Pentateuco, una sua Bibbia.
Se si risale a questa intenzione originaria della Torah, bisogna concludere che il suo contenuto, pur essendo contingente, rappresenta l'autorità normativa attribuita al testo sacro.

4) L'autorità che noi conferiamo alla Bibbia nel suo complesso, nel giudaismo vale anzitutto per la Torah. Gli altri scritti venuti a far parte della Bibbia, tanto ebraica quanto cristiana, i Profeti e gli Scritti sapienziali, nel giudaismo antico non possedevano pari autorità.
La stessa profezia, in un primo momento, non veniva presa in considerazione perché era espressione dell'insegnamento delle grandi figure dei profeti; essa è stata valorizzata in una certa fase posteriore del giudaismo per la sua funzione apologetica, nella speranza cioè che si realizzassero le profezie pronunciate un tempo dai profeti, in modo che le altre genti si convincessero che il popolo ebraico era davvero sotto la protezione di Dio. In realtà, una rivalutazione delle altre due parti della Bibbia, i
Profeti e gli Scritti sapienziali, si è avuta solo con il cristianesimo. Nella Bibbia ebraica esse stavano piuttosto all'ombra della Torah.

5) Un'ultima caratteristica da rilevare riguarda la sacralità che si è attribuita alla Torah; in questo senso, la Scrittura, che essa rappresenta, è diventata realmente "Sacra Scrittura".
La Scrittura, ossia la Torah, era una prerogativa delle istituzioni sacrali del giudaismo, delle classi sacerdotali che la leggevano, la interpretavano e la custodivano nel Tempio. La Torah, o Scrittura, non era patrimonio comune, era riservata a pochi. Solo in seguito, in epoca rabbinica, la scrittura è stata diffusa anche tra il popolo.

Questa concezione della Scrittura è talmente radicata che si è riaffacciata più volte anche in epoca cristiana: le discussioni che sono nate in varie epoche, medievale, rinascimentale e moderna, sul fatto che la Bibbia potesse essere letta da tutti, ricalcano la problematica antica già viva al momento della nascita della Torah.

Quest'ultima rimaneva chiusa negli ambienti sacerdotali, e partecipava alla sacralità delle istituzioni. Di ciò si ha eco nella narrazione della traduzione greca della stessa Torah.
Nel documento che vuole spiegare l'origine di questa traduzione (la famosa
Lettera di Aristea, riportata anche da Flavio Giuseppe nelle sue Antichità Giudaiche) si dice che è stato un re d'Egitto, Tolomeo II, ad interessarsi alla cultura ebraica e a richiedere che le scritture ebraiche fossero tradotte in greco perché desiderava collocare nella sua biblioteca anche questi scritti o desiderava che essi fossero conosciuti nel mondo alessandrino; quando però questa traduzione è completata dai 70 esperti convocati a questo scopo, provoca strane malattie in chi se ne è servito (Antichità Giudaiche XII, 110-113 = Lettera di Aristea 312-316).
In altri termini, la Sacra Scrittura non può essere data in mano a chiunque; essa è sacra perché appartiene alla sacralità delle istituzioni, entro cui deve rimanere.

Queste caratteristiche della Torah, e altre qui non elencate, rappresentano quasi specularmente le caratteristiche del giudaismo, che ritiene di essere fondato su una norma che proviene da Dio, una norma che è sempre in atto e sempre disponibile ad essere interpretata e attuata.

A questo punto del nostro discorso si può fare ancora un passo indietro, per completare il quadro. Siamo risaliti all'origine della Bibbia scritta, ma quest'ultima fino a che punto riflette la storia dell'antico Israele da cui prende le mosse? Bene o male, la Bibbia contiene la storia dell'antico Israele; quella che abbiamo chiamato storiografia è in realtà una narrazione di ciò che è avvenuto in precedenza, anche se ricostruito e visto in una luce particolare.



D - In quale misura la Torà, la Bibbia (o in genere la Sacra Scrittura) riproduce l'esperienza storica di quanto è avvenuto nell'antico Israele?

A questo proposito, dobbiamo evitare di proiettare all'indietro sull'Israele storico quella che è solo la ricostruzione storiografica presente nella Bibbia. Un conto è la storiografia presente nella Bibbia, mentre altra cosa è la storia concreta dell'antico Israele, che nella prima metà del primo millennio ha vissuto come gli altri popoli suoi contemporanei. La sua religione è caratterizzata dagli stessi fenomeni e dalle stesse divinità, le quali posseggono qualità teofaniche simili a quelle del dio che Israele ritiene proprio.
I due Israele, quello teorico e ideale della Bibbia e quello della storia, sono in realtà molto diversi tra loro, anzi qualcuno oggi contesta persino che si possa ricostruire la religione dell'antico Israele; essa è così varia che si può descrivere tutt’al più nelle sue componenti, ma non si può ridurre ad un'unità sistematica.

Il giudaismo che ha creato la Torah ha fondato con essa anche la propria religione, attuando anche nella fase delle origini quello che abbiamo constatato sopra a proposito della trasmissione del testo: è la tradizione che crea il testo che poi diventa la base della stessa tradizione religiosa.
Tornando alla Torah, dobbiamo dire che le intenzioni con cui essa è nata la accompagnano poi nel corso della sua storia e costituiscono la base della sua interpretazione.



Conclusioni

1) Capire il giudaismo significa capire la sua religione che è a carattere normativo; si tratta di una religione che si fonda su una norma data dall'alto e che intenzionalmente interpreta tutta la storia.
In realtà il giudaismo non è solo una religione, è un fenomeno storico e culturale che investe un determinato popolo. È però singolare che nella nostra concezione comune esso equivalga, se non proprio a un sistema religioso, per lo meno a una tradizione religiosa. Si dimentica in tal modo che gli ebrei erano un popolo che aveva anche una sua religione. Ma poiché la documentazione che ci è rimasta è a carattere religioso, confondiamo insensibilmente la sua storia con la sua storia religiosa. Poiché la sua religione è a carattere normativo, si è portati ad estendere tale normatività anche alla sua storia culturale "profana".
I due fenomeni vanno tenuti però ben distinti: la cultura ebraica non si identifica con la religione ebraica, anche se di fatto si è perpetuata con gli scritti religiosi ebraici. Ecco perché, per sintetizzare con una battuta, la storia di Adamo ed Eva è diventata la storia di tutto il genere umano.

2) Una seconda conclusione riguarda questo medesimo carattere normativo della religione giudaica, che si presenta essenzialmente aperto ad ogni interpretazione.
Non esiste una normatività che si condensa una volta per sempre negli scritti biblici: questi ultimi sono suscettibili di continua interpretazione attualizzante. Quando parliamo di attualizzazione della Bibbia parliamo in realtà non di qualcosa che sta al di fuori della Bibbia, ma di una sua caratteristica tipica ed interna, attiva fin dal sorgere di uno scritto che si possa definire "biblico", nel senso sopra indicato.
Ecco perché anche all'epoca di Gesù tutti in qualche modo disputano sullo stesso giudaismo e, per modo di dire, tutti hanno ragione. Ed ecco anche perché Gesù all'interno del giudaismo prende una sua posizione. Non è né al di fuori né al di là, ma dentro al giudaismo, proprio perché attua i valori della Torah. Egli dice infatti che nemmeno
«un solo iota» sarà tolto (Mt 5,18), ma nello stesso tempo può permettersi di dire tutto quello che dice nei riguardi del contenuto della Torah.

3) Veniamo così alla terza conclusione che intende quasi far fronte a una facile obiezione: perché allora, ci si poteva chiudere talmente da non capire quello che è essenziale e che Gesù sottolineava, come ad esempio la libertà dell'uomo di fronte a regole in apparenza troppo strette?
Il sistema certamente può tendere a chiudersi, ma la chiusura del sistema non dipende dai valori della Torah, bensì dalla sua applicazione e dalle contingenze in cui essa si trova ad operare. Il sistema di per sé può chiudersi in qualunque punto del mondo ed in qualunque epoca della storia. E quando si chiude è chiaro che bisogna riaprirlo. Quanto può dire Gesù, ad esempio, è in realtà il tentativo di contrapporsi ad una chiusura che già di per se stessa va contro gli ideali della Torah.
A questo modo, Gesù è ebreo non tanto per appartenenza etnica, ma perché ripropone un'autentica intenzionalità della Scrittura, e quindi del giudaismo.



DIBATTITO



1. Mi riferisco ad una sua parola adattabile, nel senso della Torah adattabile forse alle circostanze, ai dati contingenti. Mi riallaccio allora al cap. Il del Sutra del Loto dove c'è la parola in sanscrito (antica lingua indiana di cultura, appartenente alla famiglia indoeuropea) upaya ed in giapponese hoben. Tale parola tradotta dal giapponese significa orientamenti da utilizzare cioè come la pioggia che cade ed ogni fiore, come dice proprio il testo, riceve tanto quanto gli serve in senso ottimale. Le chiedo allora se nella parola adattabilità non è riflessa la morale della situazione, come si diceva una volta, che poi è stata condannata? Può spiegare meglio il significate di adattabilità?

Se consideriamo il dato di fondo del giudaismo alla luce di una qualunque teoria etica o non etica, si va a finire proprio nella morale della situazione. Ma adattabilità non significa questo, appunto perché, se consideriamo il contenuto concreto ossia le leggi specifiche della Torah, queste sono più o meno le stesse che troviamo nel mondo orientale parallelo. Vi è quindi una certa contingenza del contenuto che, come qualunque altro contenuto, si spiega con il suo tempo.
Il fatto che la Torah sia adattabile significa che ciò che essa intende esprimere, ossia la normatività che viene dall'alto, ossia una possibilità di capire la storia, viene sempre data con l'esercizio concreto di tutto ciò che l'uomo possiede, non al di là od al di sopra della ragione, ma attuando quello che è il criterio della ragione o del sistema etico. È questo il valore del decalogo o dei comandamenti.


2. Sono un ex-seminarista approdato oggi a posizioni razionalistiche, laiche, dato che la verità assoluta non si può trovare. Per me ex-seminarista e cultore delle religioni trovo del tutto nuova la sua interpretazione della Bibbia, ossia che già negli estensori ci fosse l'idea che la Bibbia andasse interpretata con adattabilità.
La mia domanda è questa: come è documentabile l'adattabilità della Bibbia? Filologicamente sui testi della Bibbia? Dato che la sua è una visione laica, psicologicamente come nasce nell'insieme dei sacerdoti e degli estensori della Bibbia l'attribuzione a Dio di cose che in realtà non erano da attribuirgli, in quanto laicamente Dio non esiste? Come si è creata la mentalità religiosa, come si è invocato un trascendente che in verità non c'è mai stato?

Sintetizzo la sua prima domanda: è documentabile la interpretazione interna alla Bibbia, a livello storico e filologico?
Certo, è documentabile. La Bibbia stessa contiene già versioni diverse di uno stesso periodo storico e, tra l'altro, solo quelle sono venute a far parte della Bibbia. Se prendiamo in mano tutto quello che il mondo giudaico ha prodotto, possiamo constatare che esso aveva una concezione della propria storia molto diversificata, e non coincideva con quella o con quelle riportate nella Bibbia.
Ad esempio, sulle origini del popolo ebraico vi erano versioni molto diverse. Ma per fermarci anche solo alla Bibbia, è tipico il caso dei libri di
Samuele e dei Re, da un lato, e dei libri delle Cronache dall'altro. Essi descrivono la stessa storia in maniera diversa. Si dice di solito che le Cronache interpretano i libri di Samuele e dei Re; ciò è vero fino ad un certo punto perché le interpretazioni o meglio le interferenze sono anche reciproche, almeno a livello di traduzione del testo. Quindi la Bibbia stessa contiene già un pluralismo di interpretazioni al suo interno. E questo è semplicemente un dato di fatto.
La Torah comunque è sempre stata interpretata. Gli scritti del giudaismo, come la
Mishna e il Talmud, sono del resto una raccolta di molteplici interpretazioni di passi della Scrittura. Ma non valgono tanto le singole interpretazioni, bensì il fatto che globalmente si intende valorizzare la Torà e la propria tradizione religiosa. Vi è quindi una pluralità di fatto e di diritto all'interno del mondo giudaico.

Quanto alla seconda domanda, ossia l'attribuzione a Dio di questa stessa interpretazione, si tratta di una interpretazione della storia che fa intervenire la divinità. Questo però non è caratteristico solo degli ebrei; tutti gli antichi hanno fatto intervenire le divinità nel loro mondo e si può dire quasi che la loro storia è la visibilità terrena di quello che avviene nel mondo celeste. In questo senso, la storia dà loro sempre ragione. Ad esempio, gli annali Assiri sono di fatto un’auto giustificazione dell'operato dei re, soprattutto delle loro guerre: gli dèi intervengono in genere a loro favore; se perdono, vuoi dire che gli dèi li hanno puniti.


3. Chi stabiliva i limiti di accettabilità della interpretazione, della attualizzazione della norma biblica? Chi poteva dire che una certa interpretazione era ai limiti della rottura con la tradizione o con il sistema dominante?
La risposta ci sarà poi utile per capire come mai l'interpretazione che dava Gesù è stata rifiutata.

La domanda è interessante. Effettivamente se consideriamo l'interpretazione globale della Bibbia nella tradizione ebraica e in quella cristiana, in questo secondo ambito vi sono determinati principi, vi è una istituzione, un magistero che interpreta la Bibbia; vi è cioè un metro che è stabilito dalla tradizione che recepisce la Bibbia.
Nella tradizione ebraica non si ha l'analogo, per così dire, di un Sant’Uffizio. Il rabbinato è ben altra cosa rispetto a questa istituzione ecclesiastica. Per esempio il
midrash è una tecnica di interpretazione, una ricerca sulla Bibbia, come dice la stessa parola. Si tratta di interpretazione libera, a volte anche fantasiosa, che si attua su basi sapienziali. Si può dire che l'analogo della tradizione patristica ed ecclesiastica dell'interpretazione della Bibbia è rappresentato nel mondo giudaico dal midrash, inteso come attuazione di una visione o una comprensione sapienziale della Bibbia stessa. Si può discutere - ed infatti si è discusso molto più nella tradizione ebraica che in quella cristiana - sul senso delle singole affermazioni del testo biblico, ma in fondo il metro su cui si fonda la verità e l'accettabilità di ogni singola interpretazione è di natura sapienziale.


4. Desidererei sentire parlare del concetto di ispirazione della Bibbia a partire dal fatto che ogni popolo dà una interpretazione della sua storia ed attribuisce a Dio il prodotto della sua storia. O quindi la Bibbia è un libro come tutti gli altri o tutti gli altri libri sono ispirati quanto la Bibbia.

La Bibbia è un libro come tutti gli altri, in quanto nasce dalla concezione comune che ci debba essere un libro alla base di una tradizione religiosa. Questa concezione non è stata inventata dalla tradizione giudaica; altre tradizioni religiose, come sappiamo, hanno un libro alla loro base e ciò si verifica, proprio nelle tre tradizioni religiose che procedono culturalmente e storicamente da uno stesso ceppo: ebraismo, cristianesimo ed islamismo. Vi è alla loro base un fenomeno culturale comune, quello per cui si avverte la necessità di fondare su uno scritto la struttura di fondo del proprio credo religioso.
Quella che noi chiamiamo ispirazione non è altro che la teorizzazione di questa tendenza: quel libro ha valore nella mia tradizione ed io sono l'interprete di quel libro. L'ispirazione infatti è qualcosa che si vede nel libro perché il libro vive nella mia tradizione, non perché è posto al di fuori. La tradizione costituisce il riferimento concreto ed il punto di partenza per interpretare lo scritto. Al di là di questo suo valore di fondo, l'ispirazione tende poi ad esprimersi anche ad un livello materiale, che ovviamente va accolto solo nella misura in cui intende far capire la concezione più profonda su cui si basa.
Questa materializzazione è viva soprattutto nel mondo musulmano, ma vi è un apologo che ne rappresenta un giusto correttivo. Maometto detta il Corano ad uno scrivano e ad un certo punto smette di dettare, pronunciando solo la metà di una parola, che lo scrivano completa di sua iniziativa. Maometto approva quest'aggiunta, ma lo scrivano si scandalizza, perché la metà di quella parola è venuta da lui stesso e non da Maometto. Questo scrivano ovviamente aveva una concezione sbagliata dell’ispirazione perché non apprezzava la scrittura con la "s" minuscola, presumendo di apprezzare solo quella con la "S" maiuscola, come fa osservare molto bene Italo Calvino nel suo libro
Se una notte d'inverno un viaggiatore.

Ma questa è una visione laica!

Ma qual è l'altra visione non laica che dovrei tener presente? Cosa vuol dire visione laica?

Lei esclude l'intervento del trascendente, lei esclude che il trascendente possa comunicare con noi

Ma questo lo ammetto benissimo. Il discorso del trascendente si fa però su un piano filosofico, mentre io qui sto facendo un discorso storico. Vogliamo sapere cosa sia il giudaismo? Il giudaismo non lo prendo dal trascendente, lo prendo dalla storia e poi vedo cosa dice il giudaismo del suo trascendente.

Viene però il momento in cui uno deve decidere se c'è oppure no il trascendente. Questi studi mi aiutano oppure no? Io penso di no perché se uno affronta questi problemi dal punto di vista culturale, il trascendente non lo ammette mai

Ma allora tutti gli uomini colti sono immanenti!


5. La mia perplessità riflette più o meno le interlocuzioni che abbiamo ascoltato. Non mi è chiaro come di fronte a queste affascinanti motivazioni (antropologiche, storiche, psicologiche, culturali) della visione di Dio, si riesce a vedere Dio che dovrebbe essere l'oggetto di questi diversi processi; non mi è chiaro in che modo si possa delimitare o fare il discorso di Dio come soggetto, non come idea o categoria filosofìca, se ha senso ancora parlare, ed io credo di sì, della concezione relazionale con Dio al di là dei processi cui lei ha accennato.

Capisco perfettamente la domanda, però qui dobbiamo intenderci su che cosa vogliamo parlare. Io ho fatto un discorso storico, non ho negato che esista Dio o che Dio possa intervenire, tutt'altro. Capire come è nata la Bibbia dipende dal modo come si studia la storia.
Se dico che la Bibbia è nata in un secolo o nell'altro, non significa che Dio non esiste. Chi mi dice che Dio esiste solo se la Bibbia la colloco in un determinato secolo? Si tratta di due piani diversi, che hanno senso solo nel loro rispettivo ambito. Non si capisce perché quando si parla della Bibbia bisogna finire per parlare dell'esistenza di Dio o meno. Cerchiamo prima di capire la Bibbia e poi vedremo tutto quello che dal punto di vista filosofico ne potrà venir fuori. Non so proprio cosa ho negato questa sera: ho forse negato Dio? Ho forse negato che Dio interviene nella storia? Anzi, credo di averlo confermato perché anche altri popoli, oltre a quello ebraico, ammettono questa presenza divina che guida la storia.

Approfondendo i dati culturali ci si può accostare alla fede oppure no? I dati culturali sono sempre e comunque neutrali? Si può affrontare culturalmente il problema dell'esistenza o meno di Dio trascendente?

La trascendenza di Dio è presupposta dalla fede, la quale richiede sempre il contributo della ragione; quindi quanto più si esercita la ragione, tanto più si può giungere ad approfondire la fede. La teologia non fa altro che approfondire il discorso di fede con la ragione. Non elimina il trascendente, cerca di spiegarlo.


6. Prof. Prato, l'ho ascoltata con attenzione e la rassicuro che non ho perso la fede. Anzi la mia fede ne esce rafforzata. Io la conosco solo superficialmente attraverso la dedica che Beniamino Placido ha fatto al suo ultimo libro. Lei viene descritto come un omino piccolo dotato di una cultura sconfinata. Debbo dire che questa è l'impressione che ho avuto questa sera perché ho la precisa sensazione che dietro le sue frasi, dette con rara naturalezza e dimestichezza, ci sia un bagaglio di nozioni, nel senso alto del termine, veramente sconfinato. Io mi riprometto di fare opera di ruminatio, in questi giorni, delle cose dette da lei questa sera e poiché ci saranno altri incontri ritornerò sugli stessi temi successivamente.
Vorrei uscire un po' dal seminato, ma in fondo non tanto. Lei questa sera ha parlato della funzione ermeneutica, della interpretazione e della posizione assunta da Gesù rispetto alla Torah. L'ermeneutica non nasce quindi con Gadamer, ma molto prima. Qual è il rapporto che Gesù ha con l'ordinamento romano? Con la legge romana? È peregrino sostenere che Gesù abbia tentato una specie di interpretazione, di ermeneutica della legge romana?

Non voglio anticipare questioni che saranno trattate successivamente in questo stesso corso e che riguardano il rapporto tra Gesù e le istituzioni e quindi anche il mondo romano. Tuttavia per rispondere alla sua domanda, dal mio punto di vista, bisogna innanzitutto chiedersi cosa significava per Gesù il mondo romano e che cosa conosceva Gesù del mondo romano. Gesù era un uomo della Palestina e certamente non vedeva di buon occhio i romani. I palestinesi vedevano i Romani come dei dominatori, degli oppressori. Gesù non è vissuto fino alla distruzione del Tempio e all'instaurarsi di un dominio romano più stretto in Palestina, ma ai suoi tempi la Palestina era pur sempre sotto il controllo di Roma. Circa le leggi romane non sappiamo però nemmeno se Gesù le conoscesse.
Andando un po' all'indietro, possiamo dire anche che il mondo giudaico ha considerato quello romano quasi alla stessa maniera con cui il mondo orientale siriano, che includeva anche la Palestina, ha considerato i greci. Questi ultimi sono per noi fautori di cultura, mentre per gli Orientali erano dei dominatori, anzi dei pessimi dominatori; in Oriente si è cercato di assimilare la loro cultura ma facendo in modo che la propria cultura riuscisse superiore.
Sul piano diplomatico e politico gli ebrei, quando si sono creati un piccolo stato in epoca maccabaica, hanno cercato di stabilire almeno idealmente delle relazioni con Roma e addirittura con Sparta, ma in realtà con l'intento di celebrare i propri meriti e il proprio presunto prestigio.
Nel parlare di Gesù e delle sue relazioni con il mondo romano, bisognerebbe quindi vedere, similmente, in che misura un eventuale atteggiamento di Gesù sarebbe per i Romani un elemento che qualifica o meno il giudaismo stesso. I romani, cioè, avrebbero potuto cogliere l'atteggiamento di Gesù entro questi termini.


7. Volevo rincuorarla anch’io. Non credo che esista un modo laico ed un altro religioso di vedere la Bibbia; il modo laico, il modo con il quale lei l'ha presentata, è quello corretto. Il modo religioso è un po' campato tra le nuvole. L'assolutizzare certe cose sta poi alla base di tante guerre di religione e di tante sofferenze. Vorrei sentire molto meno dire "parola di Dio" nella Messa; quando sento certe letture dove Dio si vendica, dico ad alta voce che non è parola di Dio. Perché non si fa qualcosa in modo che il mondo religioso e la gerarchia invece di vivere in un sogno scendano di più nella realtà delle cose e facciano tesoro della interpretazione laica della Bibbia e la smettano di dire che posseggono la verità?

È vero. Non so cosa contrapporre al modo laico di vedere la Bibbia. Laico e non laico o religioso si definiscono tra di loro per eliminazione, per negazione, nel senso che laico è ciò che non è religioso e quest'ultimo è ciò che non è laico.


8. Non sono uno specialista, ma sento il bisogno di puntualizzare due cose: una riguarda la grande possibilità di un discorso di contestualizzazione e l'altro riguarda l'impressione che ho avuto che durante la serata si sia formato l’equivoco circa la parola interpretazione, come se si trattasse di un qualcosa di fortemente intellettualistico ed intellettuale.
Nella mia modestissima cultura ebraica
interpretare significa un qualcosa che ha a che fare con l'esperienza di vita e ciò è l'opposto del mero intellettualismo. Recentemente ho letto il libro di Jonas II concetto di Dio dopo Auschwitz, dove si parla di reinterpretare l'immagine ed il concetto di Dio, dopo l'olocausto. Tale necessità parte non da un esercizio intellettuale ma dall'esperienza tragica come quella dell'olocausto, che pone al popolo ebraico la necessità di ripensare Dio, e questo lo trovo eccezionale, di grande stimolo per tutte le persone.

Sono d'accordo. Anzi le interpretazioni più autentiche della Torà o della Bibbia non sono degli
a priori intellettuali ma sono degli a posteriori tratti dalla storia, dall'esperienza, e derivano dal vissuto.
Vorrei solo aggiungere che questo è dovuto al fatto che la Torah stessa è nata così e deriva dalla storia. È la natura interna della scrittura del mondo giudaico che contiene in sé la necessità di trarre le interpretazioni dal vissuto. Vi è dunque una coerenza tra la nostra constatazione del come si sono realizzate le migliori interpretazioni della Bibbia nella storia e il principio ispiratore che ha fatto nascere la Bibbia.




Appendice - Bibliografia

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Gesù nel giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, Piccola biblioteca teologica 30, Claudiana, Torino 1994.
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Il giudaismo del secondo tempio. Storia e religione. Biblioteca di cultura religiosa 59, Paideia, Brescia 1991.
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Storia del giudaismo nell'antichità. Studi biblici 99, Paideia, Brescia 1992.
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Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica. Studi biblici 106, Paideia, Brescia 1994.
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Storia del secondo tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Società Editrice Internazionale, Torino 1994.
SANDERS, E. P.,
Gesù e il giudaismo, "Dabar" - Studi biblici e giudaistici, Marietti, Genova 1992.
SCHÜRER, E.,
Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù, Biblioteca di storia e storiografìa dei tempi biblici 1.6.13, Paideia, Brescia 1985-1998 (3 voll.).


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