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1. Gian Luigi Prato 11.01.1996

Bibbia > 4° Itinerario biblico: La sfida di Giobbe e le domande di oggi a Dio (1996)



trascrizione integrale


Giobbe: Enigma esistenziale ed enigma filologico



Giobbe, a ragione o a torto, è passato alla nostra tradizione come l'uomo della pazienza, quella stessa pazienza che io chiedo a voi questa sera proprio perché dobbiamo inoltrarci nei meandri della filologia del libro di Giobbe.
Dobbiamo umilmente cominciare da tali meandri per renderci conto di cos'è il libro di Giobbe prima ancora di inoltrarci in tutte le speculazioni che riguardano la vicenda o il personaggio di Giobbe.

Sappiamo inoltre che Giobbe è diventato anche il patrono dei menestrelli, forse per l'interpretazione di un verso del suo libro: «La mia cetra serve per lamenti ed il mio flauto per la voce di chi piange» (30, 31).
La tradizione iconografica, soprattutto quella rinascimentale (le Bibbie miniate), ha rappresentato la figura di Giobbe sofferente, colpito da una malattia della pelle, circondato da menestrelli che egli ricompensa dando loro scaglie della sua pelle, le quali nelle loro mani si trasformano in monete d'oro.
Speriamo che questa rassegna del libro di Giobbe porti ad una analoga conclusione, ad ottenere cioè qualche moneta, anche se non d'oro.

La lettura del libro di Giobbe crea un certo entusiasmo in un primo tempo, ma successivamente insinua dubbi e disperazioni. Si intuisce che il libro è qualcosa di grande, ma non si riesce a verificarlo. Ha ragione S. Girolamo quando nell'introduzione alla traduzione di questo libro dice che esso è come un'anguilla che quanto più si crede di averla stretta tra le mani tanto più sguscia via.

Il libro di Giobbe in effetti sfugge per molti aspetti, proprio a chi pensa di averlo letto e capito.
Se si inizia ad analizzarne le singole parti, sfugge il significato generale; se lo si studia dal lato filologico, ci si imbatte in una serie di difficoltà tecniche; se si inserisce il libro nel suo mondo culturale, i paralleli letterali sono solo parziali e fondamentalmente non pertinenti, come vedremo nel prossimo incontro. È vero che i paralleli culturali rappresentano un contributo notevole per la comprensione del libro, ma non sono del tutto assimilabili alla natura del libro di Giobbe.
Insomma, la lettura di questo libro è causa di disperazione, perfino di nevrosi, e non è un caso che su di esso si siano cimentati psicologi, psicoanalisti e commentatori moderni.
In questo senso, a cominciare da Karl Gustav Jung, si è visto nel libro di Giobbe una sfida a Dio: Dio si lascia tentare da Satana e quindi lascia che subentri il dubbio.

La sfida di Satana anzi, ossia la scommessa con il diavolo, diventerà uno dei temi dominanti della cultura giudaica (anche se in maniera sommessa in un primo tempo) e poi della cultura moderna.
È il mito di Faust, sia quello di Goethe sia quello del Doktor Faustus di Thomas Mann. Tale mito è stato sempre presente nella nostra tradizione culturale occidentale, già in opere letterarie medioevali e rinascimentali, prima che Goethe lo riprendesse e lo riformasse nel modo che sappiamo.
L'influsso del libro di Giobbe sulla cultura moderna è quindi dovuto più a motivi estrinseci, quali quello della sfida tra Dio e Satana, del patto con il diavolo, etc., piuttosto che per l'avventura vera e propria di Giobbe.

C'è da chiedersi allora se ciò sia avvenuto per una corretta esegesi del libro o non piuttosto e più verosimilmente per una nemesi culturale che si è vendicata della impotenza a cui ogni lettura esegetica si è sentita ridotta. Di queste nemesi culturali ne conosciamo parecchie nella storia della nostra tradizione culturale. Si tratta di nemesi spontanee, e in questo caso pare che si voglia così mascherare o giustificare l'impotenza esegetica e filologica nel capire il libro stesso.
Il mito titanico di Faust, inteso su queste basi che ne spiegano la genesi storica, sarebbe quindi confessione implicita di impotenza proprio là dove pretende di scavalcare la mediocrità umana per affermare la genialità dell'eroe intellettuale (reso tale per intervento demoniaco), nel tentativo di sfidare un Dio avvertito troppo superiore e distante, per esempio il Dio irresponsabile e amorale di Jung appunto, che Giobbe richiamerebbe dunque alla sua responsabilità.

Quali letture del libro di Giobbe sono quindi possibili, senza cadere in una aprioristica ed ingiustificata rinunzia?
Il libro di Giobbe d'altra parte è pur sempre un testo, che abbiamo davanti e che possiamo leggere. Questo è già qualcosa di positivo.
È possibile allora fare
tabula rasa intorno a sé e tentare una lettura obiettiva, filologicamente corretta, supposto naturalmente che la filologia offra un senso neutro di un testo, cosa che resta comunque assai problematica?
Attribuendo tuttavia alla filologia il significato tradizionale, possiamo ottenere una lettura del testo non troppo influenzata da fattori di ogni genere, a cominciare da quelli che la stessa tradizione di Giobbe ha creato?

A tale scopo proviamo ad addentrarci in alcune questioni filologiche che riguardano il libro.
Il tentativo di offrire un senso migliore a qualunque testo e soprattutto ad un testo biblico, quando sembrano sorgere difficoltà, deriva dalla composizione di due elementi.
Il primo si riferisce al presupposto che il senso migliore sia quello immediatamente più afferrabile, quasi sulla base del senso comune, anche se una regola classica della critica testuale, afferma che
difficilior potior, cioè “la lettura più difficile è quella da preferire”. Si suppone infatti che la tradizione di un testo tende a semplificare e non a complicare le cose. Di fronte ad una difficoltà materiale del testo bisogna dunque scegliere come migliore quello più difficile.
Ma che cosa significa più difficile? Difficile dal lato grammaticale, sintattico, strutturale, di contenuto, di tradizione culturale etc.?

Il secondo elemento consiste nell'uso di una strumentazione tecnica più adeguata e più informata sul piano linguistico e filologico. Quando cioè noi disponiamo, almeno sul piano della ricerca, in questo caso della linguistica semitica, di elementi più adeguati che ci possono aiutare per capire ad es. la grammatica della lingua ebraica, dovremmo adottarli necessariamente per capire il libro di Giobbe.

Questi due elementi sono dunque fondamentali per una prima lettura di un testo.
Ma funzionano nel caso del libro di Giobbe, o almeno fin dove funzionano?
Vediamo qualche esempio concreto:

Cap. 18, versi 13-14
Uno dei cosiddetti amici di Giobbe, Bildad, sta parlando del malvagio, dicendo che sarà punito.
Il testo ebraico, nella sua traduzione letterale, dice esattamente così: «Divorerà i pezzi della sua pelle, divorerà i suoi pezzi il primogenito della morte. Sarà strappato dalla tenda della sua fiducia ed essa lo condurrà al re dei terrori». La difficoltà sta nell'ultima parte del periodo: chi è “essa” che condurrà lui (il malvagio) al “re dei terrori”? Si tratta di una difficoltà grammaticale.
La versione greca del testo non ci aiuta molto: «Saranno divorati i pezzi dei piedi, divorerà i suoi giovani la morte, sarà strappata dal suo modo di vivere la salute. Lo possegga la necessità per causa regia».
Che cosa voglia dire questo testo, a prima vista è difficile stabilirlo.

Torniamo al testo ebraico.
Nell'ultima frase si ha la difficoltà di un soggetto (non precisato) al femminile, mentre nella frase precedente si parlava di un primogenito della morte, maschile anche in ebraico.
Per risolvere il problema potremmo ricorrere ai testi delle cosiddette lettere di Amarna, che i vari re delle località siro-palestinesi verso il 1400/1300 a.C. hanno inviato al faraone egiziano del tempo, Amenofi IV o Akhenaton. Sono scritte in accadico, ossia in assiro-babilonese, ma con delle glosse in cananaico, lingua abbastanza vicina all'ebraico.
In queste glosse viene usata anche una forma verbale che potrebbe aiutarci a leggere il verbo in questione non come femminile, ma come maschile: «ed egli/esso lo condurrà al re dei terrori».
Se accettiamo questa soluzione, otteniamo una comprensione migliore di tutto il periodo dal punto di vista mitologico. Comprendiamo meglio, cioè, chi è il primogenito della morte e chi è il re dei terrori a cui il primogenito della morte conduce il malvagio. Il re dei terrori sarebbe il dio Mot, il dio della morte, che conosciamo dalla mitologia di Ugarit. Il primogenito della morte sarebbe qualcosa che deriva dalla morte, un suo prodotto; allora il malvagio viene portato da lui al dio della morte stessa che nella mitologia ugaritica è un dio distruttore. Il mondo infatti può essere creato solo quando il dio Mot viene sconfitto dal dio Baal, il Dio che crea.
Il testo di Giobbe acquista così un senso grammaticale e una connotazione mitologica più precisa. In questo caso, dobbiamo ricorrere semplicemente a degli strumenti grammaticali molto semplici, ma il testo si arricchisce notevolmente.


Cap. 13, verso 15
Qui è Giobbe che parla, e siamo di fronte ad una frase per così dire paradossale, per la quale non si sa davvero quale sia il senso migliore.
Il testo ebraico dice così: «Anche se mi uccidesse non confiderei; soltanto la mia condotta davanti a lui difenderei».
Il testo greco in questo caso ci è di qualche utilità: «Anche se mi sottomettesse, il Potente sarebbe soddisfatto, ma io parlerò e mi difenderò davanti a lui».

La tradizione del testo ebraico aveva già percepito la difficoltà e aveva letto la particella
lo'(= “non”) come (= “a lui”, “in lui”), per cui la prima parte del verso dovrebbe essere intesa così: «Anche se (Dio) mi uccidesse, confiderei in lui». In altri termini, Giobbe dice che se anche Dio lo volesse uccidere non perderebbe la fiducia in lui.
Tuttavia qui la filologia comparata ci può venire incontro, soprattutto se si tiene presente che la versione greca ha “il Potente” al posto di “non”. La negazione ebraica
lo'( “non“) potrebbe essere letta le', ossia come forma participiale di una radice verbale che si troverebbe in altre lingue semitiche con il significato di “essere potente”, “prevalere”. Dovremmo allora leggere così: «Anche se il Potente mi uccidesse, confiderei ugualmente in lui». La frase esprimerebbe la fiducia estrema di Giobbe in Dio. Questo sarebbe più sensato, almeno in apparenza.
Tuttavia dobbiamo chiederci se è valido, da un punto di vista tecnico, questo ricorso alla filologia comparata, che del resto non tutti gli studiosi ritengono legittimo. In caso negativo, resta il dilemma di un testo che sembra incomprensibile e che la tradizione ha cercato già in qualche modo di correggere.


Cap. 28, verso 11
II cap. 28 è un inno alla sapienza, un intermezzo dove si celebra la sapienza che però è inaccessibile all'uomo.
Si fa una rassegna dei procedimenti di ricerca usati dall'uomo, espressi soprattutto con la simbologia della ricerca mineraria. L'uomo è capace di ricercare ogni cosa, di penetrare nelle profondità del mondo, ma non può raggiungere la vera sapienza che Dio solo conosce e ha posto in essere con la creazione del mondo.

Al verso 11 il testo ebraico direbbe così (soggetto è l'uomo): «Trattiene i fiumi dal pianto e ciò che è nascosto porta alla luce».
Il greco sembra più chiaro nella prima parte del verso:
«Disvela le profondità dei fiumi, mostra la propria forza nella luce».

L'edizione critica del testo ebraico oggi più in uso (
Biblia Hebraica Stuttgartensia) suggerisce in nota di ricorrere ad un'espressione della lingua ugaritica che verrebbe incontro alla frase un po' oscura del testo ebraico (il trattenere i fiumi dal pianto).
Tale espressione designa l'abitazione del Dio supremo El ed andrebbe tradotta per il testo di Giobbe nel modo seguente:
«Egli esplora le sorgenti dei fiumi e ciò che è nascosto porta alla luce».
Esplorare le sorgenti dei fiumi nell'ambiente ugaritico significa raggiungere l'abitazione del Dio supremo, El, che è descritto come un Dio che risiede non nei cieli ma alla confluenza della due correnti oceaniche, dei due fiumi che si uniscono nelle profondità del cosmo prima ancora del suo nascere, due correnti che avvolgono il mondo e che si uniscono là dove ha origine la vita. In questo modo si direbbe che l'uomo può arrivare fino all'abitazione del Dio supremo ma non è in grado di raggiungere la vera sapienza. Il senso così corre.
Torniamo però al testo di partenza. È possibile che non si possa trovare un senso all'espressione poetica del “trattenere i fiumi dal pianto”, anche se ci sembra un po' paradossale? Sappiamo che la poesia è ermetica e trae il suo valore proprio dai sensi reconditi che lascia intuire.
Nel nostro caso, con il ricorso all'ambiente ugaritico si ottiene in apparenza un senso più immediato dal punto di vista filologico, ma forse più povero dal lato poetico. Quale è qui il senso “migliore” o “più difficile”?


Cap. 29, verso 18
Qui è Giobbe che parla del proprio futuro e della propria fine. Anche qui si tratta di sfumature, ma interessanti per capire il senso completo del libro.
Il testo ebraico si esprime così:
«Dicevo: nel mio nido morirò e come sabbia prolungherò i miei giorni». Vuoi dire forse che i suoi giorni dopo la morte saranno tanti quanti i granelli della sabbia?
Il testo greco afferma un po' diversamente:
«Dicevo: la mia età invecchierà, come ramo di palma vivrò molto tempo». La parola tradotta qui con “palma” corrisponde al greco foinix che può indicare la “palma”, oppure anche la “porpora” e persino la “fenice” (ossia l'araba fenice).

È interessante constatare che nella tradizione giudaica antica questa frase del libro di Giobbe è stata interpretata vedendo nel termine ebraico, che normalmente significa “sabbia”, il significato di “fenice”.
Non è ovviamente un senso giustificato lessicalmente. I vocabolari ebraici più recenti, per il termine ebraico danno il senso di sabbia e poi quello di fenice per questo passo di Giobbe, un senso che viene però dedotto dalla tradizione giudaica, cioè da alcuni testi (non biblici) che parlano appunto di questo uccello, l'araba fenice, simbolo di immortalità.
Se allora possiamo retroproiettare questa interpretazione giudaica sulla lessicografia di Giobbe, cioè dedurre che in ebraico c'è anche un termine ebraico che significa fenice, non attestato altrove ma usato una sola volta proprio qui nel libro di Giobbe, allora il senso della frase acquisterebbe un significato molto più profondo:
«Dicevo, nel mio nido morirò e come la fenice prolungherò i miei giorni».
Il senso è completamente diverso. Infatti, mentre secondo la traduzione solita Giobbe spera di morire, almeno perché terminino i suoi dolori, in questa nuova versione invece spera di non morire, di rinascere dalla proprie ceneri. Con quest'ultimo significato si tratta però di accettare tutte le implicazioni che il mito dell'araba fenice aveva nell'antichità, un mito esteso fino all'India, presente nella tradizione giudaica posteriore, ma forse già attivo e significativo anche all'epoca in cui fu scritto il testo di Giobbe. Anche in questo caso il testo si arricchirebbe.



Cap 1, verso 21
Si tratta di una frase celebre. Giobbe nel
Prologo, dopo tutte le disgrazie che si sono abbattute su di lui, confessa candidamente: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo rientrerò ivi. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore».
Cosa vuoi dire “ivi”?. Giobbe non ritorna certamente nel ventre di sua madre. Si può allora intendere il “ventre di mia madre” come quello della madre terra. Quindi: "nudo sono uscito dal ventre di mia madre (fisica) e nudo tornerò nel seno di mia madre (terra) che è la madre di tutti i viventi".

Il Salmo 139, 13-15 ci illumina su questo significato: «Mi hai tessuto nel seno di mia madre... Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra». Qui si parla proprio della madre terra.
Allusioni alla madre terra compaiono ancora nel libro di Ben Sira o Ecclesiastico (40,1).

Si vede chiaramente che vi è un doppio senso nelle affermazioni di Giobbe: si parla del ventre della madre fisica, ma si allude alla madre terra, dal piano fisico si passa a quello mitologico e simbolico. Vi è qui una chiara polisemia, senza che venga richiesta alcuna modifica di ordine filologico. Si richiede semplicemente di leggere il testo come sta, afferrandone però tutte le allusioni.



Ma da quest'ultimo esempio, e da quelli precedenti, possiamo dedurre che in realtà tutto il testo del libro di Giobbe, nella sua stessa materialità, è polisemico per sua natura. Ogni testo può avere più di un significato, come ci insegna l'arte ermeneutica, ma il libro di Giobbe in modo particolare.
Questo testo funziona quindi a diversi livelli. Possiamo allora trarre alcune conclusioni da questo breve esame filologico del libro:

1) La filologia può certo migliorare un testo oscuro e quando non rischia di non farlo cadere nel prosaico può aprire la strada ad una ambientazione del testo più ricca. Certe volte però può ridurre il testo ad un livello molto prosaico.
È accettabile o meno un senso molto più evidente, ma solo sulla base del buon senso?

2) La filologia però ci introduce anche in un mondo molto più complesso, quello mitologico o quello dell'ambiente culturale e storico in cui è nato il libro, anche se talvolta a questo scopo la filologia può essere superflua oppure può far emergere un senso più profondo dal testo senza modificarlo. Certe volte anzi dobbiamo ricorrere ad una tradizione posteriore, anche se antica, che interpreti il testo. Insomma, la filologia è ambigua, nel senso che ci aiuta ma nello stesso tempo non ci aiuta. È sufficiente per risolvere la nostra disperazione? Fino a che punto è accettabile? E, soprattutto, valgono i principi tradizionali con cui viene applicata?

3) Si può affermare, in ultima analisi, che anche una lettura sporadica del testo indica che il libro di Giobbe non è a senso unico, pur senza entrare nell'avventura titanica del personaggio Giobbe.
La polisemia si trova qui di fronte al dilemma di un testo che, se migliorato in senso “filologico”, rischia di impoverire il suo contenuto paradossale e provocatorio.

Quest'ultima conclusione, dedotta su un piano prettamente empirico, resta però anche confermata sul piano letterario della composizione del libro.
La sua configurazione redazionale non ci lascia capire se l'opera è a senso unico. Il libro è composto di varie parti che non riusciamo ad incastrare bene tra loro, in modo da ricavarne una unità che dia un senso compiuto.
Vi è anzitutto un
Prologo ed un Epilogo; il Prologo comprende i primi due capitoli e l'Epilogo, almeno quello legato al Prologo, il capitolo 42 con i versi da 7 a 16.
Il
Prologo e questa parte dell'Epilogo sono in prosa, mentre il resto è in poesia. Essi parlano di un Giobbe messo alla prova da Dio, attraverso l'intervento di Satana, e poi reintegrato. È in tal senso che si svolge la disputa tra Dio e Satana, di cui Giobbe è solo l'occasione. La disputa infatti si svolge in cielo ed ha poca importanza la presenza di Giobbe o di un altro. Giobbe è solo il punto di riferimento di questo scherzo, la disputa è una specie di finzione ed addirittura si trasforma in finzione letteraria.

Nel
Prologo e nell'Epilogo il principio di retribuzione sembra funzionare alla perfezione, tanto che si potrebbe parlare di una realtà poco seria, in quanto Dio accetta di essere tentato da Satana. Questa prova si svolge per caso sulle spalle di Giobbe, con un lieto fine. Ma di che prova si tratta e fino a che punto riguarda Giobbe? Forse perché Giobbe è un uomo ricco, viene reintegrato nella sua ricchezza. Giobbe essere ricco e siamo tutti soddisfatti che egli torni ad essere tale.

Oltre al
Prologo e all'Epilogo abbiamo i discorsi degli amici in più riprese. Gli amici sono tre e ci vengono presentati tre cicli di discorsi in cui intervengono Giobbe e ciascuno dei tre (anche se vi è qualche problema per questa simmetria).
La tesi generale degli amici è la seguente: se tu, Giobbe, soffri è per qualche motivo, non immediatamente apparente ma che tu devi scoprire, altrimenti la tua sofferenza resterà incomprensibile.
Giobbe contesta questo assioma. Lo scontro è frontale, non c'è modo di conciliare tra loro le due posizioni.

Dal punto di vista letterario vi sono però dei brani all'interno dei tre discorsi il cui contenuto non è chiaramente attribuibile all'una od all'altra parte.
Ad es. il testo di 24, 18-24 che nel testo canonico è in bocca a Giobbe, nelle edizioni in traduzione è messo in bocca ad uno dei tre amici, il terzo: Sofar. È interessante il fatto che uno stesso contenuto possa essere pronunciato da Giobbe o da uno dei suoi amici e che siamo noi a stabilire se debba essere l'uno o l'altro che deve pronunciarlo.
Insomma lo scontro è teoricamente frontale, ma di fatto il lettore vi trova delle incoerenze. Non ricompare forse, ancora una volta e in altra forma, il dilemma filologico?

Il ciclo dei tre discorsi completato con gli interventi di Giobbe ai capitoli 29-31, forma la parte centrale del libro, quella forse che sembra interessarci di più, perché esprime la “contestazione” di Giobbe.
Segue poi l'intermezzo, (capitoli 32-37) in cui interviene un altro amico, Eliu, il quale sviluppa un suo discorso che se non è proprio di conciliazione, si pone almeno su un altro piano rispetto alle affermazioni dei primi tre amici: la sofferenza è purificatrice. Questo discorso di Eliu non è in linea né con i discorsi degli amici né con il testo del
Prologo e dell'Epilogo.

A questo punto, Dio interviene (capitoli 38, 39, 40 e 41) con una teofania che elenca le meraviglie di Dio. Dio non risponde a nessuno, fa solo una rassegna a Giobbe delle opere che egli stesso ha creato, chiedendogli se è capace di fare altrettanto, di fare cose così stupende. Egli non prende neppure in considerazione gli argomenti di Giobbe e degli amici, e neppure la sfida di Satana, con cui era iniziato il libro stesso.
È un intervento certo meraviglioso in se stesso, ma come si integra nel contesto?

Dobbiamo infine accennare al capitolo 28, che già abbiamo citato tra gli esempi filologici, e che è un inno alla sapienza, fondata con il mondo stesso.
Forse questo brano può essere in sintonia con l'intervento finale di Dio, ma esula un po' dal contesto del libro. Infatti nelle edizioni moderne del libro di Giobbe, che presentano il testo strutturato drammaticamente, cioè come un grande dramma in vari atti, il cap. 28 viene sempre indicato come un intermezzo, un interludio. In tal senso esso porta anche un qualche sollievo nell'ambito dei vari discorsi del dialogo, che sono abbastanza pesanti e anche ripetitivi.

Tutte queste parti si riuniscono dunque in quello che viene chiamato il “libro” di Giobbe, con prospettive diverse e senza una soluzione unica e definitiva. Non si può privilegiare l'una a detrimento dell'altra.
Chi ci dice, ad es., che sia migliore la tematica del
Prologo e dell'Epilogo rispetto a quella del ciclo dei tre amici, o rispetto a quella bellissima della teofania finale?
Anche qui la spiegazione più semplice e prosaica consiste nel cercare di capire la composizione dell'opera come frutto di interventi redazionali. Spesso si usa questo metodo nell'esegesi biblica. Quando un testo risulta poco chiaro o ripetitivo, si cerca di vedere come può essere stato composto riunendo assieme vari brani, senza però che il redattore finale li abbia armonizzati o resi coerenti tra loro.
In realtà, questo metodo della critica letteraria, che notoriamente è stato adottato soprattutto nello studio del Pentateuco, per molti aspetti rivela ancora una volta l'impotenza dell'esegeta. Pur riuscendo a spiegare le parti, spesso fino nei minimi dettagli, non riesce a spiegare il tutto, se non come risultato di un processo in realtà poco coerente.

Quindi anche a livello più generale, per la struttura del libro di Giobbe e la sua composizione è difficile trovare un senso unico. Anche qui siamo costretti ad una pluralità dei sensi, se non vogliamo ricorrere alla spiegazione prosaica dei vari pezzi raccolti da un redattore maldestro.



È possibile allora una qualche spiegazione del libro di Giobbe?
Cerchiamo di vedere se è possibile trarre qualche conclusione in questo senso, indicando almeno quale possa essere un orientamento di fondo che permetta di affrontare la tematica o le tematiche del libro, senza cadere in una disperazione rinunciataria.

Il libro di Giobbe innanzitutto sfugge ad ogni ortodossia, ma non nel senso che ne rappresenta il lato che sfugge per la tangente, ossia qualcosa di liberante in quanto si relaziona ad un sottofondo che resterebbe sempre saldo.
Queste ortodossie sono note: è bello essere eterodossi, quando resta ferma l'ortodossia come punto di riferimento, che anzi si vuole mantenere come tale. In tal senso tutti possiamo essere eterodossi.
Il libro di Giobbe non è eterodosso in questo senso, perché non lascia neppure intravedere che cos'è l'ortodossia, il punto base rispetto a cui va oltre, rispetto al quale “trasgredisce” nel vero senso della parola.

In realtà, il libro di Giobbe può essere inteso in senso “laico” o antiteologico.
Sappiamo che la teodicea è la difesa di Dio rispetto ai problemi seri che riguardano l'uomo. Il libro di Giobbe può essere visto invece come la difesa dell'uomo, una “antropodicea”.
In tal senso possono essere significative le frasi che Giobbe pronuncia nei versi 20-22 del cap. 10: «E non son poca cosa i giorni della mia vita? Lasciami, sì che io possa respirare un poco, prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell'ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre».
In sostanza, Giobbe dice: “Allontanati, Dio, perché io possa vivere”.
Qui Dio non è la sorgente della vita, come si dice tradizionalmente, e non è colui a cui è rivolta una espressione di sconforto, per l'oppressione che esercita pesantemente su Giobbe. Si chiede invece a Dio che lasci vivere, non manifestandosi come Dio; si chiede a lui di lasciare che l'uomo sia uomo e che respiri come uomo, non esercitando più nei suoi confronti la sua funzione di Dio.

Noi sappiamo d'altro canto che ogni visione di Dio è sostanzialmente antropomorfa.
Noi costruiamo Dio a immagine e somiglianza, e poi diciamo che Dio ha creato l'uomo a immagine e somiglianza. Dal punto di vista della ricerca di Dio siamo noi che prima costruiamo Dio a nostra immagine.
A questo stadio ne segue un altro in cui sì cerca di ottenere un'idea più pura di Dio, liberata da ogni condizionamento. Prima costruiamo Dio a nostra immagine e poi ci affrettiamo a dire che Dio non è proprio così come lo abbiamo costruito, senza sapere però cosa resta di Dio, anche se la teologia classica ha sempre affermato che la conoscenza più appropriata di Dio è quella che si esprime al negativo.
Proprio quest'ultima concezione di Dio, quella “purificata”, in ultima analisi si rivela intollerabile e l'uomo, rispetto ai legami che egli stesso avverte di fronte a Dio, cerca di liberarsene, affermando per lo meno di non essere responsabile della propria morte e del proprio dolore.
Siamo in un terzo stadio, post-teologico che cerca di liberare l'uomo dal Dio che egli ha costruito e che finisce col pesare troppo su di lui. Da questo punto di vista il libro di Giobbe rappresenta una eterodossia in senso laico; vuole liberare l'uomo dal suo discorso su un Dio che gli risulta intollerante ed opprimente.

Parlando di Dio, questo libro in realtà parla dell'uomo che è responsabile del suo discorso su Dio.
A questo modo si può allora cercare di recuperare il libro di Giobbe, pur con la sua apparente incomprensibilità e pur con la sua pluralità di sensi.
Globalmente il libro di Giobbe può essere accessibile come tentativo di liberare l'uomo dal suo discorso stesso su Dio, che gli rende un Dio intollerabile ed invivibile.
Quindi la lettura del libro di Giobbe non solo è metodologicamente interessante per un esercizio concreto della filologia, ma è fondamentale per vedere come funziona l'ermeneutica dell'uomo.

Leggere il libro di Giobbe significa per così dire produrre un effetto boomerang: si parla di Dio, ma il discorso ricade sull'uomo. Anzi quanto più ci sembra di proiettare il discorso al di fuori dell'uomo, tanto più il boomerang ritorna direttamente e velocemente sull'uomo. Per cui l'uomo è vittima ma è anche salvato da questo suo discorso. In tal modo il libro di Giobbe può esser reso meno inaccessibile e meno frustrante.



DIBATTITO


1. Nella prima parte della relazione è stato messo in evidenza che un approccio filologico non può essere esaustivo. Mi chiedo allora se non sia il tema del male la causa fondamentale di questo che chiamerei caos mentale, per cui saltano le regole. Quando uno soffre, quando uno è vittima dell'ingiustizia, quando è preso in un circuito infame, in un complotto, come si direbbe oggi, saltano le regole della grammatica. Saltano i personaggi, questi si mischiano: diventi buono o cattivo, senza più punti di riferimento, trovi Dio che punisce, che si vendica. Si diventa tutto questo, salta tutto, si vive nel caos.

Condivido perfettamente questa osservazione, anzi vorrei accentuarla ancora di più, perché proprio di fronte al problema del male si avverte quanto sia fatalmente pedestre ed attanagliante la necessità che pure abbiamo della comunicativa. Pur ammettendo che il libro di Giobbe affronti il problema del male, di fatto è un testo che non solo è stato trasmesso ma deve a sua volta essere ritrasmesso e come tale deve essere coartato nella materialità della comunicativa. Qui si avverte effettivamente il destino tragico (prima parlavo, forse riduttivamente, di impotenza) a cui è costretta la comunicativa umana, che si sente non solo insufficiente ma addirittura condanna se stessa.
Al di là della filologia, ci si dovrebbe chiedere addirittura con quale diritto si possa trasmettere il libro di Giobbe.


2. Riguardo alla polisemia del libro prima accennata dal relatore, mi è venuta in mente l'interpretazione che René Girard ha dato del libro di Giobbe, cioè di un uomo ricco, probabilmente il re di una città, di un popolo, che prima è osannato e poi è messo sotto processo come capro espiatorio, reso responsabile di tutti i mali della città e del popolo. Ma Giobbe rifiuta, a differenza di Edipo che invece accetta di fare la parte del capro espiatorio di Tebe, se ne va via e libera la città. Di fronte a tale differenza René Girard dice che l'immagine religiosa di Giobbe sarebbe quella di trovare non il Dio dei persecutori, come si comporta Dio rispetto alla vittima sacra, ma il Dio che fa sua la parte della vittima, lo sono rimasto un po' sbalordito da questa interpretazione, se essa è possibile.

Io credo che di questi significati globali (attribuiti a chi? A Giobbe o al libro di Giobbe?) ne emergeranno diversi durante gli interventi programmati da questo corso biblico. Speriamo anzi che ne vengano fuori diversi, dai più antichi ai più moderni. lo ho voluto semplicemente tentare di dare un fondamento (per modo di dire) esegetico-filologico alla legittimità di tutte queste interpretazioni globali, sia di Giobbe sia del libro di Giobbe, perché il libro stesso nella sua globalità permette questi accostamenti.
Si potrebbe però dire anche qualcosa di più su questa interpretazione particolare di Girard. René Girard parla soprattutto del Giobbe di partenza e di quello di arrivo, ossia dell'uomo più ricco dell'Oriente, quindi di un uomo eccezionale. Non è quindi l'avventura di tutti.
Ciò pone il problema se Giobbe debba essere affrontato dal di dentro di se stesso, cioè dalla sua vicenda così come viene narrata dal libro, pur con tutte le sue difficoltà, o dal di fuori. Giobbe segna sempre uno spartiacque. La decisione di vederlo dal di fuori o dal di dentro, prima o dopo che cominci la sua avventura (Girard sceglie il primo punto), da che cosa dipende?
Questo è il vero problema. Non so se dipende da una qualche scelta aprioristica condizionata, per esempio da una precomprensione della avventura di Giobbe che permette di trascenderla e di giudicare Giobbe solo dal punto di vista dell'esito finale. Comunque sia, questa interpretazione di Giobbe al di fuori di Giobbe, cioè del Giobbe reintegrato, per cui l'avventura narrata nel libro sarebbe solo una parentesi, si è fatta sentire decisamente nella cultura moderna. C'è però da chiedersi se non sia una specie di recupero, una specie di rivendicazione delle tante interpretazioni che sono state proposte dal di dentro, che sembrano addirittura paradossali o contraddittorie in se stesse. È quasi una specie di insoddisfazione per la mancanza di conclusioni a cui si arriva nel trattare Giobbe dall'interno.


3. Mi ha fatto molto piacere sentire parlare non tanto di teodicea, quanto piuttosto di antropodicea, ossia della difesa dell'uomo. Dio lo costruiamo noi, a nostra immagine e somiglianza. Si tratta allora di liberare l'uomo da quel Dio che l'uomo stesso si è costruito. Per me personalmente questa interpretazione è piacevole; se ne parlava prima durante l'intervallo, e una signora diceva anzi che noi abbiamo dimenticato che tutti i testi sacri hanno come base il simbolismo, ossia Dio considerato in un modo o in un altro. Non è quindi il vero Dio: siamo alla ricerca, vogliamo costruire un Dio che ci faccia comodo. Se ci da la pioggia, va bene; ma perché ci da il terremoto che fa male? Sono discorsi molto popolari, ma danno il senso dell'immagine di Dio. lo sto convertendomi su questi punti. Se vale per Giobbe, vale per tutti i libri della Bibbia; come per tutti i libri dei testi sacri del Buddismo, dell'Islamismo, ecc. Spero che ci voglia dire qualcosa su questa mia riflessione.

Un autore francese contemporaneo, Charles Larmore, ha detto: “Dio è talmente grande che non ha bisogno di esistere”. In altri termini, Dio, se è Dio, lo sia veramente ma la sua esistenza crea già un rapporto con l'uomo che pone in atto un meccanismo di costruzione e di decostruzione. Il libro di Giobbe è sostanzialmente un libro di antropologia, pur esprimendosi in termini teologici. Ed effettivamente anche tutta la Bibbia è scritta da uomini, da mani umane, pur parlando di Dio. Del resto tutto il discorso teologico è di questo genere: la penna o la lingua è sempre dell'uomo, pur trattando di Dio.


4. Mi ha molto colpito quello che hai detto sul fatto che Dio si deve allontanare da Giobbe perché Giobbe viva. lo ho legato tale richiesta di Giobbe a due aspetti, il primo di carattere più generale, culturale, ed il secondo psicologico. Dall'induismo in poi Dio si ritira sempre più dal mondo, che prima aveva invaso, va sempre più nel cielo. Questo viene detto da tutta la filosofia e la cultura moderna e lo riconosce in qualche modo anche la chiesa quando si mette contro la modernità, dal Sillabo in poi. L'altro aspetto, come ho detto, è psicologico. Noi credenti, cristiani, ci portiamo dentro un condizionamento esterno che in qualche modo opprime la nostra capacità di essere uomini, io volevo allora chiederti di specificare un po' di più quanto queste sensazioni che mi son venute fuori dal tuo stimolo siano vere, tutto il senso di colpa, il super-io che ci portiamo dentro, ecc.

Il discorso sarebbe troppo lungo e complesso. Quello che ho voluto dire, prendendo spunto dalle parole stesse di Giobbe, è che in fondo il libro di Giobbe ci educa a capire un certo Dio che noi abbiamo creato e che ci può opprimere perché paghiamo le conseguenze del come lo abbiamo creato. Ma questo non significa fare in modo che Dio non esista più, tutt'altro. Significa solo correggere, per quanto è possibile, il nostro discorso su Dio e fare in modo che la teologia, nel senso etimologico del termine, ossia discorso su Dio, non debba subirne le conseguenze. Anzi, tutto ciò ci invita a riflettere sulle conseguenze che la cultura moderna sta pagando per una teologia che si è riversata contro l'uomo: i sensi di colpa, un'etica legata strettamente ad un certo concetto di Dio, e così via.
Certo qui il discorso rischia di essere anche banale, però, se riflettiamo bene, questa situazione ci può ridurre a riconsiderare attentamente tutto il linguaggio antropologico della teologia, e chiederci perché esso coinvolga anche una visione negativa dell'uomo. Tale linguaggio si proietta su Dio, ma in sostanza sorge dalla percezione che l'uomo ha di sé. Ma, allora, Dio resta solo il punto di passaggio per ritornare sull'uomo e per poter dire qualcosa di lui.
Pare che il libro di Giobbe possa invece educarci a parlare di un Dio che resti Dio, che si allontani perché l'uomo possa vivere nella sua pienezza o perlomeno lasciare che l'uomo si espanda come deve espandersi. Finché l'uomo non ha scoperto definitivamente se stesso, come fa d'altra parte a parlare di Dio?
Riprendendo una certa visione cosmologica degli antichi, questo problema si può esprimere in modo più ingenuo, ma anche più efficace: gli dei in un primo tempo non abitavano in cielo ma sulla terra, al centro del. mondo; solo in un secondo momento sono stati trasferiti in cielo. Perché si è sentita la necessità sul piano mitologico, di allontanare gli dei in cielo? Ciò è avvenuto quando si è affermata una determinata concezione del mondo, che ha distinto tre livelli: il cielo, visto appunto come abitazione degli dei, la terra, appannaggio dell'uomo, e il mondo sotterraneo, sede delle forze caotiche. Il cosmo risulta allora fondato su un equilibrio instabile, che i miti di origine pongono in evidenza, e che in sostanza riflette la paura dell'uomo di essere sopraffatto dal male, in maniera imprevedibile e gratuita. Ma proprio la conservazione dei tre livelli distinti, che comporta anche la lontananza degli dei dalla terra, da all'uomo una certa sicurezza, la garanzia cioè di non essere vittima del rovesciamento di un cosmo che egli stesso ha pensato e organizzato in questi termini.


5. Nel mondo cattolico Dio è sentito ancora come una oppressione, ma nel resto del mondo la mancanza di Dio è mancanza di etica e di legge. Se noi non colmiamo rapidamente questo divario, se stiamo sempre a pensare al Dio che ci ha oppresso, mentre il mondo di fuori soffre ed è allo sbando per la mancanza di legge morale, ci troveremo nell'impossibilità di poter dire una parola costruttiva per il mondo, ma anche per noi stessi.

Per fortuna, Giobbe appartiene all'Antico Testamento. Giobbe non è cattolico, non è del Nuovo Testamento, il suo messaggio sembra più universale o universalizzabile rispetto a quanto può essere sopravvissuto di Giobbe e del libro di Giobbe all'interno di una interpretazione o di una esegesi cattolica. Molto più ampio è il respiro di Giobbe. Il discorso liberante su Dio è già implicito in Giobbe, a prescindere da ogni eventuale oppressione, che noi saremmo tentati di attribuire alla tradizione cattolica. Il discorso che Giobbe fa su Dio è di ben altra natura rispetto a quello condizionato da una qualche tradizione religiosa.


6. La sera in cui mio figlio è morto in un incidente stradale, è venuto a trovarmi un amico carissimo che piangendo mi ha abbracciato e mi ha detto: “Dio ha voluto provare la tua fede”, lo non ho mai pensato né penso adesso che potesse essere vera una tesi simile, altrimenti avrei parlato a Dio, come ha fatto Giobbe: “Vattene, fammi vivere, lascia perdere, fatti gli affari tuoi, chi ti ha chiesto queste prove?”. lo credo che il problema di Giobbe, anche con tutte queste difficoltà di comprensione, è dentro il nostro modo di pensare e di vedere. Vorrei sapere se è possibile trovare nel libro di Giobbe qualcosa di reale e di concreto a cui riferirsi, che desse delle risposte sull'effettivo significato della vita e della morte, almeno un piccolo significato, anche se non quello globale.

È difficile rispondere. Un testo così difficile, come quello di Giobbe, non dà delle risposte immediate. Come si sa, le risposte sono sempre proporzionate alla domanda, per cui anche il libro di Giobbe deve sottostare a questa legge ermeneutica e quindi potrebbe certo dare una risposta in base al tipo di domanda che gli si rivolge. Se però lasciamo da parte per un istante il libro di Giobbe e pensiamo al personaggio Giobbe, un insegnamento che si può trarre da questa sua figura, anche intesa nel modo più tradizionale, è proprio quella che di fronte a problemi del genere, è meglio tacere che parlare, e questa naturalmente non è una semplice regola di galateo.


7. La risposta di Giobbe a Dio si conclude con questa frase: «lo ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (42,5-6). Quest'uomo giustissimo, che si accanisce in tutto il libro nel difendere il suo essere giusto, si scopre alla fine peccatore. Dopo 41 capitoli e dopo il discorso di Dio, Giobbe si scopre creatura e come tale fallibile e quindi peccatore. È forse questo il messaggio del libro? Mi viene anche in mente il passo del Vangelo in cui Gesù racconta del pubblicano e del fariseo: il pubblicano nemmeno osa entrare dentro il tempio, mentre il fariseo si loda e ringrazia il Signore per essere giusto, per non essere come il pubblicano, e quindi non chiede perdono di nulla. Alla fine Gesù fa notare che il pubblicano viene giustificato e l'altro no. Ci può essere una correlazione con la figura di Giobbe?

La frase pronunciata alla fine del libro da Giobbe non rivela un pentimento nel senso tradizionale della parola, ossia la conversione da uno stato di peccato ad uno di grazia. Giobbe semplicemente riconosce il fatto meraviglioso che Dio gli si è rivelato con la teofania e sceglie perciò di tacere. In questo senso il testo parla di pentimento, Giobbe ritrae quello che ha detto. Viceversa Dio stesso condanna e dichiara ingiusti i suoi amici, perché non hanno detto di lui cose rette come il suo servo Giobbe (42,7). C'è proprio una inversione dei termini a sfavore degli amici. Giobbe torna come era prima, non in conseguenza di questo eventuale pentimento, ma solo per riprendere la logica del prologo.


8. Di fronte al problema del dolore e della sofferenza, che non sembra avere una qualche giustificazione, si trova in migliori condizioni chi crede in Dio (come Giobbe, anche se ha con Dio un dialogo faticoso) oppure chi non crede in Dio?

Forse ciò dipende da quale sia il Dio a cui si crede. Se si crede in un Dio a cui si chiede di allontanarsi, potrebbe essere avvantaggiato chi non crede in Dio rispetto a chi crede. Tuttavia credere o no in un certo Dio, tutto sommato, è secondario rispetto a questo tipo di problematiche; credere in Dio potrebbe infatti significare aderire o meno ad una dottrina di Dio, che rende Dio funzionale, se non addirittura un funzionario.


9. Credo che il libro di Giobbe vada visto come il più lungo midrash che ci sia nella letteratura ebraica. È una storia dove ognuno ha la sua funzione. Anche questo Dio che lei ha definito funzionario, si comporta in maniera che non è da Dio Padre, gioca infatti con Satana, fa le scommesse, ecc. Allora dobbiamo considerare il midrash solo come un insieme di insegnamenti. Innanzi tutto il parallelismo su cui insistevano gli amici di Giobbe, tra il dolore ed il male, non è vero. Il secondo insegnamento da trarre è che alla fine dovremmo accettare un insegnamento sul tipo di quello di Qoèlet, ossia prendere la vita come viene, pregare Dio ed osservare i comandamenti perché Dio si presenta come un grande mistero. La teofania, nel caso di Giobbe, ci svela il mistero, nel senso che quel Dio che non è tale all'inizio, quel Dio che litiga con Satana, compare invece come Dio quando si giustifica del suo comportamento, elencando le cose che ha fatto. È sufficiente questo insegnamento e non è vero che alla fine si aggiusta tutto. I figli ed i servi di Giobbe sono morti; è vero che Giobbe riacquista la sua potenza ed il suo denaro, ma i servi che non c'entravano niente non ci sono più. Ed allora ecco che tutto si ridimensiona in un insegnamento veramente efficace, che ci serve per far capire quello che possiamo capire, mentre il mistero rimane e non ce lo spiega nemmeno Giobbe.

Condivido pienamente questa sua lettura del libro di Giobbe, intendendolo proprio come un midrash che interpreta se stesso, al di dentro di se stesso. Tuttavia anche in questo caso noi facciamo leva su questo Dio che si rivela nella teofania finale, dove vediamo la scappatoia verticale verso il mistero di Dio.
C'è anche questo. Però possiamo domandarci: è questo il significato globale del libro di Giobbe? Il lieto fine è relativo, come tutti i lieti fini delle favole: “vissero felici e contenti”, s'intende finché non morirono; anche Biancaneve è risorta, ma poi sarà morta una seconda volta. In questo caso apprezziamo dunque questo Dio della teofania nel contesto del libro di Giobbe, ma se leggessimo questi capitoli separandoli dal libro stesso, potremmo capire perché Dio debba presentarsi così, perché debba fare una lode così ampia di se stesso, delle sue opere?


10. Voglio solo puntualizzare che si parla e si scrive tanto intorno alle sofferenze degli uomini. Ma per le donne non è mai stato scritto tanto. Forse le donne sono abituate. Il tutto mi da fastidio. Confermo il primo intervento, quello che nel momento della sofferenza saltano tutte le regole. Mettere dentro non aiuta, il cuore si riduce ad una situazione che sfasa completamente la vita di una persona.

Non so rispondere perché il libro sia scritto da un uomo e non da una donna. Anche altre parti della Bibbia, se parlano di donne, sono però di mano maschile. Purtroppo è così, pur con tutte le ragioni che si possono addurre a giustificazione o meno. Per tornare al primo intervento, è vero che Giobbe parla del male, ma attenzione a non identificare il libro di Giobbe con il problema del male tout court. Se supponiamo che il libro di Giobbe sia la trasformazione letteraria e narrativa di quello che noi chiamiamo il problema del male, un trattato sul male, allora diventerebbe anche una finzione che ne parla in maniera drammatica, che tutto sommato è un po' irreale. In tal caso il libro potrebbe assumere una funzione catartica. Come mai tutto è un dramma, a cominciare dal personaggio eccezionale di Giobbe, un dramma che si svolge in una situazione che sembra creata appositamente perché si svolga secondo regole precise, e che non corrisponde alla realtà degli uomini comuni? Non dimentichiamo che Giobbe era «il più grande tra tutti i figli d'Oriente» (1,3).


11. Mi sono sfuggiti alcuni passaggi tra la prima e la seconda parte della relazione. Tra la seconda parte e la prima che riguarda il metodo filologico c'è una connessione? È soltanto una interpretazione a posteriori la tesi del capovolgimento della teodicea o è ispirata da una attenta lettura dei contenuti? Che rapporto stretto c'è tra la prima parte e la seconda?

La seconda parte vuole essere solo una conclusione (tratta dalla situazione filologica del libro) che in qualche modo rende possibile un'esegesi di questo testo difficile. La pluralità dei sensi, che la filologia rivela, non deve portarci alla disperazione ermeneutica. Si può perciò vedere nel libro di Giobbe un qualcosa che ha senso e che libera anzi da interpretazioni troppo ristrette, come quella di un Dio che è troppo legato al modo in cui lo vediamo.



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