A.R.CO. Associazione per la Ricerca e la Comunicazione


Vai ai contenuti

1. Beniamino Placido 10.11.1994

Bibbia > 3° Corso di cultura biblica: Gesù di Nazareth, ebreo di nascita cristiano di adozione (1994-1995)



trascrizione integrale


Presentazione del Corso



Cari amici, e prima ancora care amiche naturalmente, grazie. Mi considero molto onorato, molto fortunato per questa occasione che mi è stata offerta, per l'argomento sul quale sono stato invitato a parlare. È inutile che io ripeta la formula d'uso: a questo argomento, a questo alto soggetto non sono adeguato. È inutile, non già perché non sia vero, ma perché lo è anche troppo. È ovvio, è scontato. Chi mai potrebbe sentirsi, dirsi adeguato al tema di Gesù di Nazareth?

Ma questo, lungi dal crearmi imbarazzo, mi ispira una certa allegria che spero di comunicarvi, almeno in parte. “Il buonumore è un dovere” diceva il filosofo francese Alain. Nessuna formula filosofica mi è mai sembrata più bella ed anche più cristiana. II buonumore è d'obbligo quando si affronta un argomento così vasto e problematico. È il risultato inevitabile e benvenuto di un siffatto tema perché al termine dell'incontro con il problema di Gesù di Nazareth ci si sente in pace con la “cultura”, ma cos'è la “cosiddetta cultura”? Una volta ne sono state elencate trecento definizioni, ma una è quella che funziona. L'ho letta chissà dove, ma non importa, la ricordo benissimo, e come potrei dimenticarla? Suona così: “La cultura è un viaggio senza fine alla scoperta della propria ignoranza”.

Vediamo cosa vuol dire. Ecco, una persona si mette in testa un certo giorno, non avendo fatto gli studi classici (non è il mio caso, io li ho fatti, non ho imparato niente e ho dovuto ricominciare tutto daccapo), una persona - dicevo – si vuol mettere in pari con la cultura classica (almeno quella!) e si mette a studiare il latino. Poi va in giro per Roma e si vanta con gli amici di leggere Tacito nell'originale. “Ah sì!”, gli diranno gli amici, “il latino! E il greco? Ma tu davvero credi di poter fare i conti con la cultura classica (inaudito!) saltando sulla testa dei greci? Ma va là!”.
Allora il nostro omino torna a casa e si mette pazientemente a studiare il greco. Dopodiché, orgoglioso di quanto ha fatto, si ripresenta in piazza, o al caffè, o in ufficio. “Bravo, bravo!”, gli amici gli diranno, “e l'ebraico? Ma non lo sai che una volta, fino a un decennio fa, una persona per bene non studiava il greco e il latino, ma studiava il greco, il latino e l’ebraico? Si può sapere come si fa a farne a meno se si vuol penetrare nel mondo antico? L’Antico Testamento in che lingua lo leggi?”.
L'omino torna a casa di nuovo e dopo mesi, anni di studio, matto e disperatissimo, si impadronisce anche dell’ebraico ritenendo che i suoi guai così siano finiti. Si illude, troverà sempre qualcuno che gli dirà: “Secondo te gli ebrei della Bibbia vivevano nel vuoto? Hanno inventato tutto loro? Essi avevano delle formidabili civiltà intorno a loro, a Babilonia, a Luxor, al Cairo. Di un po’, come te la cavi con l'accadico? Di un po’, lo sai sgrovigliare un geroglifico?”.
A quel punto il nostro omino può fare due cose: suicidarsi subito, sul posto, o abbandonarsi ad una risata liberatrice. Ha capito che la cultura altro non è se non un viaggio senza fine alla scoperta della propria ignoranza. È come mirare il cielo stellato: più stelle si individuano, più stelle si scopre che ci sarebbero ancora da individuare.
Ecco perché la cultura genera allegria quando porta a questo esito. Ecco perché è facile distinguere un uomo di cultura da uno stolido accademico. Il vero uomo di cultura non si vanta mai della cultura che ha. Sa che è sempre e comunque pochissima, una porzione infinitesimale di quella che si dovrebbe e si potrebbe avere. Lo stolido accademico che esibisce il suo sapere è, per l'appunto, uno stolido accademico. Corrisponde perfettamente alla definizione di Ambrose Bierce: “Learning is the kind of ignorance distinguishing the studious”. Traduzione: “Il sapere è quel tipo di ignoranza che distingue lo studioso”. Lo studioso accademico, aggiungiamo, dove per accademico non si intendono quelli che popolano l'Accademia, ma quelli che ne hanno la mentalità.

Qualcuno mi ha detto, un giorno: “tu sei curioso delle tue origini e delle origini del cristianesimo, e vorresti capirci qualcosa senza conoscere l'ebraico? Ah!Ah!Ah!” Sono andato alla Gregoriana a studiare l'ebraico con il professor Gianluigi Prato che mi ha invitato qui e che qui ringrazio. Ebbene, dopo qualche momento di smarrimento, dopo qualche altro momento di cupa disperazione, ho imparato l‘ebraico. Voglio dire, non spaventatevi, che ho imparato a studiarlo. Ho imparato quali sono le grammatiche, quali sono i vocabolari, quali sono i prontuari da utilizzare per poter compitare un po’ di ebraico che continuo a studiare assiduamente un po’ al giorno, anche pochissimo, ma ogni giorno. Perché un'altra cosa mi ha insegnato il professor Gianluigi Prato e non intendo più dimenticarla: noi che tentiamo di imparare qualcosa siamo su una barca a remi che risale il fiume, se per un momento ci riposiamo, se solleviamo i remi per riprender fiato, non
restiamo nello stesso punto, andiamo contro corrente perciò la corrente del fiume ci spingerà all'indietro.

Quindi confesso che so pochissime cose
su Gesù. Saperne qualcuna di più quando capita, come in questo corso, mi da un immenso piacere. Ma non mi illudo, proprio no, di poterne mai sapere abbastanza. Mi metto a ridere pensando alla mia ignoranza, ma ridendo e scherzando mi metto al lavoro per ridurla quel poco che posso. Sarei matto io, sarebbe matto chiunque pensasse di poter venire a capo del problema.
C'è, al centro di Roma, la Libreria Herder, in piazza Montecitorio. È un luogo di riposo, un'isola, un'oasi nel centro della città. Ci sono libri bellissimi, coloratissimi, con le belle copertine lisce, buone da carezzare. Ci sono librai colti e gentili che ti aiutano. Talvolta qualcuno di questi librai e libraie va in Germania a salutare la mamma, i parenti, e ne riporta una torta tedesca della quale, se capiti nel momento giusto, ti fanno assaggiare un pezzo. Provate a chiedere entrando nella libreria: “È vero che è uscito un nuovo libro su Gesù? È arrivato?” Rispondono: “Certo che è vero. È uscito, se non è arrivato, arriverà”. Ogni giorno esce un libro su Gesù. In inglese o in francese o in tedesco o - perché no? - in Italiano.

Dunque è vietato illudersi che riusciremo mai ad arrivare al fondo del problema, a definire con esattezza il profilo e il ruolo di Gesù. Come di tanti altri personaggi sappiamo pochissimo, non sapremo mai abbastanza, non sapremo mai tutto. Però qualcosa la sappiamo, e soprattutto sul modo di procedere, qualcosa la possiamo intuire. Sappiamo, per cominciare, che le ipotesi sul profilo e sul ruolo di Gesù di Nazareth sono molte.
L'anno scorso, dovendo recensire il libro di Cesare Mannucci che s’intitola
L'odio antico, pubblicato da Mondadori, che tratta dell'antisemitismo a volte predicato, a volte addirittura praticato dalla Chiesa, mi sono trovato fra le mani come per incanto, se preferite per maleficio, una decina di testi sul problema. Chi dice che Gesù di Nazareth non è mai effettivamente esistito, chi dice che è esistito, sì, ma era un mago come tanti altri, chi dice che era un esseno della comunità di Qumran, chi dice che era uno zelota che non vedeva l'ora di organizzare una bella ribellione contro Roma per distruggerla, quella gran meretrice.
Fra tanti dubbi, una cosa certa: l'attrazione che la figura di Gesù ha esercitato ed esercita sulla nostra cultura. Faccio l'esempio più noto perché più clamoroso: il Gesù che torna sulla terra nell'episodio del Grande Inquisitore che si trova all'inizio de
I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Gesù riappare a Siviglia dove il Grande Inquisitore, vecchissimo e spietato, tiene sempre un fiammifero acceso sotto il rogo degli eretici, o presunti tali. Il Grande Inquisitore si fa incontro a Gesù e gli dice: “Ma che cosa sei tornato a fare? Ma cosa ti sei messo in testa? Non hai trovato quello che ti aspettavi, non è vero? E perché mai te l'aspettavi? Gli uomini non sono come tu te li immagini, come tu volevi che fossero. Gli uomini vogliono: primo, la pancia piena; secondo, un bel po’ di miracoli, se è possibile; terzo, il potere, tutto il potere possibile. E adesso, sai che facciamo? Mandiamo al rogo anche te”.

Perché tanta fascinazione per la figura di Gesù? Perché è una figura straordinaria. Perché ha lanciato quell'enorme, inaudita sfida: gli uomini possono essere diversi e migliori. Questo è quel che della figura di Gesù importa, il resto - com'era veramente nella realtà, se era buono o cattivo, se andava a trovare la nonna, se giocava a palla coi compagni - ci interessa assai meno, potrebbe non interessarci proprio per nulla.

Il più bel libro di critica letteraria che il Novecento abbia prodotto è indubbiamente
Mimesis di Auerbach, tradotto da Einaudi. Si sostiene in questo libro che con l'avvento del cristianesimo si realizza una frattura nella letteratura occidentale: quegli uomini che prima non potevano essere presi in considerazione se non in termini patetico-caricaturali, adesso possono essere trattati con rispetto, devono essere trattati con rispetto. Nella letteratura precristiana Renzo Tramaglino non poteva assurgere a protagonista di un romanzo. Nasce la categoria letteraria, culturale, del “creaturale”. Non è che una povera creatura, ‘na criatura direbbero a Napoli, questo essere che abbiamo davanti, ma le dobbiamo ugualmente considerazione e rispetto perché è pur sempre una vita umana. “Una vita umana non vale nulla, ma nulla vale quanto una vita umana” (André Malraux).
Per via di questa rottura, di questa rivoluzione, non possiamo essere indifferenti alla figura di Gesù, al suo messaggio. Non possiamo sopportare pazientemente, anche se la pazienza è una virtù cristiana, i tentativi di riduzione ai suoi danni.

Il libro di Vito Costantini dal titolo
Freud e Gesù si chiede: “Perché Freud si è tanto occupato di Mosè e tanto poco di Gesù?” È interessante più per quel che riguarda Freud che per quel che riguarda Cristo. Qualche anno fa la Rai (Radio tre) organizzò una serie di trasmissioni intitolate L'eroe sul sofà, affidandole a degli scrittori importanti. La figura di Gesù fu affidata allo scrittore Giuseppe Berto. Che cosa avrebbe detto Gesù di Nazareth disteso sul divano di uno psicanalista? Giuseppe Berto distese Gesù di Nazareth sul divano dello psicanalista e lo fece parlare. Ne risultò che si trattava di un giovane che non sapeva chi era suo padre, quindi con il complesso del bastardo, e per compensazione, con un enorme complesso di superiorità. A dodici anni si fa trovare a disputare con i dottori nel Tempio. Si trattava di un uomo deciso a combattere con la morte e deciso a sconfiggerla morendo, ma non nel modo banalissimo in cui moriamo, meglio moriremo noi, come Pinocchio dicendo “mi dispiace morire”, ma sacrificandosi per gli altri.
Interessante, vero? Interessante sì, finché non s’incappa nella visione, o nel ricordo, di una certa vignetta. Parlo di una vignetta di Pericoli e Pirella apparsa sul
Corriere della Sera di qualche anno fa, una vignetta in tre quadri, in tre tempi. Primo quadro: si vede Hitler affacciato al suo balcone, o in piedi sul suo palco, che fa uno dei suoi deliranti discorsi. Didascalia: bisogna fare la psicanalisi di Hitler. Secondo quadro: si vede la folla che lo applaude. Terzo quadro: si vedono insieme Hitler che parla e la folla che lo osanna. Didascalia: adesso bisogna fare la psicanalisi di tutti gli altri.

È sempre lì il problema. Noi possiamo fare la psicanalisi di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Ciceruacchio e del sindaco incompetente della nostra cittadina, scopriremo che il nostro sindaco - goffo e incompetente - al pari di Alessandro, di Giulio Cesare, di Ciceruacchio, è afflitto da chissà quali complessi, ma anche noi quei complessi ce li abbiamo, in misura più o meno tollerabile.
Non ci accade però di trascinare le folle (e meno male). Non scatta tra noi e le folle quella scintilla che trasforma una nevrosi personale, se di nevrosi si tratta, in una emozione, in una esaltazione collettiva. Non si realizza nessuna coincidenza significativa fra noi e gli altri che, in quel momento e in quel posto, non hanno nessuna voglia di seguirci né alla conquista del mondo (è il caso di Alessandro Magno), né alla riconquista del Regno di Dio (è il caso di Gesù). Bisogna fare la psicanalisi, o l'analisi semplicemente: storica, sociologica, etc., di tutti gli altri. Per questo studiamo Gesù nel giudaismo del suo tempo.

Su
Venerdì di Repubblica (04.11.1994) c’è un'intervista a Vittorio Messori, autore di ben noti libri su Gesù, tra cui Ipotesi su Gesù, il più fortunato di tutti. Dichiara Messori in questa intervista: ”Oggi bisogna ricominciare daccapo, ricominciare a chiedersi se Gesù sia veramente esistito”.
Mi viene voglia di dire
bah! oppure boh! o anche e beh? Che cosa ci guadagniamo ad accertare che Gesù sia veramente esistito?
Mi sembra di trovarmi di fronte a quel tipo di saggio storico americano intitolato
Ma è veramente esistito un uomo chiamato Franklin Delano Roosevelt? Ma certo che è esistito, se c'è il New Deal qualcuno deve averlo fatto. Oppure di fronte a quel tipo di saggio scherzoso che circolò per qualche tempo nella Francia dell'Ottocento: eccoci qui, pronti a dimostrare che Napoleone non è mai esistito, è solo la personalizzazione, per il tramite dell'allucinazione collettiva, di un culto solare.
E a noi che cosa importa? A noi importa che ci siano gli effetti di Napoleone Bonaparte. E ci sono, si vedono persino nella letteratura: “Viene Napoleone” - dice Marthe Robert – “e nasce, o fiorisce il romanzo moderno”. Quel tipo di romanzo (Stendhal, Flaubert) in cui un giovane di nascita non eccelsa si prepara a conquistare il mondo, si affaccia su Parigi e dice: “Parigi, sarai mia”. Come aveva fatto Napoleone che non poteva vantare una grande nascita, non era certo di stirpe regale e tuttavia osò sfidare, qualche volta battere, tutti i re della terra insidiando la struttura stessa del concetto di regalità.
Di fronte a questi fatti - constatabili, non contestabili - che importanza volete che abbia se Napoleone era un uomo in carne ed ossa, o un pupazzo di legno, o un attore del varietà?

Adesso chiedo aiuto, ancora una volta, a Gianluigi Prato che è di Savona. Di Savona era anche il Presidente Pertini che non era nessuno prima di ascendere alla carica di Presidente della Repubblica. Era considerato un socialista buono, molto buono, troppo buono. Nei congressi del Partito Socialista Italiano cui apparteneva, le sue mozioni prendevano sì e no il due per cento. Poi un certo giorno, per un complesso di circostanze fortuite, viene eletto Presidente della Repubblica. Quelle stesse sue qualità – onestà, bontà, bonomia - che parevano inconsistenti in precedenti circostanze, entrano in combinazione, in comunicazione con certe esigenze di trasparenza, di pulizia del cittadino medio ed ecco Pertini assurgere al ruolo di grande Presidente, di grande personaggio politico.
Ma siamo seri: è mai esistito veramente Sandro Pertini? O è esistita piuttosto una fortunata coincidenza fra le sue qualità e le esigenze di quei cittadini, in quel momento?

Dunque, studiamo piuttosto quel che accadeva in Palestina in quel tempo, al tempo di Gesù. Comandavano i romani, come bisognava atteggiarsi nei loro confronti? So pochissimo a riguardo, di più vorrei imparare nel corso di questi incontri.
Saccheggiando e parafrasando un libricino assai utile (
The World of Jesus di John Riches, Cambridge University Press, 1990) azzardo che c'erano in campo cinque posizioni. A un capo dello spettro c'è il movimento di Giovanni Battista: pentimento e battesimo. Subito dopo i sadducei che riconducono tutto alla scrupolosa custodia delle tradizioni del Tempio. Un po’ più al centro i farisei che spostano la religiosità dal Tempio - troppo colossale ed estraneo – verso la sinagoga, il focolare, la casa, “dalla politica alla pietas” (From politics to pietas è il titolo di uno dei più bei libri sui farisei). Poi c'è quella strana comunità degli Esseni sul Mar Morto, segregata dal resto del mondo: buoni sono loro, gli altri sono tutti cattivi. Infine ci sono gli zeloti che vorrebbero cacciare i Romani subito e vanno a suicidarsi a Masada.
Gesù era più vicino al movimento del Battista o alla comunità di Qumram, o al movimento degli zeloti?
Di questo si discute, è questo che non si sa. Così come si discute fra due storici della forza di Hengel e Fraire sulla natura stessa dell'ellenismo, in quel mondo e in quel tempo culturalmente imperante.

Ma sul fatto che Gesù ci sia stato, chiunque egli sia stato, e che abbia sconvolto col suo intervento quel panorama per i secoli avvenire, non c'è alcun dubbio. Posso provare a spiegarlo con una storiella. È una storia vera, è capitata a me.
Nei miei anni universitari (siamo nei primi Anni '50) una volta esauriti i miei studi di lettere, andai a frequentare le lezioni di Storia del cristianesimo tenute da Ambrogio Donini il quale aveva una sola idea in testa: che il cristianesimo altro non fosse che una delle religioni misteriche, diffusissime nel mondo antico. In queste religioni, la cui più nota è quella di Mitra, c'è sempre la figura di un Dio che muore e poi rinasce. Aggiungetevi il fallimento della rivolta di Spartaco, la rivolta degli schiavi. Fallisce quella rivolta e gli schiavi, le persone umili si raccontano: “piantiamola di sperare che arrivi qualcosa di nuovo su questa terra, mettiamoci in attesa del regno dei cieli”.
Il professor Ambrogio Donini era molto colto e molto amato, forse per questo conservo un certo affetto per quella ipotesi alla quale rimango tenacemente affezionato. Ho letto ed amato, e continuo ad amare,
II fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, dove si narra di un uomo che muore, che finge di morire da qualche parte per rinascere da un'altra. Vogliamo negare che questa voglia di rinascere in qualche modo, da qualche parte è una costante dei nostri pensieri? Dunque, malgrado tutte le critiche che ha ricevuto, questa tesi continua a convincermi. Tanto più mi convinceva allora, avevo poco più di vent'anni.
Passano pochi mesi, cerco lavoro e ne trovo uno presso una rivista diretta da Pier Emilio Gennarini, intellettuale cattolico di grandissima finezza, successivamente uno degli inventori della televisione italiana. Gli racconto gli studi che faccio, gli racconto di questa tesi e ne rimane scandalizzato: “ma no, non è vero, non è possibile, così si schiaccia tutto e non si capisce nulla”.
Passa qualche altro tempo ancora e le strade si dividono. Pier Emilio Gennarini va a fare la televisione, io vinco un concorso alla Camera dei Deputati e vado a fare colà il funzionario. Non ci incontriamo più, solo qualche telefonata di saluto, di augurio nelle festività, per un certo numero di anni.
Passa qualche anno ancora, cambio lavoro, mi ritrovo a
La Repubblica a fare critica televisiva. Su un aereo che mi porta a Torino per un convegno, sulla televisione naturalmente, c'è anche Pier Emilio Gennarini. Ci abbracciamo con affetto, io e il mio vecchio maestro, e maestro lo è sempre. Gli chiedo: “secondo te, a che cosa deve fare attenzione oggi, uno che si occupa di televisione?”. Mi da una risposta inconsueta, assolutamente imprevista: “deve fare attenzione al posto, al peso della parola; non ci si pensa, ma ha un posto enorme”. Discutendo di televisione, tutti parlano dell’importanza dell'immagine, Pier Emilio Gennarini sapeva andare più in là della banalità, sapeva sospettare anche l'importanza della parola, era un intellettuale cattolico di finezza non comune.
Si va a Torino, si va a questo convegno organizzato dalla Fondazione Agnelli, si torna a Roma. Passano quindici giorni e Pier Emilio Gennarini mi telefona di nuovo, ci ribadiamo reciprocamente quanto siano stati conventi di rivederci, poi lui mi dice: “ho pensato che dobbiamo continuarla quella discussione”. “Quale, quella sulla televisione?” chiedo. “No”, mi oppone “non ti ricordi? Quella sulla natura del cristianesimo primitivo. Nella parrocchia della Balduina c'è un sacerdote giovane, molto bravo, che è disposto ad organizzarla. Ci sarà anche questo e quest'altro” e fece il nome di qualche filosofo e di qualche teologo che sarebbe stato della partita. Andammo alla Balduina e riprendemmo quella discussione. Alla fine, guardai l'orologio e mi accorsi di una cosa impressionante: erano passati trentun anni da quando l'avevamo iniziata.
E noi dovremmo, secondo il professor Vittorio Messori, metterci a discutere se Gesù è veramente esistito? In che senso? Se era stato iscritto debitamente all'anagrafe? Se aveva il codice fiscale e quello postale che un giorno forse ritroveremo, in qualche ricerca archeologica più fortunata o più spudorata delle altre? Ma andiamo! Certo che è esistito Gesù, perche è esistito un uomo, comunque identificabile, che ha immesso nella nostra cultura questa carica esplosiva. Una carica esplosiva che impegna talmente l'attenzione di altri uomini, a distanza di due millenni, da farli avventurare in una discussione che riprenderanno poi, come se nulla fosse, trentun anni più tardi.

Mi sono trattenuto sin troppo a lungo, e me ne scuso, su un esempio di carattere personale. Ne farò, per concludere, uno di carattere più generale, universale. Riguarda Pasternak, riguarda Amleto.
Apprendo dal
Corriere della Sera di qualche giorno fa che l'autore del Dottor Zivago ha strapazzato Nietzsche. Ed ha fatto benissimo, perché le cose che Nietzsche ha scritto sul cristianesimo (religione di schiavi, religione di vili) non sono le cose più intelligenti che abbia pensato, sono le più stupide. Pasternak gli dice: “ma cosa credi che non ce ne siamo accorti? Tu credi che il tuo superuomo voleva essere Gesù, pensi che non l'abbiamo capito?” Ben pensato, ben detto.
Ma Pasternak ha fatto di più. Ha scritto una poesia sull'
Amleto di Shakespeare, dove si mette in scena un Amleto appoggiato contro lo stipite di una porta che dice delle parole impreviste, ma comprensibilissime: “Se solo è possibile, Abbà, Padre, allontana questo calice da me”. Anche Amleto è un Gesù perplesso, mandato dal Padre a svolgere una missione doverosa ma amara.
Certo che è esistito Gesù di Nazareth, ed esiste ancora: dentro Shakespeare, dentro Nietzsche, dentro Pasternak, dentro il suo
Dottor Zivago.
E noi dovremmo accertare se sia esistito “veramente” Gesù, quant'era alto, quanto pesava, quanti capelli aveva in testa? Ma figuriamoci. Ma andiamo.



DIBATTITO



Varie persone mi hanno detto che per capire la cultura classica è necessario conoscere il latino, il greco, l'ebraico. La scorsa settimana un'altra persona, Giovanni Semeraro, mi ha detto che è necessario conoscere l'aramaico. Giovanni Semeraro ha pubblicato un vocabolario che gli esperti dicono fondamentale per le lingue indoeuropee. Ma la mia domanda riguarda un piccolo libro, pubblicato da Donzelli, scritto da un filologo russo secondo il quale la letteratura vetero-testamentaria si distingue da quella greca perché la prima ha solo funzione di insegnamento e al massimo di narrazione mentre quella greca, in particolar modo a cominciare da Omero, passa alla fase della descrizione. Io vorrei chiederle se la letteratura su Cristo, e in particolare i vangeli, appartiene alla categoria della letteratura vetero-testamentaria, e quindi a una letteratura pedagogica, narrativa, o ha anche una caratteristica tipica della letteratura greca che è quella di essere una letteratura descrittiva.

Non so rispondere alla domanda su come si pone il NT nel rapporto tra il modo pedagogico e narrativo degli scritti dell'AT e quello descrittivo della letteratura greca. Il modo di raccontare del NT è molto semplice, assolutamente diverso da quello della tradizione greca, la scrittura è paratattica, una cosa dopo l'altra del tipo: egli disse, egli fece etc., tant'è vero che se ci fosse un minimo di buon senso, non si obbligherebbero i ragazzi a studiare il greco sulle poesie di Saffo, bensì sul NT. Il giornalista scrittore Paolo Monelli lo propose cinquanta anni fa, ma nessuno lo ha mai ascoltato, perché la nostra scuola è fondamentalmente una finzione, un teatro dove si finge di imparare il latino, il greco, la matematica, etc.
Il NT è diverso, anche tematicamente. Qualche giorno fa ad Ancona ricordavo l'affermazione di Bertrand Russell che nel NT non ricorre mai la parola “intelligenza”. Non è del tutto vero, se
nous nel NT significa intelligenza nel senso che intendiamo noi, ricorre 24 volte di cui 21 nelle lettere di S. Paolo, ma se anche così fosse, sarebbe proprio pochino: “intelligenza” non è una parola neotestamentaria.
Mi sono sorpreso, proprio in questi giorni, a vedere come tutti girano intorno ai temi proposti dallo straordinario film americano
Forrest Gump, dove la figura di un idiota va incontro ad una serie di fortune. C'è chi ha ricordato la figura dell'idiota di Dostoevskij, chi quella del soldato Schweik, ossia tutte le figure di minus habentes che tuttavia hanno una loro dignità, vengono posti sul proscenio ed indicati come uomini importanti, senza cogliere però il nocciolo della questione, che è descritto in un libro tedesco di Walter Nigg, da noi noto soltanto per una biografia di Don Bosco, II pazzo di Cristo. Nigg dice che con l'avvento del cristianesimo si rende possibile la messa in primo piano di una figura di scemo, che tuttavia benché scemo, e forse proprio perché scemo, ha tutto il suo valore; allinea quindi gli esempi tra cui Erasmo da Rotterdam con l'Elogio della follia, Pestalozzi, San Filippo Neri, Don Chisciotte, etc.
C'è quindi una rottura radicale con la tradizione greco classica che invece prediligeva l'intelligenza, nella forma dell'astuzia come in Ulisse, o in quella dell'intelligenza alta come in Socrate e Platone. Quindi siamo in un altro ordine di valori.
Ciò su cui mi è più difficile rispondere è il rapporto sulla costruzione mentale vetero-testamentaria e su quella greca, più occidentale, più nostra. Molti anni fa ho letto un curioso librone dal titolo
L'ebraico è greco, dove si sosteneva che il greco e l'ebraico sono in realtà la stessa lingua, una follia totale perché c'è una differenza abissale tra i due modi di parlare, di scrivere, di produrre ed organizzare una lingua. Mi mettete tuttavia in imbarazzo se mi chiedete la differenza tra la tradizione ebraica o vetero-testamentaria e la cultura greca. Ci sono tante ragioni ma quella centrale, se c'è, non sono in grado di dirla.

Secondo il filologo russo, nella letteratura vetero-testamentaria non c'è la personalità di chi scrive, come in quella greca. In base a ciò il contenuto pedagogico e narrativo della letteratura vetero-testamentaria ha una valenza di carattere generale, mentre se si scrive per descrivere, si scrive necessariamente qualcosa di soggettivo, interviene l'individuo con la sua soggettività.

Debbo dirle che non trovo tutto ciò affatto persuasivo, perché ad es. la personalità dei profeti dell'AT è molto forte.



ARTICOLI

Forrest come Gesù (Beniamino Placido, La Repubblica 20.11.1994)

I cattolici in maschera nel Placido-pensiero (Roberto Festorazzi, Avvenire 22.11.1994)

Su Forrest fischi per fiaschi (Beniamino Placido, La Repubblica 27.11.1994)

Placido, la cultura e i diritti del cuore (Dino Boffo, Avvenire 29.11.1994)

Home Page | Chi siamo | Attività | Relatori | Bibbia | Chiesa | Etica | Economia | Polis | Pensieri | Audio | Video | Newsletter | Link | Mappa del sito

Cerca

Torna ai contenuti | Torna al menu